Merlincocai – arretrati

                                           Arretrati di Merlin Cocai

 

Ho raggruppato per primi i post di argomento taurino o comunque spagnolo.

 

 

 

                                          Coerenza e selvaggina

 

    La cultura si è allargata e livellata verso il basso? Senz’altro. Ma, a quanto pare, il livellamento ha prodotto anche una discreta confusione mentale.

    Mi limito a un esempio: quarant’anni fa la caccia era ancora considerata “lo sport dei re”, oggi è di moda l’animalismo e tutti seguono la moda. Però ci si guarda bene dall’applicarla con coerenza.

    Da più di quarant’anni sono un cultore di tauromachia. Sapendo che la moda è quella che è, di solito evito di parlarne; ma a cena da amici può capitare che qualcuno mi trascini sull’argomento. In questi casi, puntuale come una cambiale scaduta, salta su una gentile signora che mi guarda con orrore e mi rimprovera.

    “Ma non riesco a crederci! Se l’avessi saputo non sarei venuta qui, stasera! Per me, chi fa del male agli animali dovrebbe essere condannato a morte!”

    Il mio primo impulso è di dichiarare che non mi perdonerei mai se la signora dovesse rimpiangere di essere venuta, e andarmene. Ma la curiosità ha il sopravvento e, prima di salutare i padroni di casa, mi informo:

    “Scusa, ho capito bene? Vuoi dire che tu saresti capace di uccidere un essere umano, ma non un animale?”

    “Ma no… ma che discorso è? Non far finta di non capire…”

    “No, non ho capito davvero. Spiegami. Tu sei vegetariana, anzi vegana? Non mi pare: vedo che porti scarpe di cuoio.”

    “Ma cosa c’entra? Io non ho mai fatto male a nessun animale!”

    “Come no? Abbiamo appena mangiato prosciutto. Qualcuno deve pur avere ucciso e macellato il maiale. O no?”

    A questo punto, di solito, qualche anima generosa interviene a dirottare il discorso su altri temi. Ma la gentildonna ha oscuramente percepito di non essersi coperta di gloria e di lì a poco cerca la rivincita.

    “Scommetto che tu sei anche cacciatore, eh?”

    “A dir la verità, no. A caccia ci sono andato una sola volta nella mia vita e mi è sembrata una faccenda piuttosto noiosa. Però la selvaggina la mangio volentieri.”

    “Ah, be’, cosa vuol dire? La selvaggina piace anche a me!”

    “Cioè l’importante è che a uccidere la lepre sia qualcun altro, vero? Tanto poi lo condanniamo a morte.”

    Il seguito è una normale variazione sul tema: “Come rovinare una bella serata in casa di amici”.

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    Quando penso a questo genere di discorsi, che ascolto sempre più spesso e sui più svariati argomenti, sono letteralmente spaventato dall’incoerenza (starei per dire la schizofrenia) con cui certe tesi vengono avanzate e sostenute.

    Com’è possibile che un essere umano sui quarant’anni non conosca il significato delle parole che usa? Eppure ha frequentato la scuola dell’obbligo e magari nel suo lavoro ha fatto una discreta carriera. Com’è possibile che non sappia correlare l’enunciazione di un principio con la sua applicazione pratica?

    Far soffrire gli animali per il gusto di infliggere sofferenze non piace a nessuno (tranne ai bambini che strappano le ali alle mosche e le code alle lucertole) ma chi vuol mangiare un pollo, un pesce, o una fetta di salame, non può fingere di ignorare che il suo desiderio è causa di morte per un animale.

    Personalmente ho raggiunto un’età in cui gran parte della mia dieta è fatta di frutta e verdura, ma apprezzo ancora il pesce e la carne bianca, e più o meno una volta all’anno mi concedo una costata fiorentina o un piatto di salmì. Sono cosciente del fatto che se in trattoria ordino un piatto di carne un essere vivente muore, ma non mi sento responsabile di essere onnivoro più di quanto un felino sia responsabile di essere carnivoro. Del resto, anche i vegetali di un’insalata sono esseri viventi e dubito molto che sia possibile ricavare un’alimentazione umana completa da materiale inorganico. La vita si nutre della vita; tanto è vero che gli animali, verso i quali siamo tanto compassionevoli, non si fanno il minimo scrupolo a sbranarsi fra loro. Può essere spiacevole, ma è così.

    Invece le brave persone seguono le mode sicure di essere nel giusto; anzi, nel giustissimo; anzi, nell’unica convinzione moralmente ammissibile. E non si accorgono di avvolgersi nelle contraddizioni. La sicurezza di essere nell’assolutamente giusto li trascina nell’assolutamente cretino, ma non se ne accorgono. Non sono stupidi, non sono in malafede: semplicemente non se ne accorgono. Inseguono un ideale e non vedono che è un’utopia, una bella utopia che può indicare una direzione, ma che non è e non può diventare uno dei dieci comandamenti.

    Quando si parla di progresso civile, non bisognerebbe mai dimenticare che a opporsi al progresso non sono soltanto i conservatori e i reazionari (che, se non altro, combattono a viso aperto): sono soprattutto le incoerenze di chi dice di volere il meglio ma non sa metterlo in pratica.

 

                                                 Recortadores              

    Nel manuale di tauromachia che non scriverò mai non dovrebbe mancare un capitolo dedicato a tutto ciò che si fa con un toro al di fuori della forma classica della corrida. Dovrei parlarne per almeno due motivi: il primo è che queste forme anomale sono in realtà le più antiche (di una, quella praticata dai recortadores, esistono testimonianze addirittura sulle medaglie e sui vasi di epoca minoica: più di tremila anni fa!); il secondo motivo è che, comunque venga codificato, l’incontro con un toro selvaggio è un duello dell’uomo contro il mostro (e cioè contro la morte). In ultima analisi, la tauromachia è filosofia applicata.

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    Come dicevo, c’è tutta una iconografia cretese nella quale compaiono giovani che eseguono acrobazie saltando al di sopra di un toro. È precisamente ciò che fanno i migliori recortadores.

    Si tratta di uno sport o, se volete, di un’arte circense, oggi praticata lungo tutta la costa mediterranea dalla Camargue (alle foci del Rodano) fin quasi ad Almeria (in Andalusia). In Francia si trova nelle Buoches du Rhone, Languedoc, Roussillon e Guascogna. In Spagna è diffuso in Catalogna, Valencia e Castiglia. Immagino, ma non sono sicuro, che sia praticato anche nei Paesi Baschi. È uno sport dilettantistico, praticato da squadre di cinque membri ciascuna che si sfidano in concorsi regionali e nazionali. A parte i rimborsi-spese, il vero premio di un recortador è il prestigio che acquisisce nel suo paese d’origine (spesso un paesino agricolo), dove diventa l’idolo delle donne.

    Chi pratica questo sport è chiamato écarteur in Francia, retallador in Catalogna e a Valencia, recortador in Castiglia e nel resto di Spagna. Il nome francese, tutto sommato, è equivoco: sembra indicare che l’uomo debba semplicemente cercar di evitare la carica del toro. I nomi spagnolo e catalano sono più chiari: dicono che l’uomo deve “tagliare”. In effetti, il recorte è un tagliare la strada al toro e mettersi in salvo approfittando di due fatti: 1) un animale lanciato al galoppo non può cambiare bruscamente direzione, e 2) un quadrupede non può girare in uno spazio più breve della sua lunghezza.

    Più esattamente, il recorte consiste nel correre descrivendo un arco di cerchio (cosa che si indica con il verbo cuartear) mentre il toro carica, e calcolare velocità e curvatura della traiettoria in modo che il toro, trascinato dall’abbrivo, non riesca a deviare la sua carica tanto da infilzarvi con le corna. È un gesto molto apprezzato anche nella corrida: lo si vede soprattutto nell’azione di mettere le banderillas e raggiunge la perfezione (di solito) quando il matador decide di eseguire personalmente anche questa fase del combattimento. Quasi tutte le banderillas vengono collocate nel modo che ho descritto, ma quando a farlo è il matador è possibile che, oltre a piazzare le banderillas, si metta a giocare con il toro a base di recortes. In passato lo fecero spesso i fratelli Bienvenida. Negli ultimi dieci anni il maestro di queste cose è stato David Fandila el Fandi, inventore di alcune suertes ormai classiche come il violín, la moviola, e fermare il toro tenendogli una mano sulla fronte e correndo a ritroso.

    L’altra figura fondamentale è il quiebro. Esiste anche nel calcio: è la finta di corpo che sbilancia l’avversario. È già spettacolare quando viene eseguita da un’agile ala ai danni di un muscoloso terzino, ma provate a farla aspettando a pié fermo la carica di un toro di mezza tonnellata che vi si precipita addosso correndo a settanta all’ora: se ci riuscite, avrete dimostrato di possedere testicoli di dimensioni extralarge e tutte le donne vi correranno dietro. 

    Poi ci sono i salti. Si tratta semplicemente (semplicemente!) di correre incontro al toro che carica, o di aspettarlo immobili, e saltare al di sopra delle corna con lo stile che preferite: a volo d’angelo, a piedi uniti, con un salto mortale, di fronte o di spalle, a corpo libero o con una pertica (che si chiama garrocha). Può sembrare assurdo, o magari stupido. Ci si può domandare perché mai uno debba cercare un modo così incomprensibile per ammazzarsi. Eppure, come dicevo, c’è la prova che cose di questo genere si facevano già a Creta tremila anni fa. Evidentemente è qualcosa di radicato nell’animo umano. 

    E in effetti, se ci pensate, tante epoche storiche (non soltanto il Medioevo) sono dominate dall’idea del duello con il mostro. Non è difficile capire perché. Il dramma della condizione umana è che gli uomini si rendono conto di dover morire, ma fanno fatica ad accettare l’idea; identificano la morte con quanto di più smisurato e terribile conoscono, e concepiscono il sogno impossibile di uccidere la morte e vivere per sempre. Filosofia, romanticismo, letteratura: l’uomo ha bisogno di favole.  

 

                                                     Forcados

 

    La declinazione portoghese della lotta con il mostro è patrimonio dei forcados. Il termine non significa forzati, ma portatori di forche: lo strumento (un bastone che termina con un corto bidente) impugnando il quale entrano nell’arena. Poi però non lo usano. O meglio, non lo usano più. Una volta, secoli fa, lo puntavano contro le corna del toro nel tentativo di fermarne la carica a forza di braccia. Oggi tutta la suerte dei forcados viene eseguita a mani nude.

    Anche i forcados sono dilettanti, orgogliosi del loro dilettantismo come i praticanti di atletica leggera nei primi anni del secolo scorso. Il loro premio è la gloria. O più prosaicamente la fama di uomo con le palle, che è sempre un atout irresistibile con le donne.

    Cosa fanno i forcados per mostrare la dimensione e la compattezza dei loro attributi virili? Si esibiscono nell’impresa di fermare a mani nude la carica del toro, assorbendo l’impatto. La faccenda si svolge più o meno così: sventolando opportunamente una cappa, il toro viene collocato a un estremo della plaza e lasciato lì. Dopodiché sette o otto forcados, nel loro costume tipico, avanzano in fila indiana verso il toro curando di disporre la fila esattamente sulla linea di carica. Il primo (denominato forcado de cara) indossa un berretto frigio di colore verde. La suerte si chiama pega (picchiata) e, a mio parere, è quanto di più brutale si possa vedere in una plaza de toros. Il toro carica. Il forcado de cara indietreggia per attutire almeno un po’ l’impatto. Il toro abbassa la testa per colpire. L’uomo fa in modo di collocarsi nello spazio fra le corna, riceve la carica sull’addome, si stende sul muso del toro, gli abbranca la testa facendo passare le corna sotto le ascelle. E resta appeso alla testa del toro.

    Ci vuole una forza disumana nei muscoli addominali per reggere la botta e nei muscoli delle braccia per restare aggrappati. Perdere la presa non è consigliabile: nel migliore dei casi il toro vi passerebbe sopra calpestandovi, nel peggiore vi caccerebbe un corno nella pancia. 

    Contemporaneamente, gli altri forcados si affollano alle spalle di quello de cara (che nel frattempo ha perso il berretto, ha i pantaloni strappati sul sedere e la camicia piena di sangue suo e del toro, ed è continuamente squassato nella sua scomoda posizione) e spingono come in una mischia di rugby fino a fermare la carica. A questo punto, l’ultimo della fila aggira il mucchio selvaggio, va a impugnare la coda del toro e la tira mentre gli altri, dopo aver contato: uno, due, tre! lasciano insieme la presa. Il toro, sentendosi tirare la coda, non li insegue. Poi, sentendosela lasciare, non insegue neanche l’ultimo forcado (detto rabillador perché addetto a impugnare il rabo, la coda del toro). Credo che, sostanzialmente, il toro resti lì immobile perché si sta domandando cosa diavolo è successo.

    Questo è ciò che avviene quando tutto va come dovrebbe. Ma i tori che caricano in linea retta sono pochi. Il più delle volte sbandano, ondeggiano, scartano. Ci vuole occhio ed esperienza per collocarsi esattamente al centro delle corna e, se non ci riuscite, il corno (anche se è smussato) rischia di passarvi da parte a parte. Oppure (questo è il caso più frequente) il toro vi sbatterà per aria prima che gli altri riescano ad appressarsi. Non smetterò mai di sottolineare che un toro selvaggio pesa sette volte più di un uomo, ed è tutto muscoli, neanche un filo di grasso. Come se non bastasse, il punto con la massima la concentrazione di massa muscolare non è, come nell’uomo, la coscia, bensì il collo; tanto che per un toro è perfettamente normale colpire con le corna un cavallo che pesa quasi quanto lui, sollevarlo da terra con tanto di cavaliere in groppa, e sbatterlo cinque metri più in là. Figuratevi che cosa può fare a un uomo che con i suoi striminziti settanta chili si mette sulla traiettoria della sua carica.

    Ho visto tentare la pega quattro volte di seguito prima di riuscire a bloccare il toro. Non vi dico come era ridotto il forcado de cara al termine della suerte. Ma posso dirvi questo: il ragazzo non si sarebbe mai ritirato. Piuttosto sarebbe morto. Avrebbe continuato a ricevere la carica nell’addome fino a vedere se aveva più attributi lui o il toro.

    E questo è il secondo aspetto del perché certi uomini hanno bisogno di sfidare i mostri. È gente che ragiona così: morire si deve, prima o poi; dunque, che differenza c’è tra un po’ prima e un po’ dopo? L’importante non è quando si muore, ma come.

    Intendiamoci: gente così ce n’è dappertutto, ma in diverse culture prende toni diversi. Un greco, probabilmente, vorrebbe morire mentre fa qualcosa di trasgressivo. Un portoghese è disposto a morire pur di mostrarsi forte e coraggioso. Uno spagnolo è pronto morire per l’arte.

 

                                                   Rejoneadores

 

    Nel glossario allegato a “Morte nel pomeriggio” Hemingway dichiara che l’arte del rejoneo gli sembra “più un numero da circo che una vera corrida”. Non c’è da meravigliarsene: Hemingway era dotato di un talento naturale che l’ha portato a scrivere cose ottime (e altre meno) ma, da bravo yankee, ha approfondito gli aspetti tecnici della corrida senza capire un tubo del suo significato. Per lui il senso di una corrida non era molto diverso da quello di un incontro di pugilato e, benché dichiarasse che la tauromachia è arte, non è mai stato in grado di spiegare perché.

    Qualche anno fa c’era chi sosteneva che i writer fossero artisti non perché facessero qualcosa di esteticamente valido, ma perché per imbrattare muri rischiavano multe e arresti. Allo stesso modo, Hemingway sosteneva che il rejoneo non è corrida (e quindi non è arte) perché, se l’uomo sbaglia, non muore lui ma il cavallo. Come se l’arte dipendesse dal mettere a rischio la pelle o il portafogli.  

    Certa gente sembra incapace di distinguere i mezzi che si usano dai risultati che si raggiungono. Se si fa questa distinzione è ovvio che arte è ciò che produce un durevole impatto estetico, a prescindere da come ci arriva. Se la distinzione non si fa, o se la si perde per strada, si comincia a vagare per lande sterili: si pretende, per esempio, che sia pittore solo chi usa il pennello o che non si possa essere artisti senza l’imprimatur della Protezione Animali.

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    Il rejoneo si chiama così perché l’arma con cui il cavaliere colpisce il toro si chiama rejón (letteralmente: giavellotto). È una pratica che nasce secoli prima della corrida a piedi, probabilmente come forma di allenamento dei cavalieri spagnoli nel periodo della reconquista, e doveva avere, ai suoi inizi, una forma abbastanza simile alla suerte de varas come la realizzano i picadores. I cavalieri che, ai tempi del Cid, andavano in guerra contro gli arabi si allenavano giostrando in campo aperto con i tori selvaggi.

    Questo fatto ha prodotto per secoli una differenza fra la tecnica di rejoneo spagnola e quella portoghese. La cavalleria spagnola era concepita come una forza d’urto (lancieri e corazzieri). Invece i portoghesi svilupparono la cavalleria leggera. I cavalieri spagnoli si allenavano con i tori selvaggi per imparare a reggere la carica, i cavalieri portoghesi privilegiarono l’agilità. Quindi gli spagnoli selezionarono cavalli massicci, i portoghesi li selezionarono scattanti.

    E così, fino agli anni 60 del secolo scorso, il rejoneo spagnolo fu centrato sul toro, la sua forza, le sue cariche; mentre il rejoneo portoghese fu centrato sul cavallo, la sua eleganza, la sua docilità. Nel medioevo e fino a tutto il Settecento, il rejoneo fu lo sport dei nobili e consistette nel volteggiare schivando le cariche del toro per poi colpirlo con una picca cercando al contempo di proteggere il cavallo.

    C’è un aneddoto a questo proposito. Durante una corrida offerta da non so più quale re, scese nell’arena il conte di Vattelapesca, amante della regina, che sui finimenti del cavallo esibiva il motto Son mis amores reales. Anche nell’arena il gentiluomo fece il suo dovere, tanto che la regina nel palco commentò al re: “Picca bene il signor conte!”. Il re, senza particolare allegria, rispose: “Picca bene, sì, ma troppo in alto”. Lo humour dei cornuti è sempre un po’ acido.

    Sul finire del Settecento i toreri a piedi invadono le arene. Pedro Romero, Pepe-Hillo, Montes, attirano le folle. Il rejoneo cade in disuso e sopravvive quasi in clandestinità. Compare nelle plazas solo in occasione delle feste più solenni nelle città più facoltose, quando il signorotto del posto decide di mettersi in mostra. La decadenza della cavalleria negli eserciti fa il resto.

    Ma anche dopo la guerra civile la Spagna resta un paese enorme, scarsamente popolato e con una agricoltura non meccanizzata: cavalli e cavalieri sono indispensabili per seguire le colture estensive e l’equitazione è l’unico sport praticato nelle campagne. Il rejoneo è in debito di ossigeno, ma non muore.

    Negli anni 60 i fratelli Peralta (Angel e Rafael) lo rimettono in auge puntando sull’abilità equestre. Dopo di loro si susseguono parecchi epigoni (Fermin Bohorquez, Alvaro Domecq, Joao Moura e tanti altri) che mantengono alto l’interesse per questa disciplina. Nei primi anni del terzo millennio sorge la stella di Pablo Hermoso de Mendoza, che porta il rejoneo a livelli artistici mai visti. Oggi nessun rejoneador, spagnolo o portoghese, può pensare di scendere nell’arena se non è in grado di eseguire i quiebros e le piruetas alla maniera di Hermoso. E anche se l’idolo delle folle oggi come oggi è Diego Ventura, il modello rimane lui in groppa a Sàrmata, il suo cavallo preferito.

    Resterebbe da dire qualcosa sulla tecnica equestre dei rejoneadores, ma non sono abbastanza competente per parlarne. Dico solo questo: in Spagna (e in Portogallo, così come in Sudamerica) la monta e il dressage sono diversi da    

quelli in uso nel resto d’Europa. Probabilmente dipende dal fatto che nelle campagne iberiche, come del resto anche in Maremma, i cavalli venivano usati per servizi differenti da quelli a cui erano adibiti in Francia o in Inghilterra.

    Vale la pena di ricordare che, verso la fine dell’Ottocento, Buffalo Bill montò una specie di circo e venne in Europa in tournée. Pare che sia venuto anche in Italia e che, in seguito a una sfida, alcuni butteri abbiano fatto fare una figura meschina ai suoi cowboys. Non so se Buffalo Bill sia andato in Spagna, ma credo di no: davanti alle esibizioni dei cowboys il pubblico spagnolo si sarebbe messo a ridere. Le avrebbe considerate balbettamenti di gente che a malapena riusciva a stare in sella.

    Ma c’è qualcosa di ancor più probante: nel 1978 Alvaro Domecq andò a esibirsi a Vienna alla Hofreitschule (quella dei cavalli lipizzani). Lasciò i viennesi sbalorditi.

                                               Suerte de varas

 

    La cosa più insopportabile per chi odia la corrida è la suerte de varas, cioè l’azione dei picadores. Montati a cavallo, attendono la carica del toro e lo colpiscono con una lancia. Sembra il massimo della slealtà (o, per chi pensa che la corrida sia uno spettacolo di sadismo, il massimo della crudeltà gratuita): il toro non ha difese, mentre il cavallo è protetto da una pesantissima gualdrappa e il picador porta stivali di ferro che gli tengono le gambe indenni.

    Le cose non stanno esattamente così, ma è bene sapere che se così appaiono è perché l’evoluzione del gusto durante il secolo scorso ha imposto la corazza per i cavalli e ha ridotto il numero di picche inferte al toro, ottenendo il risultato di rovinare la corrida senza alleviare il disagio di chi la disapprova.

    Nel medioevo, uccidere un toro era una necessità (per mangiare) che diventava uno spettacolo (perché era difficile) e nessuno si poneva problemi di coscienza se vedeva colpire un toro con la picca. Nel 1967, quando ho visto la mia prima corrida, il medioevo era passato da un pezzo ma ogni toro doveva ricevere, per regolamento, tre picche. Il regolamento delle corride, in Spagna, era una legge dello Stato, discussa e approvata alle Cortes. Oggi ciascuna regione autonoma ha il suo regolamento e, con le leggi attuali, per lo più si dà una sola picca, salvo nelle plazas di prima categoria dove è obbligatorio darne almeno due (ma la seconda è quasi sempre simbolica).

    Perché si piccano i tori?

    C’è un motivo tecnico e uno storico. Come ho già avuto modo di raccontare, la corrida nasce a cavallo, perché i cavalieri erano i proprietari dei latifondi dove vagavano le mandrie di tori selvaggi. Quando regalavano un toro al pueblo in occasione della festa patronale (perché la gente potesse mangiare carne almeno una volta all’anno), dovevano intervenire loro a ucciderlo: erano ben pochi i contadini che possedevano un cavallo e quei pochi non avrebbero mai arrischiato di farselo ammazzare dal toro. D’altra parte, affrontare a piedi un toro selvaggio sembrava una pazzia.   

    Durante queste giostre (dalle quali è disceso il rejoneo) qualcuno si accorse che, dopo aver ricevuto alcuni colpi di picca, il toro abbassava la testa di quel tanto che avrebbe permesso a un uomo a piedi di colpirlo con la spada passando sopra le corna. Da questa osservazione nacque la corrida a piedi così come la conosciamo oggi, e la sopravvivenza della suerte de varas è legata alla necessità di fare abbassare la testa al toro di quel poco che basta perché sia possibile attaccarlo di fronte (per uno spagnolo, colpire di fianco o alle spalle sarebbe un’azione cobarde).

    Quando nacque la corrida a piedi, nella seconda metà del Settecento, i picadores montavano cavalli senza protezione e maneggiavano picche con un puntale più piccolo di quello che si usa oggi. I colpi di picca inferti al toro erano molti, la suerte era considerevolmente più tecnica e costituiva la parte fondamentale del lavoro da svolgere. Le banderillas erano un modo per far riposare il toro, ma anche per irritarlo. Il matador entrava in scena per uccidere e usava la muleta solo per mettere il toro in posizione. Insomma: la corrida era il picador che attendeva la carica del toro, puntava la picca nel fascio di muscoli che si erge come una gobba sul collo del toro, spingeva a forza di braccia per contenere la carica e tenere il cavallo fuori dalla portata delle corna.

    Ma la suerte non riusciva sempre: i cavalli morivano come le mosche e ogni tanto anche i picadores, sbalzati di sella da tori violenti, cadevano sulle corna. Per risparmiare orrore e svenimenti alle turiste inglesi, negli anni trenta del secolo scorso il primo ministro José Antonio Primo de Rivera impose le corazze imbottite ai cavalli. Il risultato è che il picador non si preoccupa più di proteggere il cavallo (tanto, c’è la corazza!), il toro va a schiantarsi contro un muro dove consuma le sue forze senza ricavarne niente, e si demoralizza.

    Quando la suerte divenne innocua per il cavallo i sentimenti caritatevoli degli spettatori forestieri si trasferirono sul “povero” toro. E il provvedimento successivo fu: riduciamo al minimo il numero delle picche. Ma siccome bisogna pure che il toro abbassi la testa, si è aumentata la dimensione del puntale delle picche. La corrida, nata dalla necessità di abbattere i tori quando non esistevano armi da fuoco e pubblici macelli, viene rimaneggiata e adattata secondo ciò che ci si immagina debbano provare i turisti che vanno a vederla senza la minima preparazione.

    Nessuno accetta l’idea che chi detesta la corrida non è obbligato ad andarci. Fuori di Spagna è molto di moda schierarsi contro le corride (così ci si salva l’anima, si può detestare gli spagnoli, ci si sente superiori, civili e politically correct, tutto gratis). In Spagna si tace alla grande sul fatto che oggi si tengono più del doppio delle corride che si tenevano quarant’anni fa (il che, inevitabilmente, ha fatto decadere la qualità dei tori). Dentro e fuori di Spagna nessuno riflette che le cose vere non hanno bisogno di sotterfugi, e tutti preferiscono scopare la polvere sotto il tappeto. Così si è ottenuto un triplo effetto: 1) non si aiuta il toro, 2) si danneggia la corrida, 3) il pubblico dei turisti non viene informato e si lascia che pensi a uno spettacolo di sadismo simile alla lotta dei gladiatori. 

    Dato il progressivo snaturamento della suerte de varas, ormai è praticamente impossibile vedere una picca bene eseguita, con il toro che carica in linea retta e continua a spingere con la testa bassa, i quarti posteriori tesi nello sforzo e la coda sollevata; mentre il picador, dopo aver puntato la picca al centro del morrillo (il fascio di muscoli che si erge sul collo del toro come una gobba), ci si appoggia con il corpo e intanto guida il cavallo con le ginocchia tenendolo fuori dalla portata delle corna. Da una suerte de varas ben eseguita il toro esce quasi indenne, con la forza quasi intatta e con il morale altissimo. Dalla suerte così come è praticata oggi, il toro esce spompato. Non per la ferita, ma perché va a sbattere contro il muro della corazza e consuma le sue forze nel vano tentativo di abbatterlo. 

    Però tutti guardano la ferita e dimenticano le dimensioni del toro. Il cavallo coperto dalla corazza, con in groppa il picador, sembra un carro armato e davanti a lui il toro sembra piccolo. Lo spettatore sa che il toro pesa mezza tonnellata, ma non se ne rende conto. Vede il sangue e gli sembra tantissimo: non pensa che il sangue del toro è in quantità proporzionale al suo peso. E finisce per non rapportare ciò che vede alla dimensione del toro, ma a quella umana, come se la picca la ricevesse lui, nel suo corpo.

    Se vi sembra impossibile che la picca non provochi un tremendo dolore al “povero” toro, vi invito per l’ennesima volta a riflettere che il toro pesa sette volte più di un essere umano (per questo i forcados si mettono in sette a fermare la sua carica!) e il fascio di muscoli in cui riceve la picca è più grande di quello della coscia. In sostanza: una picca nel morrillo di un toro selvaggio corrisponde a una puntina da disegno nella coscia di un atleta in pieno sforzo. Non gli fa certo piacere, ma provoca meno dolore di quanto ne sentite voi se andate a sbattere a piedi nudi contro una gamba del tavolo. Quando un toro riceve l’indulto (cioè quando il pubblico decide di salvargli la vita), le ferite di picca guariscono con disinfettante e antibiotico (non si può mettere un cerotto a un toro selvaggio e neanche suturare con un paio di punti). Un pugile in una decina di incontri colleziona ferite più sanguinose e più pericolose.

    Con ciò non mi illudo di convertire gli animalisti alla tauromachia. Ma di fronte alla disinformazione che vedo dilagare dappertutto, mi sembra utile riferire i fatti. Chi detesta la corrida continuerà a detestarla, ma almeno lo faccia evitando di inventare falsità. I libri nei quali si descrivono le iniquità delle streghe sono stati partoriti dalla fantasia malata degli inquisitori e buona parte delle sevizie che gli animalisti attribuiscono alla corrida ha la stessa origine. Chi è vegetariano ha tutta la mia stima, ma chi non si fa mancare ogni tanto una buona bistecca, prima di parlare di cose che non conosce, avrebbe il dovere morale di informarsi.

    P.S. Una informazione completa dovrebbe comprendere anche una visita in un macello, almeno una volta nella vita.

 

                                              Cartel e cuadrilla                                                   

 

    Se capitate in una città in cui si tiene una corrida, molto probabilmente non ne sentirete parlare, non vedrete manifesti e pubblicità, non leggerete neanche un trafiletto sul giornale. Non ce n’è bisogno: la gente sa che c’è corrida, sa quando e dove si terrà, chi saranno i matadores e da dove vengono i tori. Ho vissuto a Madrid per un anno e sono andato alla plaza de toros non so quante volte. Come facevo a sapere cosa c’era in programma? Con il passaparola.

    Una plaza de toros contiene al massimo ventimila spettatori. A Madrid ci sono più di tre milioni di abitanti. Che bisogno c’è di far pubblicità? I più zelanti fra gli aficionados si informano presso l’impresa e ne parlano agli altri aficionados. Nel giro di due giorni metà dei biglietti sono venduti. Nel giro di una settimana è il tutto esaurito. Se andate alla plaza senza biglietto dovrete cercare un bagarino, e che Dio vi salvi.

    Tanto per cominciare, il biglietto si chiama in tanti modi diversi. Potete avvicinarvi alla taquilla e trovarla chiusa, con una striscia di carta dove c’è scritto: No hay billetes. Ma se a questo punto andate in cerca di un bagarino, non chiedete un billete: chiedete una entrada. Lui, di rimando vorrà sapere che localidad. Voi chiederete una barrera a la sombra, lui sparerà un prezzo astronomico, voi farete finta di andarvene, lui vi offrirà qualcos’altro, eccetera eccetera eccetera…

    Una volta volta risolto il problema del biglietto (a Madrid vi consiglio un tendido bajo del 7: sarete al sole per i primi due tori e all’ombra per gli altri quattro, avrete intorno dei veri competenti, magari sboccati e un po’ bevuti, ma competenti, e pagherete il meno possibile), se vi fermate di fronte all’arco dell’entrata principale, alzate lo sguardo e vedrete appeso a un pilastro uno di quei cartelli multicolori che i turisti acquistano, arrotolano e portano a casa per appenderlo nell’ingresso, di fronte all’attaccapanni.

    Il cartello è concepito così:

 

                                           Plaza de toros de Madrid

 

     Hoy, 25 julio, con el permiso de la autoridad y si el tiempo no lo impide,

                                                     se lidiaràn

 

                                                          hermosos y escogidos     

          6   toros    6

 

              de la acreditada ganaderia de don Graciliano Pérez Tabernero, de Salamanca

 

                                                         para los diestros

 

                             PACO CAMINO, DIEGO PUERTA y JULIO ROBLES

                                            con sus correspondientes cuadrillas.

 

    Ho scelto i nomi di tori e toreri di cinquant’anni fa per non far torto a nessuno, ma ho trascritto fedelmente le frasi tipiche di un cartel de toros perché vale la pena di notare come, anche nell’evidenza grafica, la corrida la fa il toro. È lui l’autore e il regista della tragedia. I toreri sono soltanto attori.

    Il testo del cartel non ha bisogno di traduzione. Tutt’al più vi segnalo che hermoso significa “bene in carne” (siccome il termine vale anche per la bellezza femminile, chiarisco che Monica Bellucci è hermosa, Sharon Stone è guapa). Escogido significa “scelto”. Ganaderia è l’allevamento. Resta da chiarire che cos’è la cuadrilla e come è composta.

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    Cuadra significa squadra. Cuadrilla è una piccola squadra.

    Per uccidere un toro selvaggio non basta un uomo solo. La cuadrilla è agli ordini del matador perché è lui che viene contrattato dagli impresari, è lui che corre i rischi maggiori, è lui che richiama il pubblico con la fama delle sue precedenti esibizioni. I compensi che riceve, e che divide in maniera disugualissima con gli altri componenti della cuadrilla, vanno da zero virgola zero (nel caso di matadores esordienti o scalzacani) fino a cifre spropositate (nel caso di grandi artisti).

    Ho già parlato dei picadores. In ogni cuadrilla ce ne sono due e la loro importanza è molto decaduta in seguito agli sciagurati provvedimenti di cui ho già parlato. Oggi come oggi, un buon lavoro di picca viene apprezzato dal pubblico quasi solo nelle plazas più importanti: Madrid e Siviglia.

    Il primo collaboratore del matador è il peón de confianza, cioè il banderillero di fiducia. Spesso è un uomo di oltre cinquant’anni, magro e con i capelli bianchi. Di tori ne sa più lui del matador (che può anche essere un ragazzo di diciotto anni). Oltre a maneggiare la cappa con grande perizia, il peon de confianza conosce tutti i trucchi con cui rattoppare le situazioni più compromesse. Il pubblico può vederlo all’opera soprattutto quando è il momento di piazzare le banderillas. Lui non le mette, ma giostrando di cappa colloca il toro nella migliore posizione, procurando al contempo di non infliggergli brusche torsioni. Uno spettatore competente apprezzerà il suo maneggio della cappa largo e arioso, così diverso da quello stretto del matador. L’obbiettivo è mantenere il toro il più possibile integro, senza costringerlo a girare su se stesso, cosa che gli torcerebbe la spina dorsale, lo stancherebbe e frenerebbe la carica.

    Il secondo peón lavora di cappa in aiuto al peón de confianza tutte le volte in cui le fasi del combattimento lo richiedono. Inoltre mette due paia di banderillas. Di solito, quelle che ricadono sul fianco destro del toro.

    Il terzo peón non usa mai la cappa, se non eccezionalmente e solo per difendersi. Mette un paio di banderillas, di solito quello che ricade sul fianco sinistro del toro, e ha un compito specifico: al termine del combattimento può capitare che il toro pieghi le ginocchia ma non sia morto. Il terzo peón è incaricato di dare il colpo di grazia infilando una specie di pugnale (detto puntilla o cachete) fra due vertebre cervicali del toro.

    Non è un compito semplice: càpita di doverci provare tre, quattro volte e anche più. In questi casi il pubblico si raffredda e il matador che ha fatto una grande esibizione se la vede rovinata. Una cosa simile può distruggere il rapporto di fiducia fra un matador e i suoi assistenti, un rapporto importantissimo perché ne va dei futuri contratti, degli incassi, e al limite anche della pelle.

    Capita a tutti e capitò anche a Manolete, il grandissimo. Il suo puntillero gli rovinò una faena e andò a chiedergli scusa con le lacrime agli occhi. Manolete lo guardò a lungo in silenzio, poi sentenziò: “Spettava a me ammazzare il toro senza bisogno di puntilla”.

    Tanto per dire di che pasta è fatto un torero con la T maiuscola.  

 

                                                Milano-Madrid

 

    Un amico mi ha accusato di essere vecchio. Sospetto che intendesse dire reazionario, ma reazionario è una parola vecchia. E così, per salvare la forma e la sostanza, mi ha rimproverato di prendere “la strada più facile”. Cioè di essere vecchio.

    La mia reazionaria riflessione è stata: oddìo, alla nostra età possiamo anche sostenere di non sentirci vecchi, ma per fare i giovani siamo fuori tempo massimo.

    Per conto mio, credo che l’essere vecchi dipenda più che altro dal fatto che, quando se ne sono viste abbastanza, diventa automatico confrontare la realtà che passa sotto gli occhi con il ricordo di com’era, per esempio, trent’anni prima. E naturalmente finisci per pensare che “era meglio prima”. (Per forza: avevi trent’anni di meno!).

    Giusto: bisogna saper giudicare togliendoci dagli occhi le lenti dell’età. Ma – pensa un po’! – anche correggendo l’errore di prospettiva, non è affatto vero che oggi tutto sia meglio di ieri e domani tutto sarà meglio di oggi. Magari fosse così semplice! Il progresso non è mai lineare: a volte si ferma, a volte torna indietro. Non solo: la vita è fatta in modo tale che, anche quando tutto va per il meglio, c’è sempre qualcosa che va irrimediabilmente perduto. Ci siamo così abituati che non ci facciamo caso. Consideriamo normale sacrificare cose che ci appaiono marginali, in vista di un progresso che riteniamo sostanziale.

    Ma la valutazione “marginale o importante” non è proprio chiarissima. Quasi ogni giorno la moda ci chiede di abbandonare cose di solido buon senso a favore di stupidaggini. E la pressione di milioni di imbecilli è spesso irresistibile. Del resto, anche nelle rare occasioni in cui è possibile una scelta razionale per ottenere un concreto vantaggio capita di rinunciare a cose che più tardi rimpiangeremo. Ma al momento di decidere non lo sappiamo.

    Prendiamo un esempio: l’autostrada. Un viaggio di milleseicento chilometri su strade nazionali piene di curve, semafori rossi e camion che non danno strada, richiede una sosta per dormire e, tra una cosa e l’altra, porta via due giorni. Lo stesso viaggio, se viene fatto in autostrada senza limiti di velocità, dura tredici ore compresi i rifornimenti di benzina e di cibo. Quando si trattò di decidere se fare le autostrade o no, la scelta sembrava obbligata. Ma quando poi si introdussero i limiti di velocità, la durata del viaggio tornò ad allungarsi e la valutazione dei vantaggi si spostò su altri criterii.   

    Da Milano a Madrid ci sono appunto milleseicento chilometri. Verso la fine degli anni 60 c’era poca autostrada, quasi tutta in Italia. Trenta chilometri dopo Cannes cominciava la strada nazionale e andava avanti così fino a Madrid. Mettersi in viaggio era un po’ come affidarsi alla Provvidenza: sapevi quando partivi ma non quando saresti arrivato. In compenso, vedevi scorrere nel parabrezza il Gran Teatro del Mondo: attraversavi tre o quattro culture e potevi osservarle rispecchiate nel paesaggio. Avevi tempo per pensare, gustare, fare collegamenti, stupirti.

    Poi in pochi anni divenne quasi tutta autostrada. Il viaggio, che inizialmente era lungo e meraviglioso, diventò più breve ma entusiasmante come una Mille Miglia. Infine entrarono in vigore i limiti di velocità (e sanzioni esagerate soprattutto in Francia). Oggi il viaggio dura un giorno intero ed è stranamente noioso. Intendiamoci: sono il primo a riconoscere che l’aumento del traffico e un elementare senso di responsabilità impongono di limitare la velocità. Ma il punto è che fare il viaggio in autostrada non è più un piacere. Tanto vale prendere l’aereo e noleggiare un’auto a Madrid.

    Naturalmente, uno può dire: se l’autostrada non ti dà più le soddisfazioni di una volta, perché non prendi la strada nazionale e riscopri le sensazioni dei tuoi primi viaggi? La strada nazionale mica l’hanno chiusa, è sempre lì a tua disposizione.

    È vero. Ma non ha più senso percorrere una strada nazionale quando lì a fianco, parallela, corre l’autostrada. La consapevolezza dell’alternativa distrugge il piacere di veder cambiare il paesaggio a poco a poco e comprendere, vivere i cambiamenti; la stanchezza fa il resto, l’impossibilità di prevedere orari di arrivo e ripartenza mi irrita, e dopo un’ora di andature alle quali non sono più abituato basta un semaforo rosso o un camion che non dà strada per farmi perdere la pazienza (e scappare la poesia).

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    Se ripenso ai miei viaggi da e verso la Spagna, mi scopro a pensare che non rivedrò mai più la gente in camicia che gioca alla pétanque nella piazza di un paese fra Brignoles e Aix. Non scorgerò in lontananza i profili strampalati delle montagne in Bassa Provenza. Non ripercorrerò i rettilinei della Camargue, la curva a gomito di Vauvert, il ponte sul Canal du Rhone à Sète. E Issanka, le torri di Carcassonne, la distesa di arbusti nani che scollina fino al mare fra Perpignan e il confine, chissà se esistono ancora? Ma soprattutto, so che non rivivrò mai più lo stato d’animo con cui ho vissuto queste cose in passato.

    L’importante non erano le cose. Non c’è un evento della mia vita che sia collegato alla pétanque, alle ostriche di Mèze o ai vins du terroir. E neanche alla trattoria di Betanzos dove i clienti insieme al caffè chiedevano il menu per controllare il conto. E nemmeno al treno nella notte che correva sulla sponda portoghese del Rio Minho. Ciò che rimpiango sono le speranze che mi riempivano la vita in quei giorni e che sono rimaste incollate alle immagini di allora. Ogni anno che passa mi rendo conto che quelle speranze si sono assottigliate, ne ho sempre meno, e d’ora in avanti sarà sempre peggio.

    Cosa posso farci? Niente. Il futuro si accorcia, e io alzo le spalle; torno a fissare gli occhi della mente nella discesa lungo la valle del Llobregat e poi nella interminabile risalita fino a Lerida. Rivedo la scena di quando la Catalogna  diventò regione autonoma e nel bar entrò un tizio che ordinò ad alta voce in catalano, per farsi sentire da tutti: un tallat! Si guardò attorno con l’aria compiaciuta e vagamente bellicosa. Aveva detto tallat e non cortado, come si era usato per quarant’anni: ma non gliene fregava niente a nessuno, e se ne rendeva conto anche lui. Soltanto, prima di tornare a essere un fesso qualunque, voleva gridare al mondo che l’aveva avuta vinta, per una volta nella vita.

    Riparto, e vedo sfilare le colline di creta che diedero a Hemingway l’idea del racconto Colline come elefanti bianchi, ripasso sul ponte che porta a Saragozza e guardo le torri della cattedrale del Pilar, incongrue come minareti; infilo la strada che sale verso la sierra e la scavalca per ridiscendere a Calatayud. Ecco il rigagnolo Peregiles, ecco il rio Jalòn. E salgo di nuovo per la cuesta, su verso il Portillo del Frasno, tra pianori pelati, colline coperte di brughiera, vallate boscose dove non esistono sentieri e dove l’ultimo essere umano che passò, magari cinquant’anni fa, doveva essere un contadino in groppa a un asino.

    Che senso ha ricordare queste cose? Forse sono alla ricerca di una speranza ancora viva. E se non la trovo vuol dire che sono vecchio? Mah. Comunque la si consideri, la mia non è più una giovane età e, dopo tutto ciò che ho visto, è ben difficile che mi imbatta in qualcosa capace di entusiasmarmi. Ho imparato che, quando il futuro diventa presente, il poco di buono che porta con sé è quasi impossibile da percepire, oscurato com’è da inganni e menzogne di ogni genere: idee defunte che si imbellettano per sopravvivere a se stesse, velleità impossibili da concretizzare, ipocrisie spacciate per “correttezza politica”, e via elencando.

    Insomma, quali sarebbero i sintomi della vecchiaia? Succede, per esempio, che i comici televisivi non mi fanno ridere. Se qualcuno li trova divertenti, buon pro gli faccia. Io li trovo scipiti, e credo che non sia colpa mia ma forse neanche colpa loro. È il momento storico che fa pena, e non sarà certo abbassandoci al livello di stupidaggini e guitterie che potremo sperare di redimerlo. O siamo così mal ridotti?

    Ma, dice il mio amico, non si può mica vivere pensando unicamente ai massimi sistemi. Cosa ti costa lasciarti andare e ridere delle buffonerie di un comico anche se è un mentecatto? A me costa: ci sono stati comici di ben altro livello che mi hanno abituato troppo bene. In parole povere, quando hai assaggiato il prosciutto la mortadella non ti piace più. Forse l’unico modo per restare giovani è non assaggiare mai il prosciutto?

    Del resto, è noto che la storia è piena di periodi bui alternati a rari sprazzi di splendore. Può darsi che gli ultimi splendori della nostra epoca si siano esauriti altrove, magari nella Londra di Carnaby Street o nella rinascita della Cina. L’equilibrio del terrore atomico è finito, Deo gratias, ma i dirigenti non sanno più che direzione prendere. E se la politica non mi coinvolge è perché sono vecchio? A me pare che la politica non esista più, non solo in Italia ma in Europa e nel mondo. Le ideologie che hanno dominato il secolo scorso sono implose su se stesse. Se erano sbagliate, meglio così. Ma per metterne in piedi delle altre bisogna individuare nuovi obbiettivi, e chissà quanto tempo ci vorrà.

    Per allora saremo sottoterra in tanti, e scopriremo di essere tutti vecchi allo stesso modo.

                      

                                        Terminologia iberica

 

    La recente alzata di ingegno del parlamento catalano che ha messo al bando la corrida ha avuto l’effetto di richiamare l’attenzione sul fenomeno. Non entrerò nel merito di questa delibera, che è dettata più che altro da questioni di politica interna spagnola. Prendo solo lo spunto per parlare di parole. Qui da noi capita spesso di sentir dire dei veri e propri strafalcioni, e forse è il caso di chiarire almeno la terminologia.

    Troppi italiani parlano di chi combatte con i tori come del toreador. È vero che responsabile di questo errore è la Carmen di Bizet, con la famosa aria in cui Escamillo racconta i suoi sudori freddi nell’arena per poi inneggiare al riposo del guerriero, ma centocinquant’anni dovrebbero essere un tempo più che sufficiente per aggiornarsi. Toreador era un termine già antiquato ai tempi di Mérimée, che l’aveva scelto proprio per situare la sua tragedia nel tempo, oltre che nello spazio. Ne aveva bisogno, perché una storia basata sull’incapacità di dominare i sentimenti poteva apparire assurda ai parigini, che in materia di innamoramento e amore sono sempre stati scettici e razionalisti: era necessario collocare gli avvenimenti in un luogo e in un’epoca il più possibile lontana. 

    Nella Carmen l’ossessione del collocamento spazio-temporale è rintracciabile un po’ dappertutto. Per esempio, quando il torero Escamillo entra in scena, il coro gli pronostica che diventerà più grande di Montes e di Pepe-Hillo. Non si tratta di nomi inventati: Francisco Montes el Paquiro (1805-1851) è una colonna portante della storia torera. Volendo fare un incongruo paragone con il calcio o con il ciclismo, è l’equivalente di Silvio Piola o di Girardengo. Montes fu il primo a considerare la corrida da un punto di vista professionale. Per dimostrare di non essere un volgare macellaio scrisse un trattato di tauromachia. Grazie alla sua intelligenza e alla sua tecnica diventò un beniamino del pubblico. Morì non proprio nell’arena, ma per i postumi di una cornata (non esistevano gli antibiotici nel 1850!). La sua lunga lotta con la morte fu seguita dai giornali e aprì anche a lui le porte del mito.

    Invece Pepe-Hillo aveva entusiasmato la generazione precedente. Era nato a Siviglia nel 1754 e il suo vero nome era José Delgado Guerra. Fu amato da tutti: colleghi, subalterni e pubblico. Le testimonianze concordi di giornalisti e colleghi dicono che aveva una simpatia spontanea e contagiosa. Anche lui cadde sul lavoro, nella plaza de toros di Madrid il 7 giugno 1801, e tutta la Spagna lo pianse. Forse fu lui l’ultimo a essere chiamato toreador: già nei primi anni dell’Ottocento il termine non era più in voga. Usarlo oggi è come parlare l’italiano di Brancaleone.

    Chi combatte nell’arena è detto genericamente torero e questo nome indica o sottintende tutte le caratteristiche di chi rischia la pelle combattendo contro un mostro sette volte più grosso di lui: coraggio, spavalderia, successo con le donne. Quando il principe Felipe di Borbone, qualche anno fa, si sposò e salutò la folla da un balcone insieme alla moglie, la gente intonò un coro licenzioso: Felipe, torero, queremos un heredero! (Felipe, torero, vogliamo l’erede!), dove l’appellativo “torero” era un ovvio riferimento alla virilità.

    In ogni cuadrilla i toreri sono sei: quattro a piedi e due a cavallo. L’unico autorizzato a uccidere il toro si chiama matador. Gli altri tre appiedati sono detti peones o banderilleros, ciascuno con compiti diversi. La cuadrilla è completata da due picadores che combattono a cavallo. Per ragioni che potrebbero costituire l’argomento di un libro, il compito dei picadores è stato sempre più svilito nel corso del ventesimo secolo e oggi è ridotto ai minimi termini.

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    Un’altra inesattezza, purtroppo ineliminabile, è l’uso italiano di chiamare corrida ciò che gli spagnoli chiamano in cento altri modi (uno dei quali, per esempio, è festejo, cioè una cosa che sta tra la festa e la rappresentazione). Se questo ci può consolare, non siamo i soli a essere inesatti: i francesi la chiamano course des toreaux. Inglesi e americani, con anglosassone grossolanità, la chiamano bullfight. I tedeschi non sono da meno, e dicono Stierkampf.

    In castigliano il termine corrida designa unicamente il gruppo di tori (di solito sei) che scenderanno nell’arena. Corrida è una parola che in Spagna si usa poco: appartiene al gergo degli allevatori, che assegnano un corral (recinto) alla corrida (e cioè ai tori destinati alla plaza) di Bilbao e un altro corral alla corrida di Siviglia. La parola significa proprio “corsa” e deriva dal fatto che, una volta, i tori non si portavano alla plaza in treno o in camion, ma a piedi, alla maniera dei cowboys, con viaggi che duravano anche più di una settimana.

    A volte, in castigliano può capitare che si usi corrida in senso lato, per intendere il festejo. Ma è una figura retorica, una metonimia, e se la può concedere solo un giornalista spagnolo. Dico un giornalista, perché uno scrittore di solito non va in caccia di certi effetti e probabilmente ne farà a meno. Se posso azzardare un consiglio, fatene a meno anche voi: usando la parola corrida rischiate di apparire come uno straniero che calpesta la cultura del posto senza neanche darsi la pena di conoscerla. Evitate di domandare al portiere dell’albergo o al cameriere del ristorante: “A che ora comincia la corrida?”

    Per quanto assurdo possa sembrarci, in castigliano non esiste un termine per ciò che noi intendiamo con “corrida”. Gli spagnoli non ne hanno mai sentito il bisogno. Per loro la festa del toro è qualcosa di così classico che non ha bisogno di un nome.   

    In Spagna sentirete parlare della corrida con nomi diversi. L’aspetto tecnico della cosa è tauromáquia (con l’accento tonico sulla prima “a”), l’aspetto spettacolare è fiesta; l’aspetto emotivo, estetico, artistico, e anche quello organizzativo, economico e mediatico, è semplicemente los toros. Se volete sapere a che ora comincia la corrida, domandate: “Cuando van a empezar los toros esta tarde?”.

    Questo, per inciso, dovrebbe far riflettere sulla saggezza di un popolo che può andare in visibilio per un torero, amarlo e portarlo in palmo di mano per tutta la vita, ma non dimentica mai che il centro della fiesta è il toro e tutto ruota intorno a lui. 

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    A un italiano può sembrare incredibile, ma fino al 1960 o giù di lì, il football, il basket, gli sport in genere, erano poco praticati in Spagna e attiravano un pubblico pagante solo nelle tre o quattro città più grandi. Il Real Madrid vinceva le coppe dei campioni, ma per milioni di spagnoli lo sport era roba da señoritos (che non vuol dire “signorine”, ma “ricchi possidenti”). La gente dei pueblos non ascoltava la radio e non leggeva i giornali. Il momento della festa e del divertimento era, da secoli, la ricorrenza del santo patrono e in quell’occasione, per uno o più giorni in relazione ai quattrini disponibili, il municipio patrocinava manifestazioni religiose e civili, tra cui i festejos taurinos. Gli esempi fin troppo noti sono Pamplona, dove ogni 7 luglio si celebra la feria de san Fermín, e Siviglia durante la Settimana Santa. Ma la stessa cosa, in ottavo o in sedicesimo, avviene in tutti i pueblos di Spagna, compresi i più piccoli.

    In conclusione, uno spagnolo usa raramente la parola corrida. Tutt’al più, se il discorso prende un tono aulico, parla della fiesta nacional. Ma l’espressione più frequente è los toros. È una particolarità tutta spagnola, e vale la pena di tenerla presente perché la lingua rispecchia il carattere di una nazione. Piaccia o non piaccia, il toro è il simbolo della Spagna: un simbolo che emerge dalle radici della preistoria e resiste alle intemperie dei secoli. Il toro è il denominatore comune di una terra in cui si parlano quattro lingue diverse e altrettante culture differenti convivono con frequenti e reciproci scazzi. Su questo territorio, arido e quasi desertico come non ne esistono altri nel resto d’Europa, il popolo degli iberi, di origine celtica, si mischiò con fenici, romani, visigoti, vandali e arabi per poi diventare, con la scoperta delle Americhe, la superpotenza che dominò il mondo per due secoli.

    Non è un caso se negli anni ‘60, quando la dittatura decise di aprire la penisola al turismo, fu scelto come slogan: “Spain is different”.   

 

                                Un post politicamente scorretto

 

    Si chiama Alejandro Talavante. È un ragazzino brutto, con la testa grossa e una mascella sproporzionata. È magro come un chiodo. A vederlo, fa venire in mente quel che si diceva una volta degli hidalgos spagnoli: che pranzano con tre olive maturate in tasca e cenano con un’aria di mandolino. Che fanno la fame, insomma.

    Talavante ha diciannove anni. È nato da qualche parte nella provincia di Badajoz, un posto sperduto in fondo all’Estremadura, e di ciò che ha fatto nei primi diciott’anni della sua vita non si sa altro.

    Talavante è un genio naturale, un artista assoluto, capace di trasmettere emozioni mai provate. Talavante è un torero. Se qualcuno non crede che sia possibile fare arte con qualunque cosa, vada a vedere Talavante.

    Il programma televisivo Toros para todos ha parlato spesso di lui, l’anno scorso. A fine stagione gli ha dedicato un servizio con gli highlights delle sue esibizioni. L’ha intitolato: “Ci ricorda Manolete”.

    Nessun critico taurino aveva mai azzardato questo paragone.

    Manuel Rodriguez Sanchez Manolete morì il 28 agosto 1947 nella plaza de toros di Linares. Un toro Miura di nome Islero, marchiato con il numero 21, con il mantello nero brizzolato e il ventre grigio, fu più veloce di lui, che aveva già subito una cornata dodici giorni prima, nella Plaza Monumental di Madrid. Quel giorno morì un grande artista e nacque un mito. Nei cinquantanove anni seguenti le arene di Spagna e Sudamerica hanno visto altri grandi toreri, da Antonio Bienvenida a Luis Miguel Dominguin, a Paco Camino, a Santiago Martin El Viti, tanto per fare qualche nome. Ma con Manolete non c’è paragone possibile, come non si possono paragonare Tiepolo e Guardi a Leonardo.

    Ebbene, ciò che ha fatto vedere Alejandro Talavante in questa stagione ha spinto i critici taurini a ricordare Manolete. Non era mai successo.

    Non è questione di coraggio. Talavante è stato incornato a fine luglio in una corrida a San Lorenzo del Escorial e dieci giorni dopo ha toreato ad Albacete con una cannula di drenaggio nella coscia. Ma questi sono exploit di cui è capace qualunque torero che ami la sua arte.

    Non è neanche questione di tecnica. Talavante realizza il sogno di ogni torero: stende idealmente un fazzoletto sull’arena, ci mette sopra i piedi e non li muove più. Domina il toro senza mai fare un passo indietro. Ogni matador di buon livello riesce a comporre una faena ideale almeno una volta nella sua carriera, ma tutte le esibizioni di Talavante sono così. Non esiste un toro uguale a un altro, eppure tutti restano stregati dalla sua muleta.

    È impossibile che un uomo, a diciannove anni, abbia una conoscenza così vasta da permettergli di affrontare tori diversi con la stessa tecnica. Tutti i migliori matadores sono nati in campagna, hanno vissuto negli allevamenti, hanno imparato a conoscere i comportamenti degli animali allo stato brado. Da quando il padre o uno zio gli hanno messo in mano per la prima volta una cappa e li hanno spinti davanti a un vitellino, si sono sentiti ripetere milioni di volte che ogni toro va toreato in un modo diverso e che se un torero vuole tornare a casa con le sue gambe deve sbrigarsi a capire qual è il modo adatto per ciascun toro.

    Ma Talavante non adatta il suo stile al toro che ha di fronte: costringe il toro a fare ciò che vuole lui. Come faccia è un mistero. Il mistero che Manolete aveva portato con sé nella tomba.

    Nella carriera di un torero ci sono mille insidie: le cornate, la passione che va e viene, le donne, l’entourage, i soldi. Tutte queste cose, e altre ancora, congiurano a mettere l’arte in secondo piano. Nessuno può dire fino a quando Alejandro Talavante continuerà a vibrare in sintonia con i tori, a entrargli dentro, ad amarli e a ucciderli per amore. Nessuno può dire fino a quando avrà voglia di rischiare la vita cento giorni all’anno. Ma anche se decidesse di ritirarsi domani (e spero proprio di no), io lo ringrazio: ha compiuto il miracolo di far rivivere Manolete, un sogno che milioni di aficionados sparsi per il mondo coltivavano in silenzio da cinquantanove anni, e non osavano parlarne perché erano convinti che fosse un sogno impossibile.

    Post Scriptum. Domenica di Pasqua del 2007. Talavante si è presentato per la prima volta come matador de toros nella plaza di Madrid, la più importante del mondo. I sei tori usciti nell’arena erano tutti difficili, sull’avviso e pericolosi, tanto che gli altri due matadores hanno combinato poco o niente. Nel suo primo toro Talavante è stato decisamente superiore, ma non ha avuto fortuna con la spada e il pubblico non l’ha premiato. Nel suo ultimo toro, che non prometteva di essere migliore dei precedenti, Talavante ha superato se stesso: ha dominato il mostro, l’ha ammansito, l’ha costretto a giostrargli intorno a suo piacimento. Ha entusiasmato il pubblico, l’ha portato al calor bianco dimostrando di saper fare cose apparentemente impossibili. Ha ricevuto in premio le due orecchie del toro ed è stato portato fuori dall’arena a spalle in un vero e proprio trionfo.

    Il giorno prima, intervistato da un cronista che gli chiedeva se non lo imbarazzava toreare il giorno di Pasqua, aveva risposto: “È un buon giorno per morire.”

 

                                   Il barocco inevitabile

 

    Due anni dopo che Lutero aveva affisso le sue novantacinque tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg, Carlo V (che gli spagnoli continuano a chiamare Carlos primero) si ritrovò a capo di un impero mondiale. Gli anni che seguirono furono scanditi da guerre, ribaltamenti di alleanze, paci infide, massacri e saccheggi. Solo lo sfinimento e il cambio generazionale convinsero tutti ad accettare lo status quo. Nel 1545, un papa dimezzato e contestato aprì il Concilio di Trento. Dal viaggio di Colombo erano passati appena una cinquantina d’anni.

    Ma dopo tanta guerra, orrori, passioni politiche e religiose, qualcosa era cambiato: dalle nebbie del Medio Evo era uscito e aveva preso forma compiuta il modello dell’uomo integrale, l’uomo al centro dell’universo. Anche in mezzo ai disastri il rinascimento aveva continuato a progredire. Nelle arti figurative aveva raggiunto la perfezione assoluta e si spingeva oltre, verso dimensioni sconosciute, a superare se stesso. Il gigantismo e il non finito michelangiolesco aprivano la strada alle acrobazie del barocco.

    Armata dello spirito tridentino, la Chiesa stroncò ogni accenno di eterodossia. Ma se scienziati e filosofi dovettero allinearsi, gli artisti furono più fortunati: il barocco divenne la bandiera artistica del cattolicesimo, in contrapposizione con l’iconoclastia protestante. Papi e cardinali approvarono la fusione di pittura, scultura e architettura, le piante ellittiche e le colonne tortili, l’esplosione di una fantasia che andava oltre l’immaginabile.

    Lontana, isolata dai fermenti del protestantesimo, la Spagna teneva un occhio rivolto all’America e l’altro a Roma: il cattolicesimo era merce d’esportazione nel Nuovo Mondo, giustificazione morale dell’imperialismo, collante di uno stato nazionale appena nato. L’alleanza tra la Chiesa della controriforma e lo stato assolutistico venne giustificata e teorizzata dai dottori di Salamanca. Restava da educare il popolo, e questo compito spettava agli artisti.

                                                                       

    L’opera che meglio illustra l’etica del barocco è El gran teatro del mundo di Pedro Calderón de la Barca. Vi si immagina che Dio, in un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, chiami le anime dei nascituri ed assegni a ciascuna un destino terreno: a una toccherà di regnare, ad altre toccherannno la ricchezza, la bellezza, il misticismo, il lavoro dei campi, la miseria o l’ingrata sorte di morire poco dopo la nascita. Ogni anima esprime la gioia o lo sgomento per il destino che le è stato imposto, ma non ha scelta: con i destini assegnati, le anime entrano nella vita terrena.

    Il seguito è inevitabile: il bambino muore nel rimpianto di una vita mancata, il mendico si trascina di porta in porta sperando aiuto dal prossimo e disperando di se stesso, il bracciante si spacca la schiena lamentandosi del destino ma dandosi da fare, la mistica fa di necessità virtù, la bella si avvita nel narcisismo e si vede sfiorire con la vecchiaia, il ricco si vede portar via tutto dalla morte, il re si inebria di potere e resta schiacciato dalle responsabilità.

    Poi la morte arriva per tutti e la scena torna a trasferirsi nel luogo puramente intelligibile dove la storia aveva avuto inizio. In una specie di seduta psicanalitica di gruppo, Dio rivela alle anime che la vita che hanno vissuto non è altro che una “parte” nel gran teatro del mondo. Ciò che vale non è l’importanza della parte, ma che ognuno reciti bene quella che gli è stata assegnata: “Obra bien, que Dios es Dios!”

    La morale della favola, fin troppo evidente, pareva essere: contadini, servi della gleba e diseredati di ogni genere, state buoni e tranquilli perché il vostro destino non si può cambiare. A che serve invidiare chi è ricco, bello o potente? Prendiamo quel che ci capita: ognuno per sé e Dio per tutti. Questo modo di intendere la vita venne predicato da tutti i pulpiti, recitato in tutte le piazze. Gli spagnoli subirono un vero e proprio lavaggio del cervello.

                                                             

    A ben vedere, El gran teatro del mundo non è poi così consolatorio. La sua tematica è la stessa della tragedia greca: siamo padroni della nostra vita, o non siamo piuttosto burattini costretti a recitare un copione scritto da altri? Perché ci diciamo liberi, se siamo schiavi del destino e della morte?               

    In pieno Seicento “El gran teatro del mundo” non poteva essere letto in prospettiva laica. Ma si verificò un curioso fenomeno. Le chiese, i teatri, i palazzi da cui questa Weltanschauung veniva predicata e ai quali veniva mentalmente associata, erano barocchi. Alzando gli occhi alle navate, ai retablos, agli affreschi, il popolo vedeva immagini titaniche, vertiginose fughe prospettiche, contorsioni architettoniche che sembravano sciogliere la materia. L’incitamento a “recitare bene la parte che Dio ci ha assegnato” si fondeva con l’anelito di superamento, la voglia di sovrumano che costituisce l’essenza del barocco.

    È ormai un luogo comune considerare Seicento e Settecento come secoli vacui, dominati dal gusto della ridondanza. Ma barocchi furono anche Galileo, Leibniz e Kant, con le loro parrucche e con le loro intuizioni rivoluzionarie. Fu lo spirito barocco a porre le basi di ogni rivoluzione, compresa quella del 1789. Anche la testa di Robespierre, prima di cadere, portava la parrucca incipriata. In Spagna, a partire dal Seicento, non bastò più “recitare la parte”, bisognava recitarla “bene”, e cioè superandosi, tentando di fare le stesse cose come nessuno le aveva mai fatte. Il barocco era un punto di arrivo e non si poteva andare oltre. Non restava che applicarlo a tutto, alla vita intera.

    Questo modo di intendere l’esistenza ricuperava l’ideale cavalleresco e lo metteva alla portata di ciascuno. La maggior parte dei conquistadores che sottomisero le Americhe erano contadini analfabeti, ma come i cavalieri della tavola rotonda potevano pensare che ogni uomo d’animo nobile è tenuto a entrare nella foresta, ad affrontare il mistero, a dominare la paura. In premio avrebbe avuto il Graal, un feudo, o la morte. In ogni caso, un’avventura che gli avrebbe permesso di evadere dalla banalità della vita quotidiana. In questo brodo di coltura entra anche don Chisciotte. Il cavaliere dalla triste figura, che scientemente decide di credere a un sogno, è più cavalleresco o più barocco? Sincerità, disperazione, autoinganno: in don Chisciotte c’è l’uomo e il superuomo.

    E così il barocco, l’imperialismo e la fede si intrecciarono per formare un popolo devoto alla chiesa, sottomesso al re e ai feudatari, forte in battaglia e sfrenato nell’avventura. Uno stato così compatto e così ardito sembrava invincibile. E invece la Spagna pagò la pace sociale con l’isolamento politico, e l’imperialismo con il collasso dell’economia.

    Ma non se ne accorse. Rimase barocca anche dopo la rivoluzione francese. Seguitò a combattere, non per conquistare territori ma per difendere la sua identità. Per essere se stessa rinunziò a una a una alle provincie del suo impero con lo stesso spirito con cui i romani avevano abbandonato le isole britanniche: se non ci apprezzano non ci meritano.

    Le passioni civili rinacquero nell’Ottocento, ma furono parentesi: l’alleanza di Stato e Chiesa ebbe sempre buon gioco a risuscitare la filosofia di vita che il Seicento aveva stampato nel codice genetico della Spagna. Passarono le repubbliche e le dittature, ma la Spagna restò chiusa nel suo mondo barocco. Inseguì il sovrumano nelle architetture oniriche di Gaudi, nel surrealismo di Dali, nelle metafore di Garcia Lorca, nelle astrazioni di Picasso. Oggi la Spagna è democratica. Ma fino a che punto è cambiata?

    Nel parco del Retiro, Paco Umbral si ferma a contemplare il gruppo marmoreo di Lucifero sconfitto dall’arcangelo Michele e ne conclude di trovarsi davanti a un monumento al Demonio. 

    Sulla bandiera del Tercio c’è ancora il motto “Viva la muerte!“.

    Attraverso il paradosso, la ricerca del sovrumano sfocia inevitabilmente nella morte. Eccola, la Spagna che non cambia: anche la fiesta nacional è una paradossale festa di morte.

                                                              

    Madrid. Le sei di un pomeriggio di primavera. Ventimila persone colte da un’improvvisa frenesia si affrettano a infilarsi nel metro, a prendere al volo un autobus, un taxi. Mezz’ora dopo, con un cuscino sotto il sedere, una lattina di birra in una mano e un sigaro avana nell’altra, affollano gli spalti della Plaza Monumental di Las Ventas.

    Alle sette in punto, due cavalieri in abito settecentesco entrano nell’arena, ricevono le chiavi del recinto dei tori e guidano la sfilata delle cuadrillas in una specie di trionfo multicolore. La banda suona un paso doble. La folla applaude.

    Il corteo attraversa l’arena, i matadores accennano un inchino verso il palco del presidente, tolgono le pesanti cappe di seta ricamata, impugnano le cappe di percalle e provano i lenti movimenti della veronica. Il vociare della folla cala di tono. Poi, nel silenzio generale, uno squillo di tromba, l’addetto si affaccia dal toril, controlla che la plaza sia vuota, apre la porta sbattendola con un colpo sordo e un buco nero si spalanca davanti all’arena inondata dal sole.

    Entra la morte.

    Cosa passa per la testa degli spagnoli quando, dall’utero del toril, sbuca correndo nel sole il mostro nero, il drago, il babau?

    Giù nell’arena un omino dal volto teso, ingabbiato in un incongruo costume luccicante, si è precipitato in una corsa suicida verso il toro, si è inginocchiato con la cappa bene in vista, l’ha sventolata in un ampio giro. E la folla si è identificata in lui: tutti hanno capito. Mi metterò sulla strada del mostro perché non possa evitarmi. Lo aspetterò in ginocchio per essere ancora più inerme. Mi verrà addosso rombando come una locomotiva, ma io non mi muoverò. Guarderò la morte negli occhi e le sputerò in faccia.

    Retorica? Istrionismo? Può darsi. Lo spirito barocco insegna che il terrore va sublimato con un’overdose di medicina omeopatica: per vivere bisogna impaurire la paura, uccidere la morte. Questo è ciò che passa nella testa degli spagnoli seduti a bere birra al sole di maggio, quando sentono schioccare la porta del toril e la tragedia ha inizio.

    Entra il protagonista, ed è la morte. È un’onda emotiva che fa quasi  scricchiolare le ossa del torace sotto l’impatto di colpe, rimorsi e castighi che piombano tutti insieme dall’alto del nulla, addosso e dentro le costole. È un attimo snaturante, ingigantito dalla consonanza della folla: l’essere percepisce il non essere che porta dentro di sé, l’odio-amore per il padre e la madre che l’hanno tratto dal nulla, la paura del tempo, l’inafferrabile presente che eternamente corre verso il buco nero dal quale è uscito e nel quale rientrerà.

    L’uomo arriva sempre fino ai suoi limiti estremi, come fu per il barocco, e quando li raggiunge vorrebbe superarli, sbatte contro il paradosso e il teschio del non essere gli ricompare davanti. Gli spagnoli hanno umanizzato la morte, le hanno prestato sentimenti antropomorfi. Il toro simboleggia la morte, ma è vivo e vuole vivere. Per questo combatte, alla maniera di chi non possiede armi difensive: attaccando. Il toro ideale non ha paura di niente, carica in linea retta tutto ciò che si muove e non si stanca mai di caricare. Prende la picca così come un lottatore teso nello sforzo incasserebbe un graffio nei bicipiti, le banderillas gli fanno il solletico, la stoccata gli annebbia la vista senza scalfire la fiducia nella sua forza immensa. Cade con la bocca serrata, senza aver mai cessato di combattere, quasi incredulo di una sconfitta che sembra attribuire più al destino che all’avversario.

    Per poco che riesca a dominare la paura, l’uomo potrebbe deviare la carica con la muleta e, appena passate le corna, conficcare la spada nel fianco del toro. Ma non lo fa, non lo farebbe mai. La logica del barocco esige che l’uomo attacchi di fronte, esponendo il corpo alle corna per tutto il tempo necessario ad affondare la stoccata. La tauromachia riproduce il duello di Turno e di Enea: la forza bruta deve essere sconfitta dalla virtus. Per questo il combattimento dell’uomo e del toro è regolato da una legge: l’uomo deve fare tutto ciò che è necessario nel modo più pericoloso.

    Non fu sempre così. I toreri del periodo classico, da Pedro Romero a Joselito, credettero in buona fede che “fare tutto ciò che è necessario” contenesse già il massimo del pericolo. Ma no, si poteva andare oltre. Per dimostrarlo, lo spirito barocco si incarnò in Juan Belmonte.

    Guardate: il toro è in mezzo alla plaza. A dieci passi da lui Belmonte è immobile, con la cappa stretta nelle mani. La linea ideale che va dal toro all’uomo divide l’arena in due terrenos. Entrare nel terreno del toro sembrerebbe un suicidio. Belmonte scoprì e dimostrò che era possibile deviare il toro durante la carica; dunque, era possibile entrare nel suo terreno e uscirne vivi.

    Guardate: Belmonte vuol far passare il toro alla sua destra. Agita la cappa. Il toro carica. Belmonte stende il drappo e sposta il piede destro di quasi un metro: entra nel terreno del toro. Il lembo esterno della cappa sventola davanti all’occhio sinistro dell’animale: inseguendolo, il toro devia l’angolo di carica, non colpisce nulla, si ferma, si volta, e vede Belmonte che torna a provocarlo con la cappa.  Ad ogni passaggio Belmonte avanza nel terreno del toro, ed è ancora vivo, illeso.

    Per quasi trent’anni Juan Belmonte continuò a toreare in questo modo: con un piede oltre l’orlo della morte. Osservate bene la sua immagine, in qualche vecchia fotografia sgranata: quella faccia da lupo, quel ghigno inquietante e un po’ sghembo, non li avete già visti? Provate ad affiancare una foto di Belmonte a una di Nuvolari. Hanno la stessa fisionomia.

    Belmonte continuò a toreare finché lo ressero le gambe: sfidare la morte era diventato una droga. Quando non fu più in grado di scendere nell’arena la vita senza sfide si trasformò in una insopportabile agonia. Il colpo di pistola con cui si bruciò il cervello disse al mondo che un popolano andaluso era salito ai vertici dello spirito barocco e si era rifiutato di tornare indietro.

 

                                                     Mirón

 

    Tre domeniche fa, a Tarifa, sulla sponda europea dello stretto di Gibilterra, è successa una cosa rara, anche se non proprio unica. Si celebrava una corrida che la televisione andalusa Canal Sur ha trasmesso via satellite, permettendo anche a me di vederla e riferire.

    I tori provenivano dall’allevamento Nuñez del Cubillo, simili tra loro come presenza fisica, ma disuguali di comportamento. Il quarto toro si chiamava Mirón (che significa qualcosa come “guardone”) e non lasciava immaginare niente di speciale. Il matador che doveva affrontarlo era Jesus Janeiro, detto Jesulín de Ubrique, un torero dallo stile molto tecnico che, intorno ai suoi vent’anni, ha conosciuto stagioni di gloria e ora che ne ha trentatre sta completando la sua ultima stagione. In novembre si ritirerà, curvo sotto il peso dei milioni accumulati in quindici anni di combattimenti, viaggi notturni, stanchezza fisica e psichica, paura, ferite e ospedali.

    Il toro Mirón entrò nella plaza deciso a non tollerare intrusioni nel suo spazio vitale, e lo dimostrò caricando senza tante storie tutto ciò che vedeva intorno a sé. Nel suo comportamento non c’era niente di scomposto: una cappa sventolava, un uomo correva? Lui abbassava la testa e ci si precipitava contro galoppando in linea retta come un treno sui binari. Fece così anche con il cavallo del picador e quando gli ebbe conficcato le corna nella corazza continuò a spingere, come se la picca che lo pungeva nella groppa gli avesse fatto solo il solletico. Con lo stesso allegro coraggio Mirón caricò i banderilleros. Non riuscì a colpirli, ma dal suo punto di vista si ritenne vincitore: loro gli avevano appeso sulla schiena sei bastoncini colorati, lui li aveva messi in fuga. Buon per loro che erano scappati verso la barrera e l’avevano scavalcata con un salto.

    Poi un drappo provocante cominciò a sventolargli davanti agli occhi. Cos’era? Cosa voleva? Mirón non stette a domandarselo: abbassò il muso e gli corse addosso. Il drappo si ritirava, spariva dalla vista e poi tornava a farsi vivo. Mirón continuò a caricare confidando nella sua forza immensa. Prima o poi l’avrebbe colpito, avrebbe tolto di mezzo anche questo avversario, e altri ancora, qualunque altro. Non aveva paura di niente e di nessuno, lui.

    Dopo dieci minuti di cariche instancabili, Mirón cominciò a sentire che la folla urlava un grido complicato. Fino allora, ogni carica era stata accompagnata da un rumore simile alla risacca, un rumore che diceva: Olé! Ma questa volta il grido era più lungo. Diceva: No lo mates! (Non ucciderlo!).

    E la cosa cambiò perché inseguendo il drappo Mirón si ritrovò nel chiquero dove era stato prima di uscire nel sole, e dall’alto pioveva un getto d’acqua fresca, e lui trovò piacevole riceverla sulla fronte. Poi si aprì la porta di un labirinto come quello che aveva percorso alla mattina, e ci fu un altro viaggio in camion, e poi ancora un chiquero e un altro getto d’acqua fresca, mentre due o tre uomini si affaccendavano sulla sua schiena, toglievano le banderillas, spargevano antibiotici, cucivano le ferite, sistemavano una cannula di drenaggio.  

    E infine si aprì l’ultima porta, e Mirón tornò a vedere il profilo delle colline, sentì il vento che sollevava la polvere e muoveva i rami delle querce, spazzava via l’odore dello stallatico e portava il profumo dell’erba e delle ghiande. Sulle ali del vento arrivarono anche i muggiti della mandria e Mirón uscì nel sole, si guardò attorno con la pigra indolenza di un risveglio, e si avviò trotterellando verso le vacche.           

                                                             ***

Nella fraseologia taurina, la decisione di non uccidere il toro si chiama indulto. Non è affatto frequente. Nelle ultime stagioni è successo non più di tre o quattro volte all’anno. Eppure è l’evento che più fa felici gli aficionados. Ne parlano giornali e televisioni. I critici taurini vanno a visitare il toro tornato a pascolare in campagna e scrivono articoli da libro Cuore.

    Come sempre, non ho intenzioni apologetiche: chi ha già le sue idee non le cambierà leggendo un post. Cerco solo di capire. E credo che l’indulto (quello taurino, beninteso) sia un buon punto di partenza per comprendere lo spirito con cui uno spagnolo assiste e giudica una corrida, il che coincide in larga parte con lo spirito con cui gli spagnoli affrontano la vita.

    Toro e torero sono giudicati con lo stesso metro, solo che il giudizio non si basa su come va a finire la lotta, ma su come si comportano i contendenti. Il fatto che la normale conclusione sia la morte del toro non ha alcuna rilevanza. Ciò che si chiede a toro e torero è di essere se stessi: il torero deve essere uomo e artista, il toro deve essere un combattente. Il torero deve amare il toro e ucciderlo per amore; il toro deve caricare per uccidere, ma senza astio, come in un torneo cavalleresco. Queste espressioni possono parere assurde e addirittura fornire lo spunto a battute e prese in giro. Ma non ne esistono altre, e del resto chi sceglie la strada del dileggio non ha bisogno di leggerle: è convinto di avere già capito tutto.

    Esistono dei tori che si accorgono dell’inganno e invece di caricare la muleta caricano l’uomo. In gergo si chiamano tori che desarrollan sentido, sviluppano l’intuito della situazione. Gli spagnoli non li premiano e non li condannano: sono tori intelligenti, ma non sono nobles. Il toro intelligente pensa di salvarsi la vita uccidendo il torero, e sbaglia. Il toro nobile se ne frega della vita e pensa a combattere. È come se dicesse: prima o poi moriremo comunque, tu e io, quindi tanto vale farlo bene.

    A chi si comporta nobilmente gli spagnoli perdonano tutto. Per chi non sa essere nobile non hanno compassione. Ecco perché l’unico modo per un toro di uscire vivo dall’arena e tornarsene ai suoi pascoli da beato stallone è combattere nobilmente, generosamente. Caricare, caricare e non stancarsi mai di caricare. Il toro che si comporta così opera una trasmutazione alchemica: da mostro, quale appare all’inizio della lotta, diventa un Ivanhoe, l’eroe leale che nessuno può sconfiggere.

    Quando scende nell’arena un toro così, il petto di uno spagnolo si gonfia in un sentimento di gioia totale, simile a quella dell’appassionato di musica lirica quando la voce di un grande tenore fa dondolare il lampadario. Nella plaza gli spettatori si alzano in piedi sventolando i fazzoletti. Il matador depone la spada e applaude il toro. Il presidente nel suo palco espone un fazzoletto arancione. Tutto si ferma. Il mayoral fa entrare nell’arena cinque o sei manzi, il toro li riconosce e li segue. Da quel momento l’unico pensiero degli uomini è curargli le ferite. E lui, il toro, cosa starà pensando? Non possiamo saperlo. Ma se vale qualcosa l’umanizzazione che gli spagnoli impongono ai sentimenti taurini, probabilmente penserà al trionfo, alla gloria del ritorno nelle sue praterie dopo aver combattuto e vinto, come un eroe.    

 

                                   Ancora un libro

 

    Tempo fa, due amici mi hanno suggerito di scrivere un libro sulla tauromachia, una specie di romanzo-saggio. Mi sono sentito lusingato. Ma è un bel problema. Un libro così l’ha già scritto Hemingway (hai detto niente!): si intitola “Morte nel pomeriggio”. Senza contare che lo stesso Hemingway ha scritto di tori anche in “Fiesta”, in alcuni racconti, nelle pagine migliori di “Per chi suona la campana”, ecc. ecc. E poi in lingua spagnola c’è di tutto: c’è l’opera enciclopedica di Cossio, lapidariamente intitolata “Los Toros”, e ci sono centinaia di libri che coprono tutta la gamma dal manualistico al letterario, fino al famigerato “Sangue e arena” di Blasco Ibañez, capolavoro del genere strappalacrime. Insomma, per scrivere un libro sui tori dovrei dare alla materia un taglio diverso, ma non so proprio dove andare a cercarlo. Però ammetto che mi piacerebbe provarci. Mi piacerebbe davvero.

    Non che mi manchi il materiale. Qualche mese fa è scaduto il quarantesimo anniversario del mio primo incontro con il mondo dei tori, un avvenimento il cui ricordo è diventato vago: certe cose mi sono rimaste impresse, altre le ho dimenticate. Fu a Madrid, nella plaza monumental di Las Ventas, l’università della tauromachia. Scesero nell’arena tre uomini dal futuro disuguale. Il primo, Andrés Vázquez, per un paio di stagioni diventò una star ma poi si beccò una tremenda cornata nei glutei a Siviglia e da quel giorno non fu più lui. Il secondo, El Puri, un ex-banderillero che voleva diventare matador, non ebbe fortuna, chiese di tornare banderillero, e il sindacato disse no: non voleva essere una cosa e non riusciva a essere l’altra? peggio per lui. Del terzo, José Falcon, portoghese debuttante, non ho più saputo niente fino all’altro giorno, quando ho cercato il suo nome sull’annuario. Ci sono rimasto malissimo: è morto di cornata nella plaza de toros di Barcelona, sette anni dopo quel pomeriggio a Madrid.

    Non ricordo da quale allevamento provenivano i tori di quella prima corrida nella mia vita, e me ne rammarico perché erano eccezionali. All’epoca non potevo saperlo: credevo che fossero tutti così. Irrompevano nella plaza sbuffando e correndo come locomotive. Il tizio seduto vicino a me commentava compiaciuto: “Noventa! Noventa!”. Voleva dire: vanno a novanta all’ora! E quando i tori caricavano i cavalli senza far caso alla picca, e i picadores avevano il loro daffare a restare in sella con quella mezza tonnellata di muscoli che gli premeva contro, lo sentivo mormorare: “Mucho toro! Mucho toro!”. Come dire: che toro fantastico!

    Da allora, nelle arene spagnole e sudamericane ho visto un po’ di tutto. Fiaschi e trionfi. Farse e tragedie. Ero seduto in un tendido dalla parte del sole, il 22 maggio 1972, quando per l’unica volta negli ultimi cent’anni la plaza di Madrid concesse la coda del toro come trofeo al matador, che era Sebastian Palomo Linares. Non tutti i presenti erano d’accordo e ci furono proteste clamorose. La plaza era piena fino all’orlo, quindi gli spettatori di quel fatto più unico che raro dovevano essere in tutto ventidue-ventitremila, e calcolando il tempo trascorso forse più di metà sono già morti. Ogni anno siamo in meno a ricordare come andò, e potrebbe valere la pena di metterlo per iscritto finché sono in tempo.

    Ecco, basta cominciare. I ricordi sono come le ciliege: uno tira l’altro, e di cose da raccontare ce n’è a vagonate. Il tentativo di linciaggio di un matador sul viale del tramonto da parte di un pubblico imbufalito che aveva pagato il biglietto e si aspettava emozioni che lui non riusciva più a dare (si chiamava Gregorio Sanchez e per anni era stato un idolo delle folle). Oppure l’intercessione della Madonna e di tutti i santi in comitiva per salvare la pelle all’incosciente che scese nell’arena di Quito in occasione della festa patronale nel 1978. Indossava un costume color perla e guarnizioni argentate, ma non aveva la più pallida idea di come si fa. L’impresario, che evidentemente ne sapeva meno di lui, l’aveva contrattato scambiando la sua incoscienza per coraggio. E per contrasto mi viene in mente la chiacchierata con Manolo Martinez Chopera, uno dei più famosi impresari taurini di Spagna, grandissimo conoscitore di tori e amico personale dei più famosi toreri. Adesso che ci penso, dovrei assolutamente sbobinarla dalla memoria.

    Ma chissà se lo farò. Ci sono un’infinità di cose connesse con il sangue e la sabbia che meriterebbero di essere raccontate. Ma sono cose così sottili e imprecisabili che ho paura di non riuscire a spiegarle. Credo di saper raccontare l’atmosfera elettrica di un temporale in arrivo sulla plaza di Vitoria, la statua del Cid a Burgos, la pioggia di San Sebastian, le pulpeiras di La Coruña, l’atmosfera della “costa Fleming” durante gli ultimi anni della dittatura, quando le prostitute del barrio si concentravano in tre bar e lì a due passi c’era il Kentucky Fried Chicken, con le sue cosce di pollo avvolte nella panatura croccante e l’insalata di cavolo. I sedicenni ci andavano con la fidanzatina e bevevano cocacola con le cannucce. Ma che c’entra tutto questo con i tori? Non lo so, e se non lo so io come posso pretendere di spiegarlo a voi?

    Eppure c’entra, accidenti, e se uno vi parla di tori ma non vi racconta queste cose mandatelo a quel paese, perchè non si capisce niente della Spagna se la si rifiuta o se ci si rifugia nelle solite immagini oleografiche. La Spagna è un paese civile come tutti gli altri (spesso anche più civile). Però è diverso. Insomma, è una faccenda complicata.

    Per esempio, la Spagna che ho amato io non è più quella di oggi. In quegli anni Madrid era un posto con meno grattacieli e con una topografia individuata dai locali e dalla loro frequentazione: da Chicote andavano i miliardari e i loro parassiti, da Mayte i parvenus e gli sportivi, al Café Gijón gli scrittori e la gente di spettacolo, da Aguilucho le vecchie damazze. Da Botín, già allora, ci andavano solo i turisti americani. Con maggior competenza del sottoscritto ne ha parlato Paco Umbral in La noche que llegué al Café Gijon ed è già morto anche lui, porca miseria, e non per le corna di un toro (forse avrebbe preferito: gli intellettuali spagnoli non sono antitaurini).

    E comunque sarebbe ora che qualcuno parlasse dei tempi di Paco Camino e di Santiago Martin El Viti, che fu l’ultimo a usare la spada d’acciaio per sostenere la muleta, invece di quella finta, più leggera, di legno verniciato. El Viti, l’uomo che mi fece ritrovare in piedi sulle gradinate della plaza de toros di Vitoria applaudendo a scena aperta senza rendermi conto del fatto che mi ero alzato in piedi, e come, e perché. L’anno dopo qualcuno mi disse che a Salamanca il complimento d’obbligo alle ragazze era: “Tienes mas salero que el Viti toreando” (Sei più elegante del Viti quando torea).   

    E la faccenda si complica perché a questo punto dovrei spiegare che salero non è soltanto l’eleganza del portamento: è una cosa che ha odore e sapore, anche se non si assume con la bocca ma con gli occhi. Dovrei essere capace di mettere sulla lingua a chi legge il sapore che nasce in bocca quando una donna si muove in modo da risvegliare l’istinto della riproduzione. Perché salero è il sale di qualunque pietanza, ma soprattutto di un corpo femminile. (Sempre che le donne non si imbizzarriscano a vedersi paragonare al cibo: ci sono circostanze in cui non chiedono di meglio, lo sappiamo noi e lo sanno loro; ma guai a parlarne.)

    Ecco qua: parlare di tori significa parlare della Spagna, e a questo proposito avrei milioni di cose da dire; ma no, non voglio ridurmi a ricamare sul tema delle neiges d’antan come faceva il sullodato Hemingway (l’ha fatto fino alla sazietà, e anche oltre). Vorrei trovare un tono particolare: leggero ma non troppo, ironico ma non troppo. Perché non posso dimenticare Antonio Bienvenida, Paquirri, El Yiyo (e chiedo scusa a tutti gli altri che ho dimenticato), morti in questi quarant’anni per il vizio di fare arte danzando fra le corna di un toro. Non posso girarci attorno: un libro sull’argomento deve dare qualche spiegazione. Perché gli uomini amano sfidare la morte? Perché gli spagnoli lo fanno in quel modo? Ci sono studi e inchieste sull’argomento, ma sono dannatamente inutili. Provate a intervistare un torero: se è colto vi sommergerà di (pessima) retorica, se non lo è si chiuderà in un silenzio da capo indiano. Augh.

    Non è detto che il silenzio sia sempre espressivo, così come non è vero che la retorica sia sempre vuota. Ma sta di fatto che parlare con i toreri non serve a niente: è come chiedere alle donne che cos’è l’amore. E allora cosa potrei fare? Dovrei limitarmi a elencare le mille sfumature della passione per il rischio in versione iberica, dal rejoneo all’encierro, dai recortadores ai forcados (senza dimenticare le charlotadas e il bombero torero)? E fino a che punto avrebbe senso cercare parallelismi con i piloti di formula 1, i paracadutisti, gli scalatori, gli speleologi?

    No, non so se riuscirò mai a scrivere un libro sui tori. Ma se ci provassi vorrei che fosse un libro sincero, che non si facesse scrupolo di dire le verità che fanno a pugni con i gusti correnti. Solo che un libro così nessuno vorrebbe leggerlo e, se un libro non si leggerà, perché scriverlo? Oggi si fa letteratura, cinema, televisione e informazione come se non si dovesse morire mai. La gente non vuole pensare alla morte. Tutti i generi di fiction parlano continuamente di serial killer, ma inflazionano gli omicidi, li rendono grotteschi e finiscono per esorcizzare la morte. E invece un libro sincero dovrebbe dire che è altrettanto naturale vivere e morire, e che non si vive per vivere ma per sentirsi vivi, e non è la stessa cosa.

    Insomma, perché dovrei spendere due o tre anni, oggi che me ne restano sempre meno e diventano sempre più preziosi, per scrivere un libro che nessuno leggerà (e quei pochi che lo facessero, dopo aver sfogliato qualche pagina, chiuderebbero il volume indignati contro un autore politicamente scorretto)? Potrei scriverlo per il gusto di scandalizzare. Potrei denunciare la schizofrenia di una società che vuole abolire la caccia senza smettere di mangiare selvaggina. Ma chi me lo fa fare? Io non sono un predicatore. E poi, i libri non si scrivono per moralismo o antimoralismo. Si scrivono quando escono dal cuore. Ecco: se lo scriverò sarà per quello.                                 

 

                                                   I Baschi

 

    In tutti i paesi europei ci sono differenze fra nord e sud, ma in Spagna la differenza è aggravata da una questione di lingua e di sangue. A nord, sulla costa atlantica, vicino alla frontiera con la Francia, ci sono le tre province basche di Vizcaya (con capoluogo Bilbao), Guipuzcoa (San Sebastián/Donosti) e Alava (Vitoria/Gasteiz). Anche nella vicina Navarra (Pamplona) e nella provincia cantabrica di Santander la popolazione è in gran parte basca.

    Zona speciale, la costa del Golfo di Biscaglia. C’è pioggia e nebbia con una frequenza imbarazzante. Le previsioni del tempo, in Spagna, ripetono ossessivamente la frase chubascos en el Cantabrico, esattamente come fino agli anni ’70 abbiamo sentito ripetere “nebbie in val padana”. San Sebastián è nota per una pioggia particolare – la chiamano kikiriki – che è una via di mezzo fra l’acquerugiola e la nebbia, con gocce sottili, quasi aghiformi, che sembrano restare sospese a mezz’aria. Quando il sole è nascosto dietro le nubi (cioè piuttosto spesso) il paesaggio delle province basche è triste come una spiaggia inglese, eppure non manca di attrattiva. La costa è frastagliata, rocciosa e pittoresca. Il litorale di San Sebastián, la playa de la concha, è una meraviglia della natura. E uscendo dalle città si sale rapidamente verso colline verdi come nel paese di Heidi.  

    Qui vivono i baschi, gente speciale come la loro terra, con una atavica tradizione di indipendenza personale e di diffidenza per le istituzioni statali di qualunque genere. Le loro origini si perdono nella notte dei tempi (nella zona non sono rari dolmen e menhir), ma il loro individualismo è tale e tanto che non hanno mai pensato di costituire uno stato. Si favoleggia di uno stato basco, non si sa bene in quale periodo dell’alto medioevo, ma non c’è modo di passare dalla leggenda a un qualche fondamento storico, anche perché non esistono documenti scritti in basco anteriori all’undicesimo secolo. Questo la dice lunga sul carattere dei nostri amici: sono stati dirimpettai di romani, arabi e francesi per più di mille anni, e non hanno mai sentito il bisogno di mettere per iscritto le loro usanze, le loro poesie, la loro storia. Come i loro cugini scozzesi, avevano il senso del clan ma non quello della comunità. Con le legioni romane non hanno ingaggiato battaglia: si sono ritirati sui monti e su una costa che non interessava a nessuno. Altrettanto hanno fatto quando gli invasori sono stati i vandali, poi i visigoti e infine gli arabi. Non so come siano diventati cristiani e quale religione professassero prima della conversione. Credo che non lo sappiano neanche loro.

    I baschi sanno combattere come chiunque altro, ma non hanno mai mosso guerra a nessuno per il semplice motivo che non si sono mai organizzati in uno stato e non hanno mai avuto un esercito. Sono orgogliosissimi della loro lingua, delle loro tradizioni, dei loro sport, ma non concepiscono la nozione di sovranità. Anche per questo il movimento indipendentista non è mai stato maggioritario, neanche quando si opponeva alla dittatura di Franco. Ci sono terre basche sia in Spagna che in Francia, ma ai baschi non gliene è mai importato di essere divisi da un confine. Fra Hendaya e Irun c’è una dogana? Chi se ne frega. I re di Francia e di Spagna si fronteggino pure dove vogliono. Affari loro.

    Secondo i castigliani e gli aragonesi (gente che, quanto a capatosta, potrebbe tranquillamente buttar giù i muri a testate), i baschi hanno la crapa più dura del granito e più pesante del piombo. Un po’ prima dell’anno mille, quando il re di Navarra era un basco, i suoi consanguinei abitanti delle tre province gli fecero marameo. Di formare un regno basco neanche parlarne. Nel tredicesimo secolo, piuttosto che accordarsi per formare uno stato unitario, le tre province si lasciarono attirare una dopo l’altra nell’orbita del regno di Castiglia, purché quest’ultimo accettasse la clausola “i baschi sono una cosa diversa”. Per i meriti dei marinai e dei soldati baschi, Madrid ratificò i privilegi delle tre province e li rese ufficiali: sono i cosiddetti fueros, che vennero cancellati nella seconda metà dell’Ottocento e (pur se in gran parte reintrodotti dall’ultima costituzione) ancora oggi danno alla ETA il pretesto per presentare i suoi attentati come una guerra di liberazione.

    ETA è l’acronimo di Euskadi Ta Askatasuna e significa Terra Basca e Libertà. Ma promettere libertà e poi fare attentati ai danni di civili e turisti non è il massimo della coerenza. A lungo andare, anche l’operaio di Bilbao e il cameriere di San Sebastian si stufano del sangue e cominciano a pensare che, se dovessero averla vinta quelli che hanno una così scarsa considerazione per la vita umana, anche gli stessi baschi avrebbero poco da stare allegri. Nelle elezioni locali la maggior parte dei voti si ripartisce fra i partiti spagnoli e il Partido Nacionalista Vasco, che sotto sotto è imparentato con il Partito Socialista, flirta con il separatismo per dovere di coerenza ma con scarsa convinzione, e non si sognerebbe mai di scatenare una guerra civile. Le filiazioni politiche della ETA (che cambiano continuamente di nome: Herri Batasuna, Euskal Herritarrok, ecc. ecc.) non arrivano a mettere insieme il 10% dei voti baschi e hanno le loro roccaforti elettorali nelle zone rurali della Guipuzcoa. A Bilbao e a Pamplona il prestigio della ETA è molto calato. I motivi sono tre: gli attentati sono sempre più incomprensibili e sembrano unghiate di una belva ferita a morte; la Francia ha smesso di chiudere un occhio sui santuari della ETA nei Pirenei orientali e collabora con la polizia spagnola; e infine i baschi sono stufi di pagare, oltre alle tasse di Madrid, anche l’impuesto de guerra della ETA.

    Visto dal di fuori, l’atteggiamento dei baschi può sembrare incoerente, ma solo fino a un certo punto. In realtà, si tratta di un’incoerenza che noi italiani conosciamo bene, visto che la pratichiamo da secoli. Finché si tratta di scendere in strada per rivendicare autonomia, sono tutti d’accordo; gridare “Gora Euskadi askatuta!” scalda il cuore tanto agli studenti che ai bottegai; ma fare qualcosa di concreto per staccarsi dalla Spagna, questo no. Gli unici che ci provano sono i terroristi, ma non hanno il sostegno della popolazione, tanto è vero che per ottenere soldi e complicità devono ricorrere alle minacce, alle intimidazioni, agli omicidi. Negli ultimi anni il lehendakari (ovvero il presidente della regione autonoma) ha presentato a Madrid un piano che prevede la costituzione di uno stato basco in forma di monarchia associata a quella spagnola con Juan Carlos come re. Nessuno gli ha dato credito. Madrid si è limitata a dire di no. La ETA non ha aperto bocca. Il popolo basco ha fatto finta di non sentire. 

    La nuda verità è che i baschi stanno comodi dentro a una Spagna che ha concesso tutte le autonomie possibili e immaginabili, compresa la libertà di mugugnare in continuazione e, come dicono a Napoli, chiagnere e fottere. Se diventassero davvero indipendenti dovrebbero costituire uno stato, un esercito, una burocrazia fiscale, eccetera. Tutte cose alle quali i baschi sono allergici. Le sopportano se a farle sono i castigliani, così possono lamentarsi e criticare. Ma farle loro, no e poi no.    

    Per cercar di capire l’individualismo dei baschi può essere utile osservare come si divertono. Giocano al calcio e corrono in bicicletta come tutti gli altri, ma ciò che apprezzano davvero in ogni attività umana è l’esibizione della forza fisica. I loro sport prediletti sono gare come il canottaggio in mare aperto, il taglio dei ceppi con la scure, il frontón (cioè la pelota: una specie di squash che si gioca colpendo con la mano nuda una palla di legno ricoperta di cuoio) e altri di questo genere. Sono gare in cui la forza bruta pesa per il 90% e lascia poco spazio alla bravura, all’abilità, all’ispirazione. Analogamente, l’aficionado basco entra nella plaza de toros sperando di vedere tori-mostro che rovesciano i cavalli dei picadores e toreri-gladiatori che si comportano come san Giorgio con il drago. A Bilbao, Vitoria, San Sebastián e Pamplona l’emozione artistica non è neanche concepibile senza una esibizione di muscoli (un po’ come se l’arte di un ballerino classico dipendesse dall’altezza dei suoi salti). Non voglio fare l’impertinente, ma sospetto che per i baschi il torero ideale sarebbe stato Milone di Crotone, quel tizio che tremila anni fa ammazzò un toro calandogli un pugno sulla testa.

    Però non fatevi un’idea sbagliata. Quando si guardano gli altri è più divertente osservare i difetti che le virtù, e per questo mi ci sono dilungato. In realtà i baschi, se si ha l’accortezza di prenderli per il loro verso, sono gente simpaticissima. Tanto per cominciare sono concreti e, in genere, prendono impegni solo quando sanno di poterli mantenere (virtù che altrove, per esempio in Francia e in Germania, non è poi così diffusa come si vorrebbe far credere). In compagnia, al bar, al ristorante, i baschi sono allegri e spiritosi; non saranno brillanti come gli andalusi, ma il loro buonumore è più sincero di quello che potrete trovare per esempio in Catalogna o in certe parti d’Italia, non fatemi dire quali. Quanto al lavoro, i baschi sono contadini, pescatori, operai, imprenditori e banchieri, esattamente come tutti gli altri popoli. Con il loro gusto per le esibizioni di forza, mettono nel lavoro più impegno degli altri spagnoli, ma non hanno la versatilità commerciale dei catalani o i lampi di genio di castigliani e andalusi. Eccellono in una cosa: sono i migliori cuochi di Spagna, e non crediate che sia una cosa da poco. Se non conoscessi certe trattorie liguri e toscane, starei per dire che i baschi sono i migliori cuochi del mondo. Hanno un solo difetto: il complesso di inferiorità verso la cucina francese. Ma non ne hanno assolutamente motivo.

    Anzi, date retta a me: i francesi e le loro salse, sotto le quali – carne o pesce – tutto ha lo stesso sapore, mandateli a farsi friggere. Una volta ho visto in tv Bocuse che, con insopportabile prosopopea, spiegava al colto e all’inclita come preparare un uovo al tegamino. Vi dico soltanto questo: la sua ricetta prevedeva di togliere e rimettere in forno il tegame per quattro volte!

    Bocuse può farsi dare diecimila stelle dalla guida Michelin, ma da me non avrà mai un centesimo. Se proprio sono in vena di rovinarmi, preferisco spendere un patrimonio da Arzak o da Berasategui. Ma, se posso confidarvi i miei gusti, è più facile che mi troviate in qualche trattoria alla buona, dove il menu è composto al massimo da sette/otto piatti, e in cucina c’è una donna sui cinquant’anni che ogni mattina va di persona a far la spesa e conosce per nome fruttivendoli e pescatori (e le loro mogli).

    Comunque sia, fermo restando che ognuno ha i suoi gusti e sui gusti non si discute, ci sono anche i fatti: nessuno, e ripeto “nessuno” sottolineando tre volte in rosso, cucina la merluza come i baschi. E visto che mi sono lasciato andare su temi gastronomici, chiudo l’argomento con una breve digressione sulla merluza.

                                                               ***

Teoricamente, la merluza esiste anche nel Mediterraneo. È il nasello. Difatti in certe regioni, per esempio nelle Marche, i naselli si chiamano merluzzi. Ma, come dicevo, è un fatto puramente teorico.

    Il nasello italiano arriva normalmente in pescheria quando pesa tre o quattro etti. Un nasello di un chilo è già una rarità. In Spagna normalmente la merluza è venduta a tranci e sotto i due chili non viene neanche presa in considerazione. Fra i due e i tre chili non è ritenuta degna del nome di merluza e viene chiamata pescadilla, che sarebbe come dire pesciolino.

    La merluza comincia a meritare il suo nome quando il muscolo che muove la mascella (il nome basco è kokotxa) è grande abbastanza da formare un boccone, e cioè quando il pesce pesa almeno tre chili. Nei naselli mediterranei questo muscolo è praticamente invisibile. Nei ristoranti baschi la kokotxa viene cotta in un modo particolare che fa sudare i grassi contenuti fra la pelle e la carne del pesce, e concentra il sapore. Potete aver mangiato ostriche belon triplo zero, aragoste del Maine, e il più fine dei caviale beluga, ma finché non avete assaggiato una kokotxa non datevi arie da buongustai. 

    Non sto a dirvi quante sono le ricette per cucinare la merluza e non mi interessa stabilire se sono di più o di meno di quante ne esistano in Portogallo per cucinare il bacalhau (che è poi sempre lo stesso pesce). Vi racconto soltanto un aneddoto.

    Nel 1978 lavoravo a Madrid per una azienda italiana. Un giorno arrivò un pezzo grosso con moglie al seguito e, fra le altre cose, mi toccò di fare il cicerone. A pranzo, consigliai la merluza cotta con patate, aglio, peperoncino e vongole in tegame di coccio. Come mi aspettavo, i due arricciarono il naso al solo sentir nominare “il merluzzo”. Chiesero qualcos’altro, orata o branzino non ricordo, e il merluzzo lo ordinai io. Già quando videro arrivare il mio tegame cominciarono a interessarsi al fenomeno. Il profumo li inebriò. In trenta secondi spilluzzicarono le loro portate quel tanto che bastava per renderle inutilizzabili, poi cominciarono a pescare nel mio tegame.

    Dovetti accontentarmi di pane e vino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    Quelli che seguono sono quasi tutti gli altri post pubblicati in quattro anni su Merlin Cocai. La sequenza cronologica è soltanto approssimativa, ma è quanto di meglio posso fare in queste circostanze.

 

 

 

 

                         Ci sono due modi di guardare la realtà 

 

    Vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?

    No. Troppo facile. Pessimismo e ottimismo sono due diverse manifestazioni di una stessa sindrome che si può esemplificare così: Tizio vede passare una ragazza stupenda e pensa: adesso la fermo, le parlo e la seduco; Caio nella stessa situazione pensa: è troppo bella, e a me non la darà mai. Tutti e due, invece di prendere informazioni, sovrappongono il loro immaginario personale alla realtà. Poi, che si dividano in ottimisti e pessimisti è normale. Ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse così.

    Invece, i due modi a cui allude il titolo sono più radicali: si può guardare la realtà per ciò che è, oppure per ciò che si vorrebbe che fosse.

    E naturalmente si vorrebbe che fosse “giusta”. Ma qui nascono i guai, perché basta interpellare dieci persone prese a caso per trovarle magari compatte sul concetto di “giusto” in astratto, ma divise sull’applicazione del “giusto” in un caso concreto. È un fenomeno statistico noto fin dalla più remota antichità, e ha dato luogo a tre tipi diversi di reazione.

    Il primo dice: va bene, capisco che non tutti la pensino allo stesso modo, sono perfino disposto a credere che qualcuno degli “altri” sia in buona fede ma, se una cosa è giusta, è giusta. Chi la pensa nel modo sbagliato va difeso dai suoi stessi errori. E lo stato ha il dovere di impedirgli di sbagliare.

    Il secondo dice: visto che non tutti la pensano allo stesso modo, per far passare il modo “giusto” devo allearmi di volta in volta con chi è più vicino alle mie posizioni e concedergli qualcosa. Non otterrò il 100% del “giusto”, ma qualcosa è sempre meglio che niente.

    Il terzo dice: cazzo! chi la vuole bianca, chi la vuole nera, e anche tra quelli che la vogliono grigia ognuno pretende una sfumatura diversa! È chiaro che c’è sotto un difetto di informazione. Adesso vi spiego io come sta la faccenda.

    Il primo atteggiamento passa sotto i nomi di totalitarismo o integralismo e “giustifica” la repressione del dissenso. Il secondo è l’atteggiamento del riformismo storico e usa il compromesso come approccio graduale al “giusto”. Il terzo è l’atteggiamento di chi è sicuro di poter convincere gli altri di che cosa è “giusto”.

    Tutti e tre appartengono alla categoria di chi possiede la Verità con la V maiuscola e, dall’alto della sua scienza infusa, guarda alla realtà con un certo cipiglio: se quella discolaccia non si adegua ai precetti del “giusto”, gliela farà vedere lui.

    Insomma, sono tutti della stessa razza. Poi, che si dividano in totalitari, riformisti o imbonitori, come nel caso degli ottimisti e dei pessimisti, è solo una questione di carattere.

    Esiste però anche un’altra categoria, minoritaria e misconosciuta. Chi ne fa parte non si permette atteggiamenti da demiurgo. Sapendo di non possedere la verità, parte dal principio hegeliano che “il reale è razionale” (e quindi accetta che la realtà sia più razionale di lui). Tiene sempre d’occhio i limiti delle sue possibilità di azione. Cerca di proporsi degli obbiettivi concreti e possibili, ed è pronto ad abbandonarli se scopre che possibili non sono più. Sa che le teorie sono soltanto ipotesi di interpretazione della realtà, e che quando i fatti non combaciano con le teorie sono queste ultime a essere sbagliate. E infine è rassegnato a essere preso per un cinico, immorale, privo di valori, eccetera eccetera. Perché bisogna pur dire che a guardare la realtà così come è sono davvero in pochi. La stragrande maggioranza preferisce sposare a priori una tesi (ed è meglio non indagare sui motivi della scelta), per poi inneggiare agli argomenti a favore e sputare sugli argomenti contrari.

    In cambio della scarsa considerazione di una variopinta maggioranza, chi vuol guardare la realtà per ciò che è ottiene soltanto la speranza di muoversi verso una verità che non può comprendere e che non raggiungerà mai. Non avrà neanche la consolazione dei riformisti, che scendono a compromessi ma restano convinti di possederla, la Verità, e in esclusiva.  

    Insomma, chi vuol guardare la realtà per ciò che è viene a trovarsi in una posizione piuttosto scomoda. Se insisto a praticare questo sport è solo perché, si sa, una volta che hai assaggiato il prosciutto, la mortadella non ti piace più. Ma non voglio avere sulla coscienza l’infelicità di nessuno e non faccio propaganda. Auguro a tutti un buon Festival di Sanremo.

 

 

Questo post e il successivo sono dedicati al feticcio delle “conquiste del passato”.

 

                                                 Finale Ligure 

 

    A ogni generazione tocca ingoiare frasi fatte e luoghi comuni. La mia ha fatto indigestione di: “Bisogna difendere le conquiste (dei lavoratori, delle donne, degli studenti, ecc. ecc.)”. Se qualcuno è ancora sensibile al fascino di questa frase, mi permetta di essere sincero. Ogni volta che la sento intonare penso ai villaggi fantasma del Far West: catapecchie tirate su alla svelta per sfruttare l’indotto di una vena aurifera presto esaurita, e abbandonate senza rimpianti. Sicuramente ci sarà stato anche lì qualcuno che si ostinava a “difendere le conquiste”. E che fine ha fatto?

    Poi preciso meglio l’idea, rientro in Europa, e penso a Finale Ligure. E qui bisogna che ci parliamo chiaro: a scuola non ci raccontano mai la Storia vera. O meglio, ci spacciano per buone delle semplificazioni molto lontane dalla realtà. A me nessun professore ha mai spiegato che la Repubblica di Genova non era uno stato vero e proprio (come per esempio Venezia), ma piuttosto un’area di influenza economica. Detto in soldoni, Genova era un’azienda nella quale i padroni litigavano spesso, ma si mettevano sempre d’accordo perché avevano a disposizione un porto con una posizione geografica favorevole e trovavano più conveniente fare affari all’estero piuttosto che farsi la guerra in casa. Non “difendevano le conquiste”: conquistavano.

    Siccome gli affari andavano bene, Genova attirava altri comuni nella sua sfera di influenza commerciale. Se proprio era il caso, era capace di intimare dazi e tariffe anche a suon di cannonate, ma non imponeva una sudditanza politica: ogni città che, per amore o per forza, entrava a far parte del Mercato Comune Genovese conservava le sue istituzioni, svuotate di sostanza perché i cordoni della borsa erano a Genova, ma formalmente libere e in grado di giostrare fra distinti interessi.

    E adesso un po’ di geografia. I passi che mettono in comunicazione la riviera di ponente con la valle padana sono relativamente pochi. Fino a due secoli fa, le strade carrozzabili in grado di reggere il transito di un esercito erano pochissime. Una di queste sale da Finale verso Calice per poi scendere verso Alessandria o Tortona. Nel Medioevo, su quella strada passavano le carovane che portavano a Milano una merce indispensabile: il sale. Era un commercio dal quale i finalesi ricavavano abbastanza per non morir di fame ma, siccome nell’entroterra di fame si moriva per davvero, avevano finito per convincersi 1) di essere ricchissimi e 2) di dover difendere tanta ricchezza. Come il servo pavido della parabola evangelica, invece di far fruttare il talento, lo seppellirono.

    Chi arriva a Finale dall’autostrada vede due imponenti costruzioni militari: la rocca che i marchesi del Carretto eressero nel XII secolo e quella più recente, che data dai primi anni del ‘700. Il borgo, raccolto sotto la rocca nuova, ha mura quattrocentesche e una struttura urbanistico-architettonica di impronta barocca. Tutto questo ci dice che Finale si mise sulla difensiva prima del 1200 e continuò così, difendendo le conquiste del passato, fino all’avvento di Napoleone. Riuscì a farcela per un concorso di circostanze puntate con gli spilli, che avrebbero potuto disintegrarsi da un momento all’altro. Ma ne valeva la pena?

    La storia non ci ha lasciato il nome di grandi uomini politici finalesi. I signori del luogo, marchesi del Carretto, non arruolarono eserciti e ambasciatori per fare una politica attiva. Pensarono soltanto a tenere a bada i confinanti: Genova, i marchesi del Monferrato, Milano e i Savoia. Costruirono rocche e castelli per proclamare che erano pronti a vendere cara la pelle, ma siccome erano i primi a non crederci cercarono alleanze. Fu così che Ilaria del Carretto andò sposa a Paolo Guinigi, signore di Lucca. Ma Ilaria morì presto, nel 1405, e la statua di Jacopo della Quercia che la ritrae così bella fu la pietra tombale dell’alleanza fra Lucca e Finale.

    In mancanza di meglio, i del Carretto si aggrapparono al fatto che erano marchesi del Sacro Romano Impero e, se per qualunque motivo la famiglia fosse venuta meno, il feudo avrebbe dovuto tornare all’Impero. Come minaccia, era una pistola scarica e i genovesi non se ne lasciarono impressionare: gli imperatori in Italia non avevano mai avuto fortuna. Ma quando Carlo V ereditò la corona di Spagna, il Sacro Romano Impero diventò una superpotenza e Finale strinse i suoi rapporti con gli Asburgo di Spagna fino a riconoscere la loro sovranità sul marchesato. Il calcolo era questo: Genova, che stava lì a due passi, non avrebbe mai permesso agli spagnoli di esercitare una sovranità effettiva, ma la potentissima Spagna avrebbe fatto altrettanto con Genova. Le due potenze si neutralizzavano e Finale teneva il piede in due scarpe con l’obbiettivo (limitato) di salvare il più possibile la propria autonomia. Sembrava che non ci fosse altro da fare per chi si preoccupava di “difendere le conquiste”. L’unico rischio era che tra Spagna e Genova scoppiasse una guerra, ma i banchieri genovesi erano i principali finanziatori del re di Spagna e se avessero chiuso i crediti ci sarebbe stato da ridere.   

    Incredibile ma vero, il balance of power resse per due secoli. Con alterne vicende, su Finale continuarono a mettere gli occhi (e, di quando in quando, anche le mani) i Savoia, la Francia, l’Austria e naturalmente Genova, che continuava a incombere e, dal punto di vista dei finalesi, restava il problema dei problemi. Fino alla pace di Utrecht (1713) il protettorato spagnolo permise a Finale di restare inserito nel sistema economico di Genova mantenendo una autonomia politica puramente formale. Ma per difendere le conquiste, i finalesi dovettero guardarsi bene dall’irritare Genova costruendo un porto e una flotta, aprendo fondaci oltremare, o anche solo sviluppando i commerci con l’entroterra. Semmai, sempre per difendere le beneamate conquiste, facevano bella cera ai protettori. Nel 1666 una infanta di Spagna che da Madrid andava a Vienna per sposare il cugino imperatore d’Austria passò da Finale per ribadire che quella era terra spagnola, non genovese. E i finalesi riconoscenti le eressero l’arco trionfale che si vede ancora oggi sulla passeggiata.  

    Ma dopo Utrecht la Spagna dovette abbandonare Milano. L’Austria, che le subentrava, aveva altri sbocchi al mare e Finale rimase senza patrono. In tanti secoli non si era dotata di un porto e di una flotta, non aveva sviluppato industrie o commerci: aveva pensato soltanto a difendere il suo tran tran senza capire che il mondo stava cambiando. Non le restò che piegarsi a Genova e trescare con i Savoia, pur sapendo che se il Piemonte fosse riuscito a metter piede a Finale nessuno avrebbe potuto cacciarlo via. Insomma: Finale accettò Genova con riserva, strizzando l’occhio ai piemontesi solo di tanto in tanto. Con questa politica di piccolo cabotaggio vivacchiò fino al 1796, sempre illudendosi di difendere le conquiste del passato.

    Mentre scorrevano i secoli, intorno a Finale era nata una piccola leggenda. Generali e uomini politici che prendevano in esame la situazione del Norditalia ripetevano come un mantra che le porte della valle padana erano Genova, Savona e Finale. L’identico concetto era ribadito non solo nei testi di strategia, ma perfino sulle gazzette.

    Un allievo ufficiale di artiglieria nato e cresciuto in Corsica leggeva gli uni e le altre. Dalla sua isola di capre e pastori non poteva avere una prospettiva chiara del continente: Genova, Finale e Parigi, dovevano apparirgli più o meno sullo stesso piano. Tanto più che la Corsica era appartenuta a Genova fino a pochi anni prima. Quando una serie di circostanze quasi miracolose lo fecero diventare generale a venticinque anni e gli assegnarono il comando dell’armata d’Italia, Napoleone imperniò su Finale la manovra che doveva portarlo a sconfiggere austriaci e piemontesi in due separate battaglie.

    Probabilmente, anche se nel frattempo non avrà mancato di prendere informazioni, arrivò convinto di trovare un porto attrezzato, magazzini pieni di mercanzie e palazzi principeschi in cui alloggiare lo stato maggiore. Trovò un paesone medioevale senza attrezzature, senza ricchezze, senza palazzi. Quando si riebbe dalla delusione, vi fece fronte con spirito napoleonico. Spedì esploratori su per i passi, interrogò spie e disertori, requisì tutto il requisibile, trovò alloggi e vettovaglie per la truppa. Poi, verso sera, quando gli parve di aver tamponato i problemi più urgenti, si ricordò che Giuseppina era rimasta a Parigi (ed era meglio non pensare a come ingannava l’attesa). Il generale ritenne di aver diritto al conforto di una femmina, e la maniera più logica per ottenerlo era infilarsi nel letto di un’attrice. Annunciò che sarebbe andato a teatro.

    I finalesi presenti trasalirono. Come spiegare al generale che il teatro non c’era, non c’era mai stato? Quando qualcuno trovò il coraggio di confessare la triste verità, Napoleone fece una delle sue scenate in gergo da caserma: che razza di stalla puzzolente era questa Finale povera in canna, che non aveva un porto e nemmeno uno straccio di teatro? Poche chiacchiere: lo costruissero subito!    

    I cronisti non dicono se quella sera il futuro imperatore si costrinse a esercizi di castità o se trovò un altro modo per soddisfare i suoi bollenti spiriti. Dicono però che da quel momento i finalesi non ebbero pace. Non avendo ancora capito che la storia aveva voltato pagina, continuavano a preoccuparsi di “difendere le conquiste del passato”. Memori di cosa avevano fatto i loro antenati per l’infanta di Spagna, decisero che, se le vicende della guerra o della politica avessero ricondotto Bonaparte a Finale, bisognava fargli trovare un teatro (e qualche attrice). 

    Nove anni dopo, tutto era pronto. Ma Napoleone a Finale non tornò più. Che peccato! E pensare che il teatro glielo avevano costruito proprio su misura: se provate a salire le scale e a passeggiare nei palchi, dovrete chinare la testa per non picchiare zuccate nel soffitto.

 

                                      Paragorio, chi era costui?

 

    Se Finale Ligure esemplifica lo spirito dei “difensori delle conquiste del passato”, Noli è nata dall’esperienza opposta: invece di autoimbalsamarsi, ha strumentalizzato le memorie mettendole a profitto. Il benessere morale e materiale di un popolo dipende dall’idea che ha del futuro: chi crede di sapere ciò che vuole si dà da fare per ottenerlo e, anche se non riesce a centrare l’obbiettivo, crea l’indotto. Al contrario, quando ci si riduce a difendere le conquiste del passato si diventa una “terra dei morti”.

    Noi italiani dovremmo saperlo: in quasi ventotto secoli di storia ci è capitato più di una volta di ritrovarci immobili sugli allori (ovverossia col sedere per terra) e, invece di ripartire, ci siamo ridotti a combattere battaglie di retroguardia per difendere questo o quel privilegio che ritenevamo acquisito, sinceramente convinti che perderlo sarebbe stato come subire un altro diluvio universale.

    Anche negli ultimi anni del secondo millennio abbiamo dato fulgidi esmpi di questa propensione. A furia di magnificare una costituzione ultrasessantennale e le conquiste sociali di 40 anni fa, ci siamo ingessati nell’immobilismo programmatico. Non soltanto abbiamo perso la voglia di andare incontro al futuro ma, se la voglia ci tornasse, non sapremmo in che direzione incamminarci.

    A Noli, per parecchi secoli, non la pensarono così.

                                                          ***

    Il tratto di Riviera di Ponente compreso fra Vado e Finale era abitato fin dall’età della pietra, ma da chi? Le migrazioni dei popoli preistorici sono un argomento nel quale si annaspa con ipotesi e deduzioni. Plutarco riferisce che quando Gaio Mario mosse contro i Teutoni a Aix en Provence constatò che i barbari riuscivano a intendersi con la gente del luogo (che erano Liguri) perché parlavano lingue molto simili. Ma quanto ci si può fidare di Plutarco? Da quali fonti ha ricavato questa notizia? Non si sa.

    In epoca storica, e cioè romana, il nome di Noli viene fatto derivare da un originario Neapolis o Ad Novalia, che farebbe pensare a un precedente insediamento (del quale non si sa nulla) distrutto o abbandonato, e successivamente ripopolato. Fatto sta che le prime leggendarie origini della odierna Noli vengono fatte risalire al IV secolo d.C. quando il vescovo Eugenio, in fuga dalla Tunisia occupata dai Vandali, capitò da quelle parti. 

    Più o meno negli stessi anni visse a Noli un personaggio del quale si sa poco o niente, ma che è tuttora venerato in una chiesa paleocristiana, costruita sulla base di un tempio di Nettuno, distrutta nell’VIII secolo e riedificata nell’XI. Il personaggio in questione è un santo di cui nessuno, fuori da Noli, ha mai sentito parlare. In nessun altro paese del mondo esiste una chiesa, una cappella, un’immagine qualunque a lui dedicata (salvo, forse, in un paio di paesini francesi, ma confesso che non sono andato sul posto a controllare). Questo santo si chiamava Paragorio. 

    Si dice che Paragorio fosse un soldato, e nobile per giunta, visto che è effigiato a cavallo, ma si ignora se fosse originario di Noli o forestiero. Sono state affacciate tutte e due le ipotesi, dato che il nome farebbe pensare a un’origine bizantina. Fatto sta che, sempre nel IV secolo, Paragorio sarebbe finito per qualche motivo in Corsica e insieme a tre tizi, Parteo, Partenopeo e Severino, sarebbe stato martirizzato durante una delle ultime persecuzioni.

    Cos’era andato a fare in Corsica la leggenda non lo dice e, a quanto pare, per qualche secolo di Paragorio e della sua fine non fregò niente a nessuno. Il resto del mondo se lo dimenticò. Soltanto a Noli qualcuno conservò la memoria di questo tizio partito da Noli e “morto per la fede”, ma le circostanze del martirio erano ormai sepolte nell’ignoto. Non si sa nemmeno in che anno la Chiesa l’abbia proclamato santo, con quale procedura, sotto quale vescovo.

    Poi, nell’VIII secolo, capitò che i Longobardi, freschi arrivati con il loro bagaglio di civiltà e di cultura, occupassero Noli distruggendo case, mura e chiese. Quando non rimase più niente da bruciare, i Longobardi andarono a civilizzare qualcun altro e i Nolesi dovettero ricominciare da zero.

    O meglio, ricominciarono dall’unica cosa che i barbari non si erano portata via: la leggenda. Paragorio diventò il simbolo di Noli uccisa nel corpo, ma immortale nello spirito. I Nolesi di allora sentirono di aver vissuto nella loro carne la passione di Cristo e la risurrezione ma, essendo umani, non concepirono sentimenti di fratellanza universale: approfittando della situazione geografica, diventarono pirati. Nel 1097, insieme ai Genovesi, due navi di Noli parteciparono alle crociate. Da allora san Paragorio venne effigiato con in mano la bandiera e il santo patrono fece bene il suo dovere perché Noli si ritagliò la sua fetta di traffici e, nel 1192, si costituì in Repubblica marinara.

    Ci riuscì giocando sull’alleanza con Genova, che aveva bisogno di un alleato per tenere a bada Savona e Finale. Inoltre, le navi di Noli parteciparono allo scontro della Meloria con cui Genova diede il colpo di grazia a Pisa. In quegli anni, a Noli ogni famiglia proprietaria di una nave costruì la sua torre, e pare che ce ne fossero più di settanta. La giudecca era piena di ebrei che finanziavano i viaggi. Per motivi diversi, capitarono a Noli Dante, Cristoforo Colombo e Giordano Bruno. Con questi titoli di gloria la Repubblica Nolese sopravvisse tranquillamente sotto l’ala di Genova fino al 1797, quando il solito Napoleone venne a svegliarla dal sonno in cui era caduta.

    Perché bisogna dire la verità: fino a tutto il Cinquecento i Nolesi conservarono lo spirito di iniziativa che li aveva fatti risorgere dalle rovine, li aveva portati a combattere sul mare, gli aveva fatto scoprire le isole del Capo Verde. Ma la caduta di Costantinopoli, la scoperta dell’America e l’alleanza soffocante con Genova, chiusero gli orizzonti. A partire dal Seicento anche Noli cominciò a vivere del suo passato.

    Oggi, fra un pullman e l’altro di campagnoli bavaresi o monferrini con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, il san Paragorio dipinto sui muri continua a tenere in mano l’asta della bandiera con la croce bianca in campo rosso, ma non ha più l’aria di aspettarsi dai Nolesi qualche iniziativa gloriosa. Tutto ciò che rimane della flotta sono cinque o sei gozzi con cui una cooperativa di pescatori (che non si allontanano mai troppo dalla costa) portano a riva boghe, zerri e qualche triglia.

    I santi aiutano chi, oltre a invocarli, si dà da fare. Da soli non possono fare gran che.          

 

                                     Ai parrucconi dell’Accademia   

 

Amplissima e colendissima Accademia della Crusca,

 

    il uerde Prato dell’italica Lingua è fatto Piazza d’Arme, ouuerossia Campo di Battaglia, nel quale adunansi in Cozzo osceno Idiotismi e Barbarismi d’ogni Genere et Specie. Quiui, nel Clangore dei bellici Oricalchi, risuonano Solecismi uulcanici nati all’Ombra dell’Etna o del Uesuuio, non che leziose Forme un dì usitate appo il Teuero e l’Arno, ma oggimai desuete e contennende.

    Orbene, chiarissimi Accademici, non pare alle illuminate Intelligenze loro che la Lingua strappi, si agiti e tracolli dappoiché alquante Regole che già ebbero Senso e Funzione trouansi ormai priuate d’ogni Nerbo, siccome Spauentapasseri piantati in un campo di Grano? Non istimano le Eccellenze loro che le dette Regole sieno da gettare nella pletorica Pattumiera dell’Oblio?

    In questa superiore Certezza, umilissimamente segnalo alle loro Grandezze l’Opportunità di abolire nella Grammatica italiana l’Uso di non apostrofare UN e QUAL. Leggano le loro Signorie Illustrissime lo scarso Caso che di detta Regola fanno gl’Italiani quando scriuono Email o quando commentano a Tambur battente nei Blog. Consentano che l’Alba del nouo Millennio ci porti alfine la Libertà di scriuere un’amico e qual’è.

    Credano le loro colendissime Eccellenze che ueruna Frattura addiuerrà, che nulla Riuoluzione sopraggiungerà. Al contrario, nella generale Indifferenza, siffatta Innouazione non parrà altra Cosa che una normale, per quanto ritardataria, Legalizzazione dell’Uso. 

    Nel manifestare il mio più deuoto Rispetto, bacio delle loro Signorie illustrissime il Manto e la Parrucca. 

    Merlin Cocai

 

                                           Lontano Roma 

 

    Accidenti, ho appena finito di scrivere all’Accademia della Crusca lamentando l’inutile rigore di certe regole e adesso dovrei contraddirmi?

    Se in tivù non c’è telegiornalista che perda l’occasione di dire “vicino Roma”, perché non dovrei considerare la confusione fra avverbi e preposizioni una naturale e legittima tendenza della lingua?

    Ebbene, Merlin Cocai, fai ammenda in ginocchio sui ceci e non azzardarti mai più a protestare contro l’invadenza dei romanismi. Cosa pretendi di saperne tu, che vivi “lontano Roma”?                                                     

 

 

                    Dal Corriere della Sera del 30 luglio 2007

 

    Roma – Ha un nome il politico coinvolto in una serata in un albergo romano conclusasi con una ragazza al pronto soccorso, in stato confusionale dopo l’assunzione di cocaina. Si tratta di un deputato dell’UDC eletto a Brindisi, 50 anni.

    … assicura che “di droga non ne ho vista nemmeno l’ombra” e che solo dopo essere arrivato all’hotel Flora, in via Veneto, ha capito che si trattava di una prostituta.

 

Non voglio fare l’indignato o il moralista. Semplicemente mi domando: ma questi appartenenti alla “casta” ci prendono per scemi? 

 

                                              Seconda puntata     

 

dal Corriere della Sera – 31/7/2007

La storia del deputato e della squillo: il segretario UDC Cesa propone il ricongiungimento famigliare.

“Più soldi ai politici, a Roma soffrono di solitudine.”

 

Ebbene sì, non ci sono più dubbi: ci prendono per scemi.

 

                                                Punti di vista          

 

    Ieri, su La Poesia e lo Spirito, Valter Binaghi ha postato un suo articolo uscito il giorno prima anche su “Il Domenicale”. L’articolo proponeva una interpretazione del ’68 nella quale non desidero entrare: avendo vissuto quel periodo in prima persona, sono probabilmente troppo coinvolto per averne una visione obbiettiva. Ciononostante, nel breve spazio di un commento, ci ho tenuto a dire che:

 

    L’unico modo serio di affrontare il futuro è avere un progetto, crederci e lavorarci. Per questo, sotto ogni regime, la gente ha bisogno di un capo: ci vuole qualcuno che abbia un progetto e il carisma necessario per imporlo. (Naturalmente la cosa presenta fior di rischi, ma non si vive per sotterrare i talenti, bensì per farli fruttare. O almeno per provarci).

 

    Ho avuto due riscontri. Binaghi ha risposto:

 

    Il progetto è importante, ma è solo la componente tecnica e razionale delle cose: la terapia. Chi guarisce veramente è la natura: cose come la terra, la famiglia, un lavoro creativo, un confine che distingua il familiare dall’estraneo, non si possono produrre ma solo ritrovare e quando si crede di averle superate in realtà si è superato l’uomo stesso: se gli togli queste cose l’essere umano trasformato in un automa foderato di diritti individuali e assistito di tutto punto da una burocrazia onnivora muore. Liberaldemocrazia e socialdemocrazia hanno interamente abdicato all’agire tecnico, ed è per questo che non hanno più alcun senso politico. Quando i dinosauri della classe dirigente l’avranno capito, forse sarà troppo tardi. Ma la natura in qualche modo vince sempre: anche con le catastrofi.

 

    Confesso che non sono sicuro di aver capito il senso di questa risposta. Immagino che voglia affermare una teoria come quella dell’inerzia della Storia. E siccome è una teoria che condivido solo fino a un certo punto, ho fatto presente che

 

    … leggendo “Guerra e pace” si è portati a dar ragione a Tolstoi. Ma se non ci fosse stato Napoleone non ci sarebbe stato neanche “Guerra e pace”.

 

    Anche Mario Bianco aveva fatto presente che, per chi nel ’68 viveva e vestiva panni, è davvero straniante leggere giudizi che sembrano piovere da un cielo sconosciuto. A maggior ragione quando tali giudizi sembrano prescindere da (o addirittura respingere) l’idea che l’agire umano muova da una (o più) cause efficienti in vista di una causa finale.

La risposta di Binaghi è stata:

 

    Mario Bianco, il vissuto personale è una cosa, la teoria della cultura è un’altra. Gli argomenti si confutano con argomenti … la storia non si scrive con le suggestioni a  posteriori, bensì analizzando testi e slogan intorno a cui si è creato movimento.      

 

    E ribadiva successivamente

 

    Caro Mario, non c’è sapere se non dell’universale. Le generalizzazioni, se sono false, bisogna dimostrarle tali, testi e cronache alla mano. Io storia la insegno da 25 anni.

 

    Per poi concludere che se ne andava in vacanza e buonanotte ai suonatori.

 

    Che dire di questo primo riscontro? Non saprei. Dopo tutto, io non insegno storia (neanche da due mesi). E poi, il mondo è bello perché ognuno la pensa come gli pare. Detto questo, prendo atto delle opinioni altrui, ma resto della mia.

    Ma c’è stato anche un altro riscontro. Questo (firmato Beccalossi):

 

    Merlin Cocai (e Mario Bianco). Il discorso sul progetto potrebbe anche essere condivisibile: dovrebbe però essere dettagliato in termini più precisi e concreti, altrimenti non mi dice niente. Ma non capisco, in ogni caso, come fai a passare così a cuor leggero dal concetto di progetto a quello di “capo”. E’ il capo a rendere possibile la realizzazione del progetto? Spiegherebbe molte cose: ad esempio, perchè una società che non è mai stata capace di rivedere criticamente il sessantotto (la nostra) ha eletto per ben due volte Silvio Berlusconi ed eleggerà Valter Veltroni: entrambi i personaggi si nutrono a piene mani della retorica della “guida” così come quella del “progetto”. Meglio se liberal-globalista.

 

    Lo trovo delizioso nella sua ingenuità. È una questione di metodo? Se il progetto mi liscia il pelo per il verso giusto, allora anche il metodo mi sta bene. Se no, no. Se un’azione politica mi garba, allora può starmi bene che abbia un capo; ma se non garba a me, allora quel capo è un populista. Beccalossi non ha dubbi: il fatto che Berlusconi sia stato eletto “per ben due volte” e il fatto che Veltroni riscuota un indiscutibile successo hanno una semplice spiegazione: il populismo liberal-globalista. Come dire: gli italiani sono una massa di fessi. Dovrebbero star zitti e dar retta a Beccalossi (il capo).

 

                                                Che tristezza!

 

    Sto leggendo la “Vita di Cavour” di Rosario Romeo. Colpa del caldo, naturalmente.

    Leggo del signor conte figlio di papà (secondogenito), dei suoi scazzi con Carlo Alberto, dei suoi primi disastri in affari e in borsa, dei suoi primi passi in amore, dei suoi primi vagiti nel giornalismo e in politica (dolce politica, in cui si veniva eletti deputati con 300 voti nel collegio Torino I).

    Poi arriva il famoso “connubio” con il centrosinistra di Rattazzi (operazione vagheggiata anche da Follini e Mastella, ben noti cervelli di caratura cavouriana). E qui lascio la parola al biografo:

   

    “Resta da spiegare come il programma di svolgimento dello Statuto con cui il conte era andato al potere si sia risolto nel sostanziale immobilismo… La risposta va cercata nella politica di unione nazionale sviluppata intorno all’asse centrista… La minacciata sclerosi dell’attività politica… induceva fin da allora a lamentare ciò che poi si chiamerà la “dittatura parlamentare” di Cavour. Ma di dittatura, in realtà, non si può parlare. In effetti il potere del presidente del consiglio trovava un limite spesso invalicabile, e non di rado paralizzante, nella crescente disgregazione di una Camera nella quale, alla pratica impossibilità di costituire un’alternativa al governo in carica, faceva riscontro il moltiplicato potere dei singoli deputati o dei minori raggruppamenti nei confronti del ministero, in rappresentanza di settori particolari o di interessi locali.”

 

    Stiamo parlando del 1850! E poi ci meravigliamo che, ai giorni nostri, partitini del 2% o giù di lì tengano in scacco i governi. La Storia si ripete perché noi siamo sempre quelli: non riusciamo a concepire la gestione del potere come assunzione di responsabilità. Noi cerchiamo la “concertazione”, il “dialogo”, il do ut des. Perché siamo un paese di “furbi” e seguiamo l’aurea regola: li coinvolgo tutti così se va bene sarà merito mio, se va male sarà colpa degli altri.

 

                           

                                                  Ancora Cavour       

 

    Ho finito di leggere la biografia di Cavour e sono perplesso come davanti a un incrocio senza indicazioni. Permettetemi di prenderla un po’ larga.

    Molti danno la colpa all’idealismo e a Benedetto Croce (ma, anche senza idealismo, la storia ha una naturale tendenza a farsi interpretare in modo finalistico), fatto sta che la storia la studiamo a scuola, su libri che nel programma di un anno devono ricapitolare secoli e secoli, e in questi libri i protagonisti finiscono per essere dipinti come interpreti della Provvidenza: portatori di una linea politica, di una visione del mondo. Come se Napoleone fosse nato imperatore. Come se Federico il Grande fosse nato illuminista. Poi, tanti anni dopo aver finito la scuola, ti capita in mano una biografia seria. E all’improvviso salta fuori che il panorama è tutto diverso.

    La “Vita di Cavour” che ho letto io è quella di Rosario Romeo, uno studioso irreprensibile, che segue la vita del signor conte in tutte le sue giravolte, illusioni e delusioni, successi e fallimenti, sempre sulla scorta di documenti, lettere, articoli di giornali dell’epoca. Eppure anche Romeo non rinuncia ad attribuire a Cavour, addirittura fin dagli esordi, un disegno politico coerente: espandere il regno sabaudo e instaurare una economia moderna, liberoscambista, terziarizzata. In funzione di questo preteso disegno, Romeo perdona tutti i difetti dell’uomo o addirittura li considera virtù. Speculare in borsa (e rimetterci un sacco di soldi) è considerato intraprendenza. Se nella famigerata azienda agricola di Leri tutte le innovazioni portate da Cavour danno scarsi risultati ciò dipende dal fatto che il signor conte è troppo avanti sui tempi! Se l’azienda fa profitti è perché la manda avanti un certo Corio, necessariamente cointeressato alla gestione, ma ciò dimostra la capacità cavouriana di circondarsi di collaboratori capaci.

    Abbiate pazienza ma io, leggendo questa biografia, mi sono fatto il quadro di un Cavour figlio di papà, viziato, presuntuoso e pure un po’ stronzo. Forse penserete che le sparo grosse: be’, non credetemi; informatevi e vedrete. E se insistete a cercare vi accorgerete che le stesse cose, o altre simili, valgono anche per molti altri protagonisti della storia, positivi e negativi. Qualche esempio? Tanto per non uscire dal “giro” del nostro Risorgimento: Mazzini approfittava delle donne in un modo semplicemente spregevole e mandava gli uomini a morire con una faciloneria disgustosa (lui, sulle barricate con un fucile in mano non l’ha mai visto nessuno); Garibaldi fuori dal campo di battaglia non ne faceva una giusta e passava dai fallimenti imprenditoriali alle fregature matrimoniali, alle figuracce parlamentari; Vittorio Emanuele II era una specie di orso marsicano: puzzolente, attaccabrighe e reazionario.        

    La carriera politica di Cavour ha un esordio da Democrazia Cristiana anni ’60. Critica D’Azeglio da sinistra, si fa cooptare al governo, pianta casino in consiglio dei ministri, tresca con l’opposizione, provoca la crisi, dà un calcio nel sedere a chi l’aveva fatto ministro, si installa al potere e si infogna in una serie di leggi nelle quali crede solo a metà, ma che sostiene perché gli servono per distribuire contentini a sinistra, centrosinistra e qualche volta persino ai reazionari. Prima di Andreotti, crede fermamente che “il potere logora chi non ce l’ha”.

    Ma si logora anche lui, perché la sua azione nei confronti degli avversari è tutt’altro che lineare. Per anni e anni il signor conte sembra procedere alla cieca, portato dalle circostanze, facendo interminabili giri di valzer con D’Azeglio, Gioberti, Rattazzi, Brofferio, ma anche con Napoleone III, con il suo ministro Walewsky, con Palmerston, Clarendon, Guiche e Hudson, fino a giocarsi ogni credibilità internazionale e ad essere considerato un inaffidabile intrigante. Fin dai tempi della guerra di Crimea Cavour gioca simultaneamente su tre tavoli, e non è affatto vero che abbia sempre chiaro dove vuole arrivare. Vittorio Emanuele, che come intrigante è più ingenuo ma tutt’altro che cretino, si rende conto che con quel primo ministro il suo regno rischia di perdere la faccia e di Cavour non si fiderà mai, anzi, lo detesterà cordialmente.   

    Dunque Cavour arriva al potere con un programma limitato: restarci. Si mette a costruire ferrovie mettendoci di mezzo amici e soci in affari. Liquida le rendite di posizione dei preti per fare un piacere a Rattazzi che sostiene la sua maggioranza, e solo a cose fatte si inventa lo slogan “libera Chiesa in libero Stato”. Manda l’esercito in Crimea perché, sperando di portare a casa Parma e Modena, e non avendole ottenute, si è impegnato e non può più tirarsi indietro. In mezzo a questa crisi si rende conto che 1) l’Austria è un mammuth dalle reazioni torpide, 2) i patrioti italiani non credono più a Mazzini e sono disposti a fare l’Italia in qualunque modo, anche sotto Vittorio Emanuele. E allora vuole la guerra con l’Austria.

    Insomma, più che avere avuto dei grandi disegni, Cavour si è costantemente dato da fare per pescare nel torbido confidando nella propria capacità di cogliere le occasioni che si sarebbero presentate, quali che fossero. Per questo, sia in politica interna che in politica internazionale, chi si è fidato di lui non sempre ha fatto buoni affari. Non si sa quanto valgano le boutades riportate oralmente, ma ci deve pur essere un motivo se gli fu attribuita questa frase: “Se avessi fatto in proprio ciò che ho fatto per il Regno, sarei finito al bagno penale.”

    Detto questo, detto cioè tutto il male possibile di Cavour, resto convinto che i monumenti dedicati a lui sono sacrosanti. Ma non per le ragioni indicate nei libri di scuola. Cavour (così come Vittorio Emanuele) non voleva l’Italia: voleva la Lombardia, il Veneto, l’Emilia, tutt’al più la Toscana, ed era pronto a ficcarsi in qualunque azzardo perché gli piaceva il rischio (tanto, lui personalmente cosa rischiava?). Mentre Mazzini e Garibaldi, che invece all’Italia ci credevano, erano abbastanza sprovveduti: fuori dai giochi diplomatici, senza contatti con le masse. Non sapremo mai cosa ci fu dietro la conquista garibaldina della Sicilia, né come le camicie rosse riuscirono a passare lo stretto di Messina e come poterono arrivare a Napoli senza combattere una battaglia, senza che le cannoniere inglesi sparassero un colpo, senza che lo zar e Francesco Giuseppe lanciassero ultimatum, senza che Napoleone III minacciasse l’intervento, ecc. ecc.

    Sappiamo soltanto che a parlare con le cancellerie europee e a intrigare con le quinte colonne sicule e napoletane c’era Cavour, un giocatore d’azzardo al quale la fortuna disse bene nella partita più grossa della sua vita.        

   

                   Oltre Cavour  (ovvero: al di là del bene e del male)   

 

Nel commento n.12 al post “Ancora Cavour” Lorenzo Galbiati mi scrive:

 

    ... mi sfugge il sistema di valori con il quale formuli le tue opinioni: la tua scheda su Cavour mostra un uomo spregevole, corrotto (non solo politicamente ma anche moralmente, umanamente), e pressapochista, tanto che il mio giudizio su di lui si è ulteriormente aggravato come politico e come uomo (prima pensavo fosse più abile e più onesto), dopo averti letto: aspetto schede che mi spieghino perché metti Mazzini e Garibaldi sul suo stesso piano.

 

    Sì, ci credo che il mio criterio ti sfugga, Lorenz, ma non è questione di schede. La scuola, l’educazione, la morale corrente, ci educano a giudicare sulla base di due criteri che spesso fanno a pugni tra loro: il successo e la coerenza.   Savonarola fu un coerente fallimentare. Napoleone fu un incoerente di successo (fino al 1815). E quando il successo è così evidente da non poterlo negare, la storiografia fa salti mortali per trovarci una coerenza che il più delle volte non c’è.

    Cavour fu un uomo “spregevole, corrotto e pressapochista”? Non più di tanti altri, famosi e sconosciuti. Capisco che, leggendo il mio post, chi guarda alla storia per dividere i buoni dai cattivi possa tirare questa conclusione. Ma in realtà, se per dare la patente di galantuomo si chiede una visione chiara del futuro, coerenza nel perseguirla, e in più anche il successo, chi può reclamarla? Nessuno. Certo, si può ripiegare sull’esaltazione del perdente così come la Chiesa esalta le vergini martiri. Ma questo se lo può permettere appunto la Chiesa, che insegna a guardare questo mondo come una breve parentesi e a concentrarsi sull’aldilà. Gli uomini politici, i re, i condottieri, ecc, devono fare i conti con la realtà terrena, e se ne fregano della coerenza pur di raggiungere il loro scopo. Ebbene, qual è questo scopo? Vladimir Ulianov è stato il primo a dirlo chiaro e tondo: il potere. Con il potere si può fare qualcosa, senza il potere non si può far niente. Quindi, lo scopo è il potere: prima ottenerlo, poi conservarlo.

    L’osservazione di Mario Bianco nel commento n. 11 “i veri grandi uomini/donne non sono iscritti nei libri di storia tradizionale” è sempre pacificamente condivisa da tutti, eppure nessuno la prende mai come base per rileggere la storia tenendo gli occhi aperti. Come mai? Forse perché è più divertente leggerla come un romanzo in cui gli eroi combattono contro i cattivoni. Forse perché fa comodo eleggere questo o quel personaggio a emblema di ciò che ci sta a cuore. Con il comico risultato che, per esempio, Attila è un maledetto figlio di puttana in Italia ma è un grande eroe in Ungheria.

    Quel che voglio dire è che il mio criterio prescinde completamente dagli eroi (che non sono mai esistiti, ma vengono creati a posteriori da chi pensa che gli facciano comodo), dai santi e dai martiri. Vorrei che fosse chiaro: questo è il mio modo di pensare e lo metto per iscritto perchè ci credo, ma non pretendo che piaccia a nessuno, non ne faccio propaganda. Chi lo trova detestabile lo rifiuti. Chi preferisce leggere la storia in funzione delle sue convinzioni politiche faccia pure. A me non interessa glorificare Mazzini o Cavour, meno ancora strumentalizzarli, e neanche voglio prendere partito per Tizio o per Caio, per la rivoluzione o per la monarchia. Mi interessa soltanto capire che cosa è effettivamente successo. Scusate l’autocitazione, ma sono sempre nella linea del post intitolato “Ci sono due modi di guardare alla realtà”.

    Perché, sempre secondo me, la Storia (quella del mondo e quella personale di ciascuno di noi) ha due facce: quando tutto deve ancora succedere, e bisogna prendere delle decisioni, tutto appare caotico. Non esiste alcuna garanzia che alle nostre azioni corrisponderà un esito (favorevole o sfavorevole). Potrebbe anche non succedere niente (e infatti il più delle volte i nostri sforzi risultano inutili). Solo quando li guardiamo a posteriori, sia la storia del mondo che i nostri percorsi personali, sembrano avere un senso; ma non è mai il senso che avremmo voluto dargli noi.

    Per questo la storia ricorda le battaglie: perché prima di cominciarle non è mai sicuro chi vincerà. Per questo celebra il successo: perché non è affatto facile da ottenere. Ma che un uomo politico possa aver successo semplicemente formulando e perseguendo con coerenza una perfetta visione del futuro, questo non lo crederò mai. Il successo si ottiene giocando contemporaneamente su più tavoli, pescando nel torbido, tirando colpi bassi e sperando in una straordinaria dose di fortuna. Non sarà bello da dire, ma è così che vanno le cose a questo mondo. I cavalieri bianchi, gli Ivanhoe, esistono solo nei romanzi.

    Naturalmente questo non significa che, a posteriori, non si possa dare un giudizio sulla storia passata. Significa invece, sempre secondo me, che la storia ha delle ragioni che gli uomini non hanno. Non ho intenzione di ammannire un riassunto della filosofia di Hegel, ma a quella mi rifaccio (e non alle stupidaggini che gli hanno fatto dire i suoi divulgatori, anche nostrani). La storia voleva che l’Italia fosse fatta anche se, da soli, gli italiani non l’avrebbero fatta mai. Difatti ci vollero i francesi a Magenta e a Solferino, la debolezza dell’impero austriaco, le rivolte ungheresi e l’espansionismo prussiano. E prima ancora c’era voluto un papa come Pio IX, tanto ingenuo da svegliare l’opinione pubblica e tanto reazionario da farla incazzare. E centomila inconvenienti, piccoli e grandi, che per dodici anni si successero a ritmo infernale e che in ogni momento avrebbero potuto ribaltare la situazione.

    Insomma: non esiste un solo uomo che abbia concepito l’idea di fare l’Italia come poi fu fatta (che era l’unico possibile). E non si vede come avrebbe potuto, vista la quantità di casi fortuiti che si presentarono. I quattro padri della patria (o, se preferite, la banda dei quattro) ebbero il merito di navigare negli imprevisti in modo tale che le cazzate dell’uno fossero bilanciate da quelle dell’altro. Perciò, in fin dei conti, l’Italia la fecero loro e bisogna dargliene atto. Ma farne degli eroi, questo proprio no.         

 

                                                Intercettazioni 

 

    I post su Cavour hanno dato luogo a una discussione sulla Storia sulla quale credo che ci sia ancora qualcosa da dire (e spero di farlo quanto prima), ma erano partiti da un’altra constatazione. Questa:

 

    La Storia si ripete perché noi (gli Italiani) siamo sempre quelli: non riusciamo a concepire la gestione del potere come assunzione di responsabilità. Noi cerchiamo la “concertazione”, il “dialogo”, il do ut des. Perché siamo un paese di “furbi” e seguiamo l’aurea regola: li coinvolgo tutti così se va bene sarà merito mio, se va male sarà colpa degli altri.

 

    Ci ripensavo ieri quando, non ricordo a che proposito, qualcuno mi ha ricordato la faccenda delle intercettazioni Consorte-Fassino-D’Alema. Le incazzature fanno male alla salute, quindi è bene prendere precauzioni. Per questo motivo, qualche mese fa, non avevo letto l’intervista in cui D’Alema se l’era presa con il Resto del Mondo (reo di attribuire al suo “Facci sognare!” significati che vanno al di là della tifoseria). Non l’ho letta di proposito, perché mi ostino a considerare D’Alema un politico di classe e mi dispiace vederlo deragliare in modo così plateale.

    Intendiamoci: anche a me fa rabbia l’idea che le mie conversazioni telefoniche possano essere intercettate, registrate e sbattute in prima pagina. Però considero questo rischio un gravame che devo sopportare (come le tasse) per tenere in piedi lo stato. In un Paese in cui esistono la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta e diverse altre forme di delinquenza organizzata, come si può proibire alla polizia (sotto il controllo della magistratura) l’uso delle intercettazioni telefoniche? E una volta che queste intercettazioni sono sul tavolo del sostituto procuratore possiamo lasciargli il diritto di sceglierne alcune e scartarne altre a suo arbitrio? Magari, fra quelle che lui scarterebbe ce n’è qualcuna che farebbe comodo alla difesa. Dunque, bisogna che i difensori prendano conoscenza di tutto il materiale intercettato. Questo significa, di fatto, renderlo pubblico. E a questo punto mi sembra stupido, quando non ipocrita, prendersela con i giornalisti, i quali non sarebbero capaci di elaborare e rispettare un codice di autodisciplina. 

    Anche qui, intendiamoci: che il giornalismo sia ormai da tempo in preda a una deriva becera e gossipara mi sembra evidente. La scusa della “libertà di stampa” e del “diritto di cronaca” mostra sempre più la corda. Ma se i giornalisti hanno annacquato la loro deontologia, perché non cominciano i politici a imporsi un codice di autodisciplina? Perché, per esempio, quando un Consorte chiede un appuntamento non glielo negano? Perché quando un Ricucci telefona non riattaccano? Perché, quanto meno, non la smettono di farsi pescare con le dita nel barattolo della marmellata?

    Macché. Non se ne parla neanche. I politici vedono solo le pagliuzze negli occhi altrui. Il guaio è che non lo fanno per cinismo (che, forse, sarebbe il minore dei mali): sono convinti in buona fede che intrallazzare faccia parte dei loro diritti, se non addirittura dei loro doveri. E si comportano di conseguenza.

 

                 La questione della lingua. Una follia con metodo.

 

    Credo che rimonti ai tempi di Napoleone e al diluvio di retorica sulla Patria “una d’arme, di lingua, di altare”. Manzoni scriveva i suoi pessimi versi e intanto si domandava se a Napoli qualcuno avrebbe letto il suo romanzone. Cinquecento anni prima Dante, Petrarca e Boccaccio non si ponevano questo problema: scrivevano come gli pareva, adeguando la lingua alla circostanza, non ai lettori. Non venite a dirmi che loro potevano farlo perché scrivevano per un principe e non per un pubblico; per tanto così avrebbero avuto convenienza a scrivere solo in latino (e ve lo figurate il Decamerone in latino?).

    Per tornare ai giorni nostri, la questione della lingua è diventata una greppia culturale alla quale si attaccano i critici e gli scrittori che non hanno niente da dire. Partono dalla morte del romanzo, con annessa analisi sociopolitica, e approdano alla questione della lingua. Pubblicano libri il cui contenuto è programmaticamente il nulla, ma nobilitato da una “originale ricerca sul linguaggio”. Con questo accorgimento (folle, ma non privo di metodo) riescono ad appuntarsi al petto medaglie che i contenuti dei loro scritti non meriterebbero. Non faccio nomi (ma potremmo fare fior di cognomi).

    Se dipendesse da me, promulgherei una legge che commini multe salatissime agli editori che si prestano a pubblicare libri in cui non si dice niente. E qualche anno di prigione per gli autori di libri che non abbiano da proporre altro che una “originale ricerca sul linguaggio”.

    So che anche la mia è follia e nessuno la condividerà, ma voglio dirvi ugualmente che, secondo me, James Joyce ha fatto tanti di quei danni che neanche se li immaginava. Il celebrato antesignano dello stream of consciousness, dell’antieroe, del romanzo senza trama e, naturalmente, della sperimentazione sul linguaggio (nonché della coprofilia in narrativa e di altre novità minori) proprio nel momento in cui radio, cinema e televisione instauravano l’italica koiné, ha aperto la strada a una inenarrabile sequela di “ricerche sulla lingua”. E giù dialettismi di ogni genere e specie (ma prevalentemente siculi o romaneschi), facilonerie lessicali, ortografiche, grammaticali e sintattiche, giochetti tipografici e seghe mentali assortite. Tutto coperto dall’ipse Joyce dixit.

    E a che scopo? Ma perbacco, perché bisogna fare ricerca, perché bisogna andare oltre il romanzo, perché bisogna parlare la lingua dei lettori (versione neocapitalista) o la lingua del popolo (versione marxista). Insomma, se vogliamo che la gente ci legga dobbiamo parlare la sua lingua. (Ma cosa credono i nostri provincialissimi intellettuali, che in inglese, in spagnolo, in tedesco, non esistano i dialetti? Che un impiegato del metro londinese non abbia problemi a leggere Pynchon o McCarthy? Non li sfiora il sospetto che la gente voglia innanzitutto cose interessanti e, nel caso, sia disposta a leggerle anche in una lingua diversa da quella di tutti i giorni?)   

    Ho promesso che non avrei fatto nomi, ma almeno per gli esempi in positivo si può fare un’eccezione: Giuseppe Pontiggia. Da quel gioiellino di tecnica che è L’arte della fuga fino a Nati due volte, la sua narrativa e la sua saggistica sono state connotate dall’affanno di dire cose intelligenti nel modo appropriato. E la scoperta di Pontiggia è che il modo appropriato è il più (apparentemente) semplice, diretto, depurato. La sua prosa, che era partita dallo sperimentalismo, è passata attraverso la sentenziosità ed è approdata alla chiara concretezza di un De bello gallico.

    Questa è l’unica “ricerca sul linguaggio” da cui sia uscito qualcosa di valido, e per un motivo molto semplice: Pontiggia pensava prima a ciò che era il caso di dire e poi a come dirlo. Vedeva il lettore come un essere in carne e ossa che si dispone a far conversazione con te: puoi cercare di convincerlo, scandalizzarlo o sedurlo, ma certo non devi annoiarlo. E l’unico modo sicuro per non annoiare è dire cose intelligenti. Pontiggia, finché non gli veniva in mente qualcosa di penetrante, stava zitto. Solo quando aveva per le mani un’osservazione acuta cominciava a cercare il modo migliore per dirla, il modo più contundente (o, nel suo lessico, percussivo). Ecco: a paragone di Pontiggia e del suo procedere verso una meta bene individuata, i sedicenti sperimentatori sono giocatori del lotto che puntano i risparmi sui responsi della smorfia.

    Per conto mio, credo che la letteratura consista nel coltivare lo spirito, apollineo o dionisiaco, e cioè nel mettere in tavola cose intelligenti e/o emozionanti. E se è così, che senso ha trascurare i contenuti e perder tempo a imitare le circonvoluzioni dei pensieri non espressi, a ricuperare i dialetti, a reinventare la pirotecnica verbale nella linea Marino-D’Annunzio-Gadda, oppure a individuare un linguaggio basso, il più basso possibile (magari quello dei talk-show o dei film di Boldi e De Sica) e usarlo per trattare qualunque argomento? Padronissimo lo scrittore di perdere il suo tempo, ma perché farlo perdere ai lettori?

    Mi sbaglierò, ma se la narrativa contemporanea viene spesso tacciata di inconsistenza, di appiattimento sul genere, eccetera eccetera, è anche perché scrittori e critici si consumano nella placida follia della ricerca sul linguaggio, invece di pensare a scrivere cose serie.

                                                    

                                             Acuti stonati 

 

    Accusando Treu e Biagi di essere “assassini”, Caruso ha fatto una stecca.

Gentilini ha replicato invocando la “pulizia etnica contro i gay”.

Non si è ancora spenta l’eco delle idiozie sparate da Mele, il deputato scopereccio, e da Cesa, il segretario del suo partito.

    A prescindere dai cori di indignazione, mi domando come mai i partiti scelgano come candidati i personaggi più irresponsabili. Si tratta forse di un inconsapevole cupio dissolvi?

 

 

                                               Doping!   

 

    Chissà se qualcuno ricorda che al Tour dell’anno scorso sono stati squalificati per doping il favorito (Vinokourov) e la maglia gialla (Rasmussen). Il ciclismo non è più uno sport popolare come negli anni ’50 e forse ci si è già dimenticati che da due anni la vittoria al Tour viene attribuita a tavolino. Eppure, il fatto che gli scandali sportivi vadano rapidamente nel dimenticatoio è anche più grave degli scandali in se stessi.

    Mi domando fino a che punto lo sport in genere sia rimasto una cosa seria. Per quanto riguarda il ciclismo è dai tempi di Fausto Coppi (i famosi anni ’50 di cui sopra) che gli atleti prendono “la bomba”, e lo sapevano anche i sassi, ma il mondo intero ha sempre fatto finta che si trattasse di fatti sporadici, da punire con uno scappellotto. Poi, improvvisamente, ci si accorge che a “bombarsi” sono proprio tutti, dal primo all’ultimo, a cominciare dagli “allievi” quindicenni. E, tutt’a un tratto, la stampa si indigna, i telecronisti si stracciano le vesti, la TV tedesca smette di trasmettere il Tour, indignata per l’insulto agli ideali dello sport! Ma dove stavano, mi domando io, dove stavano queste anime candide quando celebrati campioni vincevano il Tour per cinque, sei, sette anni di seguito? Davvero nessuno ha mai avuto dubbi sulle gesta di Anquetil, di Merckx, di Indurain, di Armstrong? E se invece ne hanno avuti, come mai non ne parlavano (o si limitavano a sussurrarli sottovoce fra pochi intimi) quando i suddetti erano in attività?

    Sarò anche il solito cinico, ma sono convinto che nel ciclismo, e non solo, la pratica del doping sia ormai ineliminabile. Appena uno si iscrive a un gruppo sportivo si illude di essere un campioncino. Però non riesce mai a vincere e si domanda perché. Poi un amico gli spiega che chi l’ha battuto si era fatto una trasfusione, una pera, una cura di ormoni. A questo punto il campioncino si domanda: “Ma io sono più scemo degli altri?”. Paff! Ed è fatta.

    Da questo meccanismo perverso c’è un solo modo per uscire, ma è impossibile da mettere in pratica: si tratta, né più né meno, di proibire ogni forma di professionismo; applicare ai trasgressori multe salatissime, addirittura la galera; abolire i premi, gli stipendi pagati dai gruppi sportivi, le sponsorizzazioni, gli arruolamenti fittizi nelle forze armate, tutto. È inutile nascondere la testa sotto la sabbia: finché ci saranno di mezzo i quattrini, gli atleti continueranno a doparsi.

    Ma perché i pezzi grossi dello sport dovrebbero approvare una simile riforma? Dove andrebbe a finire il loro potere, il loro peso politico, la loro bella vita a spasso per il mondo? Sarebbe la fine di una pacchia. E allora come se ne esce? Molto semplice: quando lo scandalo non si può coprire, si fa la faccia feroce, si sparano inchieste e punizioni alla ‘ndo cojo cojo, e chi ci va di mezzo cazzi suoi; dopodiché si ricomincia come prima. Come “mani pulite”, avete presente?

    Perché, non so se vi ricordate, ma la stessa sceneggiata del ciclismo è già successa nell’atletica leggera, nello sci e in Dio sa quanti altri sport. Ho letto che anche il baseball ha fior di guai. Nel calcio ci sono stati un paio di “casi” soffocati a stento. Lo strascico di Moggiopoli contribuisce a non alzare troppi veli. Uno scandalo per volta, diamine! Ma fino a quando durerà?

    D’altra parte, se si abolissero i gruppi sportivi, le sponsorizzazioni, gli arruolamenti fittizi, eccetera eccetera, chi avrebbe i mezzi per dedicarsi a uno sport a livello di eccellenza? Solo i ricchi. Ed ecco un bel dilemma: è più democratico tutelare il diritto di fare sport a livello agonistico o tutelare la salute?

    Non crediate che si tratti di una domanda retorica. E non illudetevi che io abbia una risposta. Sono il primo a sapere che esiste anche una “salute sociale” che esige pane, circenses e star del circo mediatico. Non c’è bisogno di aver fatto il ministro degli interni per sapere che, senza il gossip e lo sport, chi li tiene calmi gli italiani? E cosa succederebbe alla domenica pomeriggio senza Del Piero? E chi glielo fa fare, a Del Piero, se non l’uccellino dell’acqua Uliveto?

    Insomma, non ho molte speranze. Per cambiare le cose nello sport ci vorrebbe un movimento di opinione a livello planetario. E forse non basterebbe. 

     

                               Rileggere Verne come medicina 

 

    Rileggere Jules Verne può essere un’esperienza dolorosa come incontrare la compagna di banco che ci faceva battere il cuore e trovarla ingrassata, disfatta, con dipinta sul volto una fisionomia da inconsapevole megera, e immaginare la vita d’inferno che avrà fatto passare a marito e figli negli ultimi quarant’anni. Eppure anche così, anche davanti all’evidenza del disinganno, capita di cogliere in un gesto, in un’occhiata, l’eco di sensazioni che credevamo perdute, di desideri che in gioventù ci sembravano nuovi e sconvolgenti e mai provati da nessuno, e che anche oggi ci rifiutiamo di riconoscere per quel che sono: vecchie esche di una vecchia trappola.

    Non sono molti gli uomini che, varcato il confine dell’andropausa, si voltano indietro e possono considerarsi soddisfatti della vita che hanno vissuto. Quasi tutti cercano il senso del proprio passato, non nei castelli di sabbia che hanno edificato e visto crollare, ma nei sogni che li avevano spinti a progettarli. Il guaio è che i sogni, si sa, muoiono all’alba e non è facile ritrovarne il filo tra suggestioni, evocazioni, nostalgie, malinconie e rimpianti. Chi ci prova fissa lo sguardo nel vuoto, resta lì con il cervello che gira in folle, e mentre sta in questa situazione confusa e indistinta può succedere che si ritrovi in mano L’isola misteriosa o Michele Strogoff.

    Legge. E la prima impressione è catastrofica.

    Innanzitutto lo stile. Quando un personaggio di Verne si versa un bicchiere, non si versa un bicchiere e basta: se lo versa perché ha sete. Dopo una giornata di viaggio, dopo aver percorso Dio sa quante verste, miglia, leghe o vattelapesca, come mai Michele Strogoff o Phileas Fogg si verseranno un bicchiere? Gli approssimativi scrittori contemporanei lascerebbero il lettore sospeso in questa angosciosa domanda. Verne no. Lui te lo spiega: il protagonista si versa un bicchiere perché ha sete.

    Può sembrare ingeneroso mettersi a fare dell’ironia sull’abitudine verniana di non lasciare assolutamente nulla all’immaginazione del lettore, come se volesse proibirgli di irrompere nel suo mondo fantastico, pensato esclusivamente per essere contemplato dal di fuori. Ma dopo quattrocento pagine di spiegazioni che anticipano le domande, il palato del lettore è ridotto come se avesse mangiato un chilo di carciofi crudi.

    Poi i “mezzucci”: l’esotismo dozzinale, l’erudizione libresca, il profluvio di “piccolo padre”, verste, knut, villaggi siberiani elencati uno per uno senza strapparli dalla loro insignificanza, notizie da enciclopedia sui costumi calmucchi e turchestani. Tutto coscienziosamente elencato con la chiara intenzione di épater le bourgeois. Insomma, è difficile dire se lo stile narrativo di Verne è più rozzo o più ingenuo.

    Quanto ai personaggi, meglio non parlarne: nascono, vivono e muoiono imbalsamati nelle loro caratteristiche. Cyrus Smith era ingegnere fin da quando andava a balia. Michele Strogoff seguiterà a considerare la sua vita a disposizione dello zar anche dopo le fucilazioni di Ekaterinburg. I “cattivi” di Verne sono bestie feroci destinate a essere uccise, mentre i protagonisti sono idee platoniche presentate come modelli di vita, sulla scia di un trionfante socialismo positivista fin de siècle.  

    Ma davanti agli scempii ambientali messi in atto dai cinque naufraghi sull’isola misteriosa cosa direbbe Pecoraro Scanio? E Diliberto non si schierebbe piuttosto dalla parte dei tartari insorti contro lo zar? Ahimé, come sono effimere le ideologie!  

                                                          ***

    E allora perché rileggere Verne?

    Perché nessuna disillusione potrà mai far tacere il fascino della giovinezza. Perché in mezzo a tutte le ingenuità nei suoi romanzi c’è un’idea centrale che fa sempre presa, oggi come cent’anni fa, ed è l’epopea del viaggio, dell’avventura nell’ignoto, dell’ottimismo della volontà. È questo il segno distintivo della narrativa vera, che apre gli orizzonti ai sogni e ai progetti: dai viaggi di Ulisse a quelli di Sindbad, all’esodo degli ebrei dall’Egitto, l’epica dipinge la vita come una lotta in cui periranno i deboli e i malvagi, mentre saranno selezionati gli eroi (che in premio avranno Itaca, Baghdad, la Terra Promessa, oppure una morte eroica e la sopravvivenza nel mito).

    Verne è un Omero in sedicesimo: anche lui canta l’orgoglio dell’uomo, spinge ad andare avanti, promette che d’ora in avanti a ogni esame di coscienza saremo contenti di noi stessi. È un cacciaballe? Può darsi. Però quando ci voltiamo indietro e ci sentiamo assalire dal terrore di aver gettato al vento l’unica vita che avevamo a disposizione, è importante che qualcuno ci dica: “Non hai sbagliato. La tua idea era giusta e hai fatto bene a seguirla.” Non è vero, e in fondo lo sappiamo anche noi. Ma abbiamo un gran bisogno di sentircelo dire.

    Dopo tutto, la verità che ci costa fatica riconoscere è che se abbiamo continuato ad arrabattarci nella vita è perché quella compagna di banco, rimasta eternamente sedicenne nella nostra memoria, ci ha dato una spinta che ha cominciato a esaurirsi soltanto ieri, quando l’abbiamo incontrata e sul suo volto disfatto abbiamo visto le tracce delle stesse inconcludenti disavventure che sono capitate a noi, poveri Ulisse e Penelope senza gloria. 

 

 

                       Ancora prendendo spunto da Verne

 

    In tutti gli esseri umani il bisogno di evadere dalla piatta quotidianità è inestinguibile, e si sazia con la fantasia. Ai bambini che non hanno ancora imparato a leggere si raccontano le fiabe. Poi subentra Verne. Per gli adulti c’è Kipling.

    Però, una volta messa la faccenda in questi termini, c’è da chiedersi come mai la fiaba per piccini deve per forza essere surreale, mentre la storia per adulti deve essere fondamentalmente realistica. Perché l’adulto non dovrebbe gradire una storia surreale? L’adulto apprezza la fantasia tanto quanto il bambino, ma accetta l’intrusione del surreale solo come metafora per districare i paradossi della realtà. Mentre il bambino vuole sognare e credere al suo sogno, l’adulto vuole essere consolato nei suoi amari risvegli: se le sue aspirazioni sono rimaste velleitarie la colpa non è sua, ma di una realtà ostile dalla quale si può evadere soltanto verso l’isola-che-non-c’è. Il bambino ha fiducia in se stesso, l’adulto è masochista. Il bambino pensa di cambiare la realtà, l’adulto si accontenta di salvare l’anima (e non è sicuro di riuscirci).  

                                                               ***

    “Signor Sulu?”

    “Asteroide sconosciuto dritto di prua, comandante.”

    “Tenente Uhura?”

    “Sto chiamando su tutte le frequenze, ma non c’è risposta, comandante.”

    “Signor Spock?”

    “Dati insufficienti per l’analisi, comandante.”

    “Benissimo! Tre uomini con me. Teletrasportateci sull’asteroide!”

 

    In ogni episodio di Star Trek succedeva qualcosa di simile a questo dialogo. Che, se ci si pensa, è quanto di più demenziale si possa immaginare. Se fossi imbarcato sull’astronave comandata da un irresponsabile come il capitano Kirk chiederei l’immediato trasferimento. Ma chi si interesserebbe a una Enterprise che segue le procedure consigliate dal regolamento per i casi dubbi e si limita a segnalare l’asteroide alla base? La regola è che deve succedere qualcosa che esca dall’ordinario, altrimenti non c’è niente da raccontare. Ma questa cosa degna di essere raccontata che senso ha?

                                                               ***

    Cappuccetto Rosso insegna alle bambine a non andare da sole nel bosco, la Bella e la Bestia insegna a cercare nei maschi qualcosa di diverso dalla grazia. La fiaba ha uno scopo puramente educativo-pedagogico? Sembrerebbe di sì. Ma allora cosa dobbiamo pensare, che Peter Pan esalti lo spirito di avventura per educare i bambini a essere temerari e irresponsabili?

    La realtà è sicuramente più complessa, e bisognerà prenderla alla larga.

    Alessandro Magno andò all’assalto dell’impero persiano quando aveva ventun anni. Napoleone ne aveva ventisei quando si lanciò nella prima campagna d’Italia. È vero che Giulio Cesare andò in Gallia a quaranta, ma è altrettanto vero che, secondo Plutarco, durante il viaggio scoppiò a piangere perché alla sua età Alessandro aveva già conquistato un impero e lui non aveva ancora combinato niente. Quel che voglio dire è che le imprese, non necessariamente guerresche, si fanno da giovani o non si fanno più. Un capo avanti con gli anni va bene per organizzare una difesa, non per guidare un assalto. Come mai? Machiavelli dà una risposta che può sembrare stupida: dice che la fortuna è femmina e per questo ama i giovani, i quali sono feroci e la battono e la tengono sotto.

    D’accordo, Machiavelli era un insopportabile fallocratico maschilista (del resto, ai suoi tempi il femminismo era di là da venire), ma un fondo di vero nel suo discorso c’è. Se uno ha in mente un progetto e per prendere l’iniziativa aspetta di avere tutte le circostanze a suo favore, campa cavallo, non si muoverà mai. Per poco che abbia le idee chiare, gli conviene prendere l’iniziativa, sparigliare le carte e disorientare gli avversari. La fortuna bisogna andarla a cercare, prenderla per i capelli e tenerla stretta.

    Ma per fare un gioco così avventuroso bisogna essere spregiudicati, con una grande fiducia in se stessi, ambiziosi, presuntuosi e insofferenti (tutte qualità che diventano pregi se l’avventura ha successo, e diventano difetti se fallisce). È raro che un uomo di mezz’età riesca ancora a essere spregiudicato: di solito ha finito per considerare stabili le situazioni alle quali si è appoggiato e perfino quelle che ha combattuto. Invece in un giovane la spregiudicatezza è naturale.

    Tutto questo per concludere che cosa? Che le fiabe, tanto quelle per adulti che quelle per i piccini, hanno più che altro uno scopo consolatorio. Ai bambini dichiarano: “Fai bene a essere intraprendente, perché il mondo ti aspetta”. Agli adulti sussurrano: “Fai bene a essere prudente, perché il mondo è troppo complesso per capirci qualcosa”. Insomma, dicono a ciascuno ciò che desidera sentirsi dire. E, stando così le cose, è logico che il surreale vada d’accordo con l’intraprendenza e che la prudenza preferisca il realismo.

                                                             ***

    Come si vede, in relazione al pubblico a cui ci si rivolge, ci sono regole da rispettare. Però le regole sono condizioni necessarie ma non sufficienti. Ci sono migliaia di libri che rispettano le regole e non sono niente più che letteratura di evasione, roba da leggere in treno fra Milano e Voghera. Qualcuno è anche un best seller nonostante che non riesca a dire niente più di ciò che c’è scritto. Due personaggi come Sandokan e il Capitano Nemo possono diventare famosi, ma sono dei romantici sbandati, ribelli senza strategia, mossi da sentimenti e rancori personali. Il lettore che prova a identificarcisi avverte la mancanza di un respiro più vasto. Tanto è vero che il loro pubblico è rigidamente individuato: maschi fra i tredici e i sedici anni che stanno vivendo l’epoca delle tempeste ormonali e del ribellismo fine a se stesso.

    Achille invece è tutt’altra cosa, e parla a tutti. Finirà male, lo sa, e in più è un mostro di egoismo e di ferocia. Eppure è grande. Come mai? Perché ciò che tocca le corde più intime del pubblico di ogni età è l’epica, la dimensione che eleva al di sopra della misura umana. Quando Achille piange, sua madre sorge dal mare per consolarlo. Quando resta senza armi, un dio si scomoda a costruirgliene altre. Per lui si muovono cielo e terra. E lui, quando si muove, lo fa con la ferma convinzione di servire un Ordine superiore, dettato dal Fato. L’epica sta tutta qui: nel compiere atti il cui significato trascende la persona che li compie. Non importa quali atti. Dipende da come si fanno, dalla visione del mondo che lasciano intravedere.   

 

 

                          Un’ombra si aggira sulla letteratura ?

 

    Ogni estate i blog e le terze pagine dei quotidiani ci deliziano con il nuovissimo interrogativo: “La letteratura è morta?” (variante dell’ancor più nuovo problema “Il romanzo è morto?”). Può darsi che, come passatempo sotto l’ombrellone, queste domande siano sempre di attualità. Ma invece di porsi domande oziose non sarebbe meglio provare a scrivere qualcosa che meriti il nome di letteratura? Intanto, qualcuno potrebbe riuscirci. E anche se non ce la facesse proprio nessuno, non sarà il caso di attendere almeno un secolo prima di stilare il certificato di morte? Per ora, si potrebbe dire al massimo che la narrativa sia entrata in una zona d’ombra.

    In effetti, negli ultimi anni è stata prodotta letteratura di grande livello? C’è chi stravede per Philip Roth, chi per Houellebecq. Io no. Deve essere una mia manchevolezza. Forse dipende dal fatto che sono depresso. Intendiamoci: Philip Roth sa scrivere, eccome, (Houellebecq molto meno). Ma tutti e due hanno una visione del mondo francamente insopportabile. Può darsi che lo sconforto universale sia la cifra della letteratura contemporanea, ma per chi è già depresso leggere Pastorale americana o Le particelle elementari significa rischiare il suicidio. 

    La mia risposta ai problemi da ombrellone è che la zona d’ombra in cui si è cacciata la letteratura contemporanea dipende dall’incapacità di esercitarsi nel genere fondativo di tutte le narrazioni: l’epica. Un genere negletto, confinato nel trionfalismo schematico dei film di John Wayne (e qui da noi aborrito non tanto per il suo schematismo quanto per l’esaltazione del sogno americano alla Ralph Waldo Emerson). Un genere che, però, non è affatto morto se vent’anni fa Cormac McCarthy ha saputo risuscitarlo in quel vero e proprio capolavoro che è Meridiano di sangue. Parola di depresso: le stragi descritte da McCarthy sono assolutamente orripilanti, il cinismo dei personaggi è totale, eppure Meridiano di sangue non ha l’effetto deprimente di quasi tutta la prosa contemporanea. (Sui successivi esiti di McCarthy sono meno entusiasta e, secondo me, il suo ultimo successo, La strada, tanto ha guadagnato in vendite quanto ha perso in arte.) 

    Ebbene, se il merito di McCarthy è di aver scritto un capolavoro, il fatto di non deprimere è merito dell’epica: anche l’Iliade e l’Eneide grondano sangue in ogni pagina, ma sono piene di senso e di significato, mentre i romanzi contemporanei (ci avete fatto caso?) non hanno ampi orizzonti né valori di riferimento e inevitabilmente finiscono per essere lugubri perfino nelle scene di sesso. Queste ultime, poi, sono delle vere e proprie pietre di paragone: solo le narratrici riescono ogni tanto a infondere un po’ di mistero ed eccitazione; i narratori vanno giù piatti e cercano soltanto il particolare ripugnante o schifoso o trasgressivo (ne esistono ancora?).

    Ma da dove viene questa ombra che restringe le visuali, appiattisce le problematiche e induce gli autori a rifugiarsi nell’horror e nel grand guignol? Chi l’ha stesa sulla narrativa contemporanea?

    Un giorno o l’altro bisognerà pure che qualcuno scriva una Fenomenologia di Umberto Eco e dei suoi epigoni, fra i quali in primis et ante omnia è da annoverare il celebre Dan Brown. Altrimenti si rischia di perdere del tutto la trebisonda. Parliamoci chiaro: non se ne può più di sentire pseudointellettuali e signore col birignao che sentenziano: “Il Codice da Vinci dimostra una grande padronanza dei meccanismi narrativi”. Ma davvero? Ma dite sul serio? Se il protagonista è in fuga – ci credereste? – troverà un amico, e cento pagine dopo – colpo di scena! – quell’amico lo tradirà. “Padronanza dei meccanismi narrativi” significa appiattimento sui luoghi comuni?

    Ma se il libro è così banale come mai ha venduto decine di milioni di copie? Perché ha messo in pratica il format de Il nome della rosa. (E pensare che il primo a non capirlo era stato proprio Eco: convinto di aver inventato, non un format, ma addirittura un modo nuovo di raccontare, ci ha ammannito compiaciuti ammaestramenti su come s’ha da scrivere un romanzo. Poi, col tempo, è diventato più saggio). In che cosa consiste questo format? In primo luogo nella preminenza dell’ambiente sul personaggio.

    Guglielmo da Baskerville non è memorabile quanto a spessore psicologico e Adso da Melk lo è anche meno. In più, la descrizione degli usi e costumi dei monaci, il contesto storico, gli omicidi seriali, tutto concorre a ridurre i personaggi a stereotipi. Con i successivi romanzi Eco è andato di male in peggio: i personaggi sono diventati sempre più schematici e programmati a tavolino. Esistono in funzione della storia e non viceversa. Non evolvono, non maturano, non dialogano con la coscienza. Gli epigoni come Dan Brown portano l’azzeramento dei personaggi alle estreme conseguenze: il protagonista del Codice da Vinci non ha faccia, carattere, sentimenti. Non va in crisi e non si esalta. Non sembra neanche un essere umano.

    Il secondo elemento del format consiste nel farcire la storia di ingredienti favolosi, esoterici e trasgressivi. Il nome della rosa aveva omicidio, sesso fra monaci, l’Apocalisse. Funzionò. Il pendolo di Foucault aveva più pretese e funzionò meno. L’isola del giorno prima ne aveva ancora di più e non funzionò affatto. Baudolino tornò al meraviglioso, all’esotico, al medioevo, e pur essendo totalmente privo di senso, vendette meglio dei precedenti. Dan Brown, pescando un po’ dappertutto, dai vangeli gnostici a Fulcanelli, mette in campo trasgressioni a gogò, monaci killer, società ultrasegrete. È la sagra delle leggende nere. Dimentica soltanto di citare nome cognome e grado del soldato romano che (secondo una voce riportata indovinate da chi? da Umberto Eco!) sarebbe il padre biologico di Gesù.

    Si dirà: in fondo la colpa è del pubblico. Sono i lettori a chiedere questa roba.

    Ma siamo sicuri? Non può darsi che i lettori stiano invece chiedendo un ritorno alla narrazione, all’epica, dopo un secolo di sperimentalismi fine a se stessi? Non saranno i narratori ad avere un’idea stereotipata del pubblico? Perché si deve partire dal presupposto che “il popolo è bue” e basta raccontargli qualcosa di fantastico per vendere milioni di copie? Non è vero. Non è così. E ci sono infiniti flop a dimostrarlo. Soltanto in Italia si stampano sessantamila nuovi titoli all’anno. Quanti sono quelli che vendono?

    Forse il pubblico ha le idee più chiare degli autori. Non varrebbe la pena di conoscere meglio i lettori, i loro problemi, le loro lotte quotidiane, invece di chiudersi nelle torri d’avorio della cultura d’élite? Ah, quanto mi mancano Fruttero e Lucentini! Dopo A che punto è la notte? si è perduto il senso della misura, e la lanterna del buon gusto è desolatamente spenta.

 

 

                                            Coccodrillo     

 

    E così se n’è andato anche lui. Se faccio il conto delle figure che hanno in qualche modo costellato la mia vita comincio ad annoverarne più fra i morti che fra i vivi. Tanti parenti, qualche amico, qualche compagno di scuola, e tanti personaggi pubblici intravisti in segnalate occasioni, più spesso visti solo al cinema o in televisione. Se ne sono andati De Gaulle e Nasser, Togliatti e Francisco Franco, John Lennon e Le Corbusier. Ora se n’è andato anche Big Luciano.

     Di lui, oltre a dischi, cassette e CD, ho un ricordo personale. Doveva essere il ’65 o il ’66. Un cliente inglese venne a Milano e chiese di andare alla Scala. Lo accompagnai io. C’era la Bohème, un’opera che sopporto per il primo atto, mi fa dormire nel secondo e mi dà fastidio nel terzo. Ma quella sera cantava, insieme a Mirella Freni, un giovane tenore ancora poco conosciuto: Luciano Pavarotti.

    Ero seduto in platea, non proprio nelle ultime file, ma quasi; forse il posto più disgraziato dal punto di vista dell’acustica. Ricordo sempre con un certo stupore quel che successe. L’aria “Che gelida manina” parte in tono abbastanza dimesso e colloquiale, tanto che l’acuto arriva quasi inaspettato. Ma quando Pavarotti arrivò a metà, prese un fiato e cantò le parole “Talor dal mio forziere…” mi sentii schiacciare contro lo schienale della poltrona. Il volume della sua voce aveva un impatto fisico straordinario.

    E poi era una voce giovane, dannatamente giovane; il timbro ideale per la Bohème, per il Trovatore, per l’Elisir d’amore; una voce che aveva solo due termini di paragone: Enrico Caruso e Beniamino Gigli.

    Ci penseranno i critici a scrivere che nell’anno tale, al Covent Garden o al Metropolitan, Pavarotti cantò gli otto do di petto della Figlia del reggimento senza scivolare nel falsetto e che nell’anno talaltro, nella Messa di Rossini arrivò al “re naturale”. Non lo so. Non mi interessa. Per me il ricordo di Pavarotti è quello di una sera alla Scala con la sconcertante sensazione di essere incollato alla poltrona da una forza invisibile. Una magia.

    Addio Luciano.      

 

                                               

                                              Vizi e virtù 

 

    Da un punto di vista economico-sociale, gli italiani sono dominati da due demoni uguali e contrari: da un lato l’intraprendenza individuale, dall’altro la vocazione a fare cartello.

    In Italia non ci si associa e non ci si sottomette. L’italiano detesta l’idea di timbrare il cartellino fino al momento di andare in pensione. Non accetta ordini senza discuterli e senza pensare che “è tutto sbagliato, è tutto da rifare”. E, dal suo punto di vista, ha ragione perché l’azienda come l’ha in mente lui è molto più piccola, agile, senza condizionamenti e quindi molto più spregiudicata. In fin dei conti, è grazie a lui se in Italia ci sono decine di migliaia di piccole aziende che si impadroniscono delle nuove tecnologie e le fanno evolvere specializzandole.

    Ma le aziende non possono restare piccole in eterno. La forza delle cose le condanna a crescere, a confrontarsi con la concorrenza, a cercare le economie di scala. E i problemi che incontrano nel crescere, oltre a quelli strettamente tecnici, sono questi: 1) i dipendenti più in gamba non sopportano di essere inquadrati gerarchicamente e lasciano l’azienda per mettersi in proprio, 2) quando i dipendenti in gamba se ne vanno le economie di scala non bastano a compensare il calo della produttività, 3) di conseguenza la concorrenza sui mercati esteri è sempre più difficile da battere.

    A questo punto scatta la “voglia di cartello”. Le aziende dello stesso settore rinunciano a competere sui mercati esteri. Invece di farsi concorrenza, si accordano per spartirsi il mercato interno e per tenere alla larga chi cerca di entrarci. I sindacati vengono rapidamente convinti a sostenere questo sistema in cambio della garanzia dei livelli occupazionali. Le autorità politiche ottengono la pacifica conclusione dei contratti di lavoro e, quando qualche azienda va in crisi, intervengono con soldi dello stato secondo il noto metodo “privatizzare i profitti e statalizzare le perdite”.

    Il risultato (se preferite dategli pure un altro nome, ma la sostanza non cambia) si chiama corporativismo. E, indipendentemente dalle pregiudiziali ideologiche, funziona né bene né male finché si applica a un mercato di dimensioni ridotte o a un periodo storico in cui le innovazioni tecnologiche non hanno una portata rivoluzionaria. Dopo tutto, i mercati protetti hanno anche qualche merito: tengono in piedi le aziende che non raggiungono la massa critica, favoriscono la pace sociale, garantiscono i redditi futuri dei lavoratori (il che li invoglia a indebitarsi per acquistare la casa e mette in moto il settore trainante dell’economia).

    Fino al 20 settembre 1870, anche se poveracci, i romani stavano benissimo sotto il governo papalino, che perdonava tutto con tre pateravegloria, non li obbligava ad ammazzarsi di lavoro, e se uno proprio nun ciaveva da magnà andava a bussare alla porta di un convento e un piatto di minestra lo rimediava. Poi, all’improvviso, bum bum, con quattro cannonate a Porta Pia arrivano quei rompiscatole dei piemontesi e, porca miseria, cambiano tutte le regole, bisogna arrangiarsi, cercare un lavoro e altri santi in paradiso. Uff, che palle!

    Peccato che i nodi, presto o tardi, vengano al pettine. Nell’800 ogni stato viveva chiuso in se stesso e, se aveva bisogno di sbocchi commerciali, cercava di ingrandirsi con le colonie. Oggi c’è la globalizzazione. Le informazioni circolano. I mercati si aprono. Arrivano i cinesi, così come ieri erano arrivati i giapponesi (e prima ancora erano arrivati gli italiani). I cartelli si sgretolano. Le aziende falliscono.

    E allora cosa è meglio: alzare una muraglia e chiudersi dentro con i viveri razionati, oppure stare perennemente sul piede di guerra? Da un punto di vista di teoria politico-socio-economica, ognuno dà la risposta che meglio si adatta ai suoi pregiudizi ideologici. Io credo che le strategie debbano essere adeguate alle circostanze: immagino che ci siano momenti storici in cui tanto vale chiudersi a riccio e altri in cui bisogna farsi forza e uscire in campo aperto. Guardate la costruzione della Comunità Europea: partita con l’idea di sviluppare la circolazione di uomini, capitali e merci, ha smantellato le muraglie interne fra stati soci; poi però ha avuto paura del suo stesso coraggio e ha lasciato in piedi quelle verso l’esterno. Ha creato un mercato più ampio, ma l’ha isolato dal resto del mondo. Così, quando si fanno avanti cinesi e indiani, ci trovano con i pantaloni abbassati.

    È vero che non è facile competere con chi fa lavorare la gente in condizioni di quasi schiavitù, ma è altrettanto vero che al giorno d’oggi chiudere un mercato è praticamente impossibile. D’altra parte, rifiutare uno sbocco per le merci dei paesi sottosviluppati significherebbe condannare interi popoli alla fame (il che, oltre che moralmente ripugnante, è antieconomico). Quindi competere bisogna.

    Semmai varrebbe la pena di sottolineare che chi non è masochista eviterà di competere con una mano legata dietro la schiena. Ma non si può mai sapere. Se siamo un paese sostanzialmente corporativo non è solo perché questo modo di intendere l’economia fu codificato sotto il fascismo. Se fosse solo per questo, in sessant’anni l’avremmo spazzato via. No, il guaio è che noi italiani le due passioni contraddittorie, intraprendenza e voglia di tranquillità, le abbiamo nel sangue. E non è detto che a prevalere sia quella adatta al momento. Anzi.

 

                                                 I dietrologi                   

 

Ci sono dei modi di pensare così diffusi da essere diventati automatici. Generalmente mi provocano un vago fastidio, come quei bocconi indigesti che si vanno a piazzare sulla bocca dello stomaco e non vogliono saperne di andare né su né giù. Uno di questi modi di pensare è il complottismo, e cioè l’insopprimibile voglia di vedere “grandi vecchi” dietro a tutto ciò che capita. La voce del complotto nasce dal desiderio di denigrare qualcuno, ma ciò che la alimenta è la vocazione dei gonzi ad atteggiarsi a furbi, a far vedere che loro sanno cosa c’è sotto. Per loro le cose non sono mai come sembrano, non sono il risultato degli sforzi di chi si è dato apertamente da fare per ottenerle. E d’altra parte niente succede mai per caso. Dunque, dietro ad ogni evento ci sono strumentalizzazioni ordite da poteri occulti che vogliono l’esatto contrario di ciò che sembra. Loro, i dietrologi, lo sanno. E te lo dimostrano.

    Il brano che segue faceva parte di un romanzo che vado componendo con frequenti ripensamenti e seghe mentali. L’ho tagliato perché, a un certo punto, la storia ha preso una direzione che l’ha reso marginale (e, si sa, in un libro tutto ciò che è inutile è dannoso). Ma l’ho tagliato a malincuore, per due motivi: il primo è che il pezzo, in sè, non mi sembra malriuscito; il secondo è che una frecciatina ai complottisti l’avrei data volentieri.

    Ecco qua: una sedicente professoressa, dall’improbabile nome di Armida Sésostris, sta tenendo una conferenza ai soci della Filarmonica di Costanza (ridente cittadina tedesca affacciata sul lago omonimo). Guardate un po’ che cosa è capace di dare a bere. 

       

    Armida lanciò un’occhiata circolare all’uditorio: eccoli lì, i buoni borghesi di Costanza, che vanno alle conferenze per farsi vedere, per riconoscersi tra di loro, e per celebrare questo rito sono disposti a sopportare due ore di noia assoluta. Sorrise tra sé. Stava per servirli di tutto punto.

    “Potrei aggiungere altri elementi circostanziali” riprese, “ma ritengo di avere ormai dimostrato che il clima culturale del diciottesimo secolo era impregnato di esoterismo e che questa moda aveva fatto proseliti anche sulle rive del Baltico. Eppure proprio lì, nel 1781, Immanuel Kant dà alle stampe la Critica della Ragion Pura. Sembrerebbe l’apice, il trionfo dell’illuminismo, vero? E invece no. Niente affatto!”

    Armida fece una pausa, bevve un sorso d’acqua, si aggiustò gli occhiali sul setto nasale.

    “L’argomentazione da cui la Critica prende le mosse è molto semplice: sette più cinque fa dodici. E questo lo sappiamo tutti. Eppure, dice Kant, potete analizzare in lungo e in largo la nozione di 7, la nozione di 5 e il concetto di somma: non ci troverete mai la nozione di 12.”

    Staccare le pause? Dare il tempo per assimilare, capire, riflettere? Armida non ci pensò neppure. Era inutile. Assolutamente inutile. Quelle facce stolide sedute in platea erano capaci di eseguire a mente calcoli ben più complicati, ma rifiutavano con orrore di ragionarci sopra. Bisognava condurli per mano, passo passo, come i bambini dell’asilo.

    “Noi, che non ci occupiamo di filosofia, ma di musica, possiamo concederci un altro tipo di curiosità: come mai Kant scelse per il suo esempio proprio 7+5=12? I filosofi, gli storici della filosofia, non si sono mai posta questa domanda. E forse non è una malignità supporre che l’abbiano evitata perché non saprebbero dare una risposta. Ebbene, io sono qui per sottoporvi un’ipotesi affascinante: 7+5=12 potrebbe essere un messaggio cifrato.”

    Niente. Non un brivido, neanche un trasalimento. Ma ormai Armida era lanciata, e insistette.

    “A chi si rivolgeva Kant? Chi era il suo pubblico? Una ristretta cerchia di gentiluomini, in gran parte massoni, che coltivavano studi esoterici e intendevano la musica con spirito pitagorico. Signore e signori, non voglio tenervi in sospeso: la mia ipotesi è che 7+5=12 alluda occultamente all’unione delle sette note e dei cinque semitoni. In una parola: alla dodecafonia!”  

    I soci della filarmonica di Costanza (negozianti, birrai, salsicciai e funzionari comunali) non furono particolarmente emozionati dalla rivelazione. Solo Adam Zweifel, seduto in terza fila, sentì un brivido percorrergli la spina dorsale.

    “Scientismo e positivismo hanno fatto strame di una antica sapienza che nella Königsberg del 1781 non era ancora scomparsa. Kant intuì l’irrompere di un secolo materialista e indicò nella musica la catacomba in cui conservare le dottrine più occulte. È forse un caso se nei primi anni del secolo successivo Beethoven spezzò le scale armoniche e aprì la strada verso la dissoluzione della tonalità? E non è significativo che Schönberg, l’alfiere della dodecafonia, dopo aver composto un’opera dedicata a Mosé, il più grande dei maghi, si sia immerso egli stesso negli studi sapienziali? Dopo Kant, un filone esoterico ha seguitato a scorrere nella musica come un fiume carsico, dal Flauto Magico al Parsifal, e oltre.”     

    Affondato nella poltrona, il roseo e gigantesco signor Metzger sbadigliò mettendo in mostra un’apertura mascellare degna di un ippopotamo. Vedendolo, Adam Zweifel non poté fare a meno di imitarlo. Ma, a differenza del lardoso filisteo, nel portare la mano alla bocca l’antiquario ricordò che proprio Kant, in una delle sue opere maggiori, non aveva disdegnato questa filosofica osservazione: lo sbadiglio è contagioso.

                                                             ***

    Armida si era interrotta per bere un sorso d’acqua, aveva localizzato Zweifel in terza fila, aveva agganciato il suo sguardo e aveva ripreso a parlare rivolgendosi solo a lui.

    “Ma, si dirà, che cosa ci autorizza ad acchiappare il nostro massimo filosofo per le falde della redingote e a tirarlo giù dalle vette della ragione fino alla palude delle scienze occulte? Lo scettico può facilmente obiettare che congetture se ne possono fare a quintali: non costano niente.”

    Armida chinò il capo e prese fiato.

    “Congetture?” si chiese. “Congetture?” ripeté alzando la testa e allargando le braccia in un gesto di non facile interpretazione. “Non lasciamoci condizionare dai pregiudizi.”

    La mano di Armida si alzò a chiedere attenzione.

    “Signore e signori, vi chiedo di seguirmi in un viaggio nel tempo. Facciamo un passo indietro.”

    Ancora una pausa, per sottolineare la distanza temporale.

    “Giordano Bruno, l’ultimo mago del rinascimento, compare in Germania nel 1586. Di tutte le sue peregrinazioni, quella tedesca è forse la più misteriosa: tiene lezioni a Magonza e a Wittenberg, una volta tanto senza litigare con il senato accademico, e se ne va senza essere stato scacciato. Lo ritroviamo a Praga alla corte di Rodolfo, l’imperatore negromante. Non scatena dispute, i nemici non lo perseguitano, i pedanti non lo contestano. Vive a Praga da uomo libero per quasi un anno, poi riparte. A Francoforte circola e pubblica indisturbato. Lascia la Germania nell’agosto del 1591, come un uomo d’affari che ha fondato filiali in un mercato promettente e, in attesa degli sviluppi, passa a occuparsi d’altro.

    “Bruno ha speso gli ultimi anni a cercare protettori altolocati: non ha sedotto i regnanti di Francia e di Inghilterra, e anche in Germania ha avuto poco successo con i principi, ma dappertutto ha raccolto attorno a sé cenacoli di adepti. Oggi le chiameremmo logge. Se gli riuscisse altrettanto a Venezia potrebbe presentarsi al Papa come il fondatore di un ordine, potrebbe proporsi come mediatore per una riconciliazione con i protestanti. Ma la Storia decide altrimenti: Bruno viene imprigionato, estradato a Roma, processato e, il 17 febbraio del 1600, viene messo al rogo.

    “Intanto, in Germania, a Parigi, a Londra, le logge prosperano, si rendono autonome, pubblicano testi di magia, sui muri di Parigi compare il manifesto dei rosacroce. L’occultismo diventa una moda. Nel giro di qualche decennio, non c’è persona colta che non si interessi di talismani, oroscopi e sortilegi. Saint Germain, Casanova e Cagliostro si infiltrano nelle logge millantando poteri straordinari. Swedenborg, il famoso visionario, è così noto che Kant ne parla in un opuscolo del 1766. Cagliostro (attenzione alle date!) è a Königsberg nell’autunno del 1778, solo tre anni prima della pubblicazione della Critica.

    “Ma c’è un riscontro più definitivo. In occasione della sua visita pastorale massonica in Russia, anche Casanova sosta due volte a Königsberg: nel 1764 e nel 1765. Nelle sue memorie non passa la cosa sotto silenzio, ma è stranamente reticente. Riferisce circostanze insignificanti, come se volesse fuorviare il lettore. All’andata pranza con il governatore von Lehwald e ottiene una lettera di raccomandazione per un confratello di Riga. Al ritorno si ferma per pochi giorni, si separa da un’amante e riparte per Varsavia. C’è da domandarsi come mai Casanova menzioni episodi così irrilevanti. E c’è da rispondersi che probabilmente lo fa per annegare fra i pettegolezzi un indizio destinato solo agli iniziati!

    “E non lo dico così, tanto per dire. Carta canta, signore e signori! In mezzo a tante chiacchiere e banalità, Casanova tiene a farci sapere di aver cambiato l’arredo della sua carrozza, proprio lì, a Königsberg. Ed è appena il caso di ricordare che a Königsberg il padre di Kant si occupava per l’appunto di selle e finimenti, di accessori per cavalli e carrozze!

    “Occorre aggiungere altro? No, signori: il nesso fra Kant e l’esoterismo è dimostrato!”

 

 

                                   L’infernale Harold Bloom

 

    Si può essere più o meno d’accordo con le “canonizzazioni” che Harold Bloom opera nel suo (ormai canonico) “Canone occidentale”. Personalmente ho sempre trovato ostica la sua interpretazione del Faust, ma ultimamente ho cominciato a ricredermi. Confesso: quando un critico interpreta un’opera interamente ed esclusivamente da un punto di vista sessuale, storco il naso. Credo e spero che il senso dell’esistenza degli esseri umani sulla terra vada oltre il puro e semplice “crescete e moltiplicatevi”. Un parametro interpretativo di questo genere varrà forse per Melissa P. Nel caso di Goethe non sarebbe il caso di andare un po’ più a fondo?

    Per non parlare di cose sottaciute, e per non essere accusato di travisare il pensiero di Bloom, o addirittura di fare della pornografia, ne riporto un brano:

   

    Il sublime cattivo gusto di Goethe riappare nel memorabile episodio delle Madri, dove la chiave data a Faust da Mefistofele è fin troppo evidentemente fallica… Quando Mefistofele dice a Faust che sarà circondato da strane forme, lo studioso intento alla cerca (cioè lo stesso Faust) si sente spronare a “brandire la tua chiave e tenerle a distanza”. Faust replica con entusiasmo: “La tengo stretta e sento nuova forza e coraggio”. La “grande impresa” della discesa mitica è palesemente una masturbazione, eroica nella sua durata e altamente poetica quanto a risultati: la visione dell’iniziale stupro di Elena da parte di Paride. Il geloso Faust, lui stesso pazzo di desiderio per la classica incantatrice, grida che la sua mano serra ancora la chiave, la punta verso Paride fino a toccarne il fantasma, e si impadronisce di Elena. Ha luogo un’esplosione orgasmica, Faust sviene e i fantasmi si dissolvono come vampiri.

 

    Bloom insiste sull’argomento per tutta la sua dissertazione, tanto che, quando la lessi per la prima volta, ne rimasi un po’ stomacato e mi domandai se per caso la vera intenzione del critico non fosse stata quella di stroncare Goethe senza dirlo, e cioè di includerlo nel canone con una mano e levarlo con l’altra. Forse un filo di ostilità c’è davvero. Il Faust è troppo alto, enciclopedico e monumentale. Molti dei concetti che contiene non possono essere afferrati prima di aver accumulato l’esperienza di vita di un quarantenne (e altri, forse, non possono essere mai compresi nella loro interezza). Goethe impiegò sessant’anni a scriverlo e non c’è barba di critico che sia in grado di leggerlo, capirlo e spiegarlo, senza avergli dedicato una vita intera. È comprensibile che un Harold Bloom intento a comporre nientemeno che il canone della letteratura occidentale davanti al Faust si spazientisca.

    Eppure, più ci penso e più mi convinco che l’infernale Harold, anche se non avesse “capito tutto”, ha centrato un punto fondamentale. Nei brevi momenti in cui smette di fare l’analista e torna a fare il critico, Bloom dà la cifra del poema con due concetti: grottesco e parodia. È vero: il Faust butta tutto in parodia (fin dai primi versi, quando il protagonista si lamenta di avere speso la vita a studiare filosofia e scienze occulte per concludere che ne sa come prima) e lo fa, soprattutto nella seconda parte, rivelando il lato grottesco del mito (classico e cristiano). Ma a quale scopo?

    Bloom tende a presentare Goethe come un superintellettuale che tutto conosce e tutto giudica con uno sguardo olimpico, ma anche un po’ sulfureo. Per lui, Goethe è il punto finale di un’era letteraria (che definisce “età aristocratica”) destinata alla liquidazione attraverso un programmato stravolgimento delle sue forme e dei suoi miti. Chissà se Goethe si sarebbe riconosciuto in questo ritrattino. Immagino che non gli sarebbe dispiaciuto, ma credo che avrebbe rivendicato anche qualcos’altro.  

    Proviamo a collegare i concetti: parodia, grottesco, masturbazione. In fin dei conti, non è assurdo che Goethe abbia concepito l’anelito di Faust come un sogno onanistico, così come non è strano che per dargli forma letteraria sia ricorso al grottesco e alla parodia. Ma se il viaggio ultraterreno di Faust è la metafora di una masturbazione, è legittimo domandarsi: e la masturbazione di che cosa è metafora?

    Forse l’infernale Bloom ha fatto la pentola e ha dimenticato il coperchio: Goethe ha scritto una grottesca parodia, è vero, ma non si è limitato a parodiare i miti classici e cristiani. È andato più in là: ha parodiato la stessa creazione artistica, l’ha smascherata come il sogno autoerotico di chi va in cerca del kantiano “sentimento del sublime” dipingendo una tela, scolpendo il marmo, imbrattando carte.

    È vero: Faust è “tedioso, solenne e astratto”, è un personaggio “incapace di elementari reazioni d’ogni sorta”. Sono parole di Harold Bloom, credo, ampiamente condivisibili, che però, a mio parere, non dovrebbero suonare necessariamente critiche. In Faust c’è la sofferenza di chi gode nel creare e soffre nel sentire che la sua creatura è imprigionata in se stessa (la storia di Homunculus sarebbe da rileggere in questa chiave, più che in chiave onanistica come fa Bloom). Per questo l’artista non può accontentarsi di creare: ha bisogno di condividere la sua opera con un pubblico, di sentirla apprezzata, desiderata, amata, nella speranza di passare dall’autoerotismo al coito – e magari all’ammucchiata – per sentirsi corrisposto, per riscaldarsi nell’amore universale, nel sogno paradisiaco dell’ultimo verso del Faust: Das Ewig-Weiblich trägt uns hinan. 

 

                                         Mala tempora

 

    Apro il giornale e leggo che…

    1) di fronte alla probabilità che l’Iran stia fabbricando bombe atomiche al Pentagono sarebbero già pronti i piani per distruggere duemila siti strategici. Le eventuali ritorsioni terroristiche, politiche, economiche, saranno state prese in considerazione? Visto com’è andata in Irak, c’è poco da stare allegri.

    2) in Inghilterra è cominciata la corsa agli sportelli di una banca troppo esposta sui mutui immobiliari. Se la Bank of England non riuscirà a circoscrivere il fenomeno, la faccenda potrebbe diventare seria: il crollo di una banca coinvolge tutte le sue corrispondenti, e un credit-crunch di quelle proporzioni farebbe in fretta ad attraversare la Manica.

    3) di che cosa ci si preoccupa in Italia? Di Beppe Grillo.   

 

   

                                     Nomi e personaggi 

 

    A Manzoni ci sono voluti quasi vent’anni perché Fermo diventasse Renzo e l’avvocato Bezzola diventasse Azzeccagarbugli. Dal punto di vista della scelta dei nomi, si può dire che siano stati anni ben spesi?

    Conosco almeno una persona (o forse due) che considera “Azzeccagarbugli” una caduta di stile, una specie di irruzione del commissario Basettoni o di Archimede Pitagorico in pieno Seicento lombardo. In effetti, Bezzola andava benissimo. Che motivo c’era di cambiarlo? Era sottilmente allusivo: bézzola è il nome dialettale della betulla, albero sempre pronto a piegarsi nella direzione in cui tira il vento (e non solo la burrasca, ma anche uno zefiro, una bava, un sospiro). Era il nome perfetto per un avvocato intrigante. Ma Manzoni deve aver pensato che il mozzorecchi andava presentato dal punto di vista di Renzo, Agnese e Lucia, gente “vile e meccanica” che non avrebbe saputo cogliere il significato allegorico della betulla.

    La letteratura è piena di queste allusioni “costruite” e poi occultamente accennate oppure sfacciatamente esibite. In “Anna Karenina”, Vronski è sempre descritto con denti bianchissimi e perfetti. A tragedia avvenuta e (confesso: non ho mai capito perché) attribuita a sua colpa, Vronski viene afflitto da un tremendo mal di denti. Di che si tratta? Di una reazione psicosomatica? Di un complesso di colpa? Oppure di una puerile vendetta dell’autore verso il personaggio? Non lo sapremo mai. Ogni lettore si farà la sua opinione e quella di Tizio non varrà più di quella di Caio. Ma anche di queste ambiguità vive la letteratura, e se perfino Tolstoi non ha arretrato davanti a qualcosa che potrebbe essere giudicato un ripiego o un mezzuccio vuol dire che quanno ce vo’, ce vo’.

    Però la scelta dei nomi non è un puro e semplice elemento di caratterizzazione dei personaggi. È una faccenda più complicata. I motivi per cui si battezza un personaggio con un nome piuttosto che un altro sono difficilmente spiegabili in modo razionale. Quando la scelta è azzeccata la spiegazione viene solo a posteriori e, più che una spiegazione, è un’interpretazione. Di solito, quanto più un nome vorrebbe essere “vero”, tanto più suona fasullo. Dunque, perché non Azzeccagarbugli? Tutto dipende da due cose: il risultato che si vuole ottenere e il fatto che si riesca davvero a centrarlo.

    Stendhal dà ai suoi personaggi nomi plausibili ne “Il rosso e il nero” e nomi improbabili nella “Certosa di Parma”. Quali erano i risultati che voleva raggiungere? Io credo che, nelle sue intenzioni, “Il rosso e il nero” dovesse essere una storia verista; mentre “La certosa di Parma” doveva essere soffusa di esotica fantasia. Ottiene questi risultati? In buona parte sì. Nel Rosso e il Nero, Julien Sorel si dibatte (almeno fino a un certo punto) in mezzo a difficoltà concrete. Nella Certosa di Parma, Fabrizio del Dongo vive nel mondo della luna e porta avanti una vicenda strampalata in mezzo a fior di dementi come la Sanseverina e Ferrante Palla (bei nomi credibili, vero?).

    E allora dobbiamo pensare che i nomi dei personaggi servano a far capire se la storia è verosimile o fantastica? Da sola, la scelta dei nomi certamente non basta. Ma sarebbe immaginabile un protagonista della Certosa di Parma che si chiamasse come il panettiere sotto casa, Ambrogio Brambilla o Romoletto Cecioni? O viceversa, un protagonista del Rosso e il Nero con un bel nome fantastico come Luke Skywalker?

    In genere, quando la storia tende a diventare simbolica, i nomi diventano evocativi, onomatopeici, allusivi. L’elenco telefonico di Londra è pieno di Holmes e Moriarty, ma dubito che contenga più di un paio di Heep e Micawber. Gli investigatori dei gialli classici, all’inglese, sono centauri con i piedi immersi nella realtà e la testa sospesa nella speculazione logica: i loro cognomi sono comuni (Holmes, Wolfe, Vance, Queen, Poirot), i loro nomi sono eccezionali (Sherlock, Nero, Philo, Ellery, Hercule). Invece Maigret, che si cala nell’ambiente e nella psicologia, si chiama banalmente Jules. L’investigatore di Los Angeles o San Francisco, che risolve i suoi “casi” cacciandosi nei guai per smuovere le acque e nel frattempo ha modo di contemplare le tristezze umane, è un cinico sconsolato, con un futuro di solitudine, e inverte la formula canonica: nome comune, cognome altisonante. Philip Marlowe, Sam Spade.

    I nomi non caratterizzano, ma riflettono la misura di quanta realtà e quanta fantasia contenga il personaggio. Se le dosi sono sbagliate, il lettore se ne accorge subito. “La spartizione” di Piero Chiara non sarebbe un piccolo capolavoro se il protagonista non si chiamasse Emerenziano Paronzini. È impossibile trovare nomi diversi per Peppone e don Camillo. La monaca di Monza non sarebbe la stessa se fosse menzionata con tutti i suoi cognomi spagnoleschi. E, viceversa, cos’è venuto in mente a Umberto Eco di scegliere due nomi come Jacopo Belbo e Casaubon? È anche colpa loro se il “Pendolo di Foucault” non ha convinto. Ma non solo: ci sono personaggi che non sopportano nomi ma hanno bisogno di un epiteto, magari elusivo, come “l’innominato”. Ce ne sono altri che non sopportano neanche quello, come il detective de “La maledizione dei Dain” (pietra di paragone dell’hard boiled).  

    Non importa che il nome sia verosimile o improbabile. Importa che sia giusto per quel personaggio in quella vicenda. Quando sentiamo che un nome contiene l’essenza e il destino del personaggio, le corde più gravi della nostra personalità entrano in risonanza, gli archetipi culturali ibernati si risvegliano. E qualcosa ci dice che il romanzo è ben riuscito.

 

                                         La dea Ragione   

 

    Non so esattamente in quale anno, ma credo che fosse il 1794, il popolo di Parigi in piena furia rivoluzionaria invase la cattedrale di Notre Dame e mise una ballerina sull’altare, intendendo con ciò proclamare la fine dei miti e delle superstizioni e l’avvento della Ragione.   

    Si può fare dell’ironia (e magari un po’ di psicanalisi) sulla necessità di usare una showgirl per un compito di questo genere. Ci si può scorgere una oscura prefigurazione di come sarebbe andata a finire (a puttane o a Waterloo, fate un po’ voi). Fatto sta che l’evento quasi folcloristico di Notre Dame celebrava un’idea che da almeno cinquant’anni si era fatta strada nell’opinione pubblica, e cioè che l’unico metro di giudizio serio sia quello della ragione e tutto il resto sia superstizione e oscurantismo. Era un’idea sbocciata fra gli intellettuali, stufi di porre a nobili e preti domande che ricevevano come unica risposta: è così, punto e basta.

    C’erano voluti una cinquantina d’anni, e cioè un paio di generazioni, perché l’idea arrivasse fino al popolo; e quando ci arrivò trovò un terreno fertile ma paradossale: la fede nella Ragione, nata dagli spiriti eletti, si affermava fra gli avventurieri e i pessimi elementi. Prosperava sull’ignoranza e sulle carestie, fra i teppisti e le tricoteuses, e aveva successo perché la gente intuiva che la Ragione toglieva legittimità ai potenti, ma non capiva che ammazzare i nobili non avrebbe reso ricchi i miserabili. Cosa c’era di ragionevole nel tagliare due o trecentomila teste? Più che una rivoluzione era una reazione, un violento contraccolpo contro la boria e la cecità di una classe incapace di giustificare i suoi privilegi.

    Ma era fatta. La prima spallata aveva tolto la corona dalla testa di Luigi XVI (e la sua testa dalle spalle). Un’altra cinquantina d’anni, e nel 1848 la Ragione avrebbe fatto crollare il feudalesimo nel resto d’Europa. Nel frattempo si inventavano la macchina a vapore e il telaio meccanico, la medicina si distaccava dall’alchimia, nascevano la scienza, il materialismo, il positivismo. La Ragione illuminava Volta, Darwin e Pasteur. La Ragione sconfiggeva le malattie, rischiarava la notte, muoveva carrozze e aratri senza buoi e cavalli, faceva volare mongolfiere e aeroplani. Che c’era di meglio della Ragione? 

    Mah. Forse qualcosa non restava al passo. Certe istituzioni, come la famiglia, cominciavano a disgregarsi. Non sarebbe stato un gran problema se ci fossero state istituzioni alternative altrettanto valide, che invece non c’erano. Altre istituzioni, come le oligarchie, le monarchie, gli imperi, erano sempre più in crisi. La politica non riuscì a evitare il più cruento e il più immotivato dei conflitti. Dall’agosto 1914 al maggio 1945 si può dire che in Europa non ci fu pace. Dov’era andata a finire la Ragione?

    Molti pensavano che si fosse radicata in Russia, dove si cercava di raggiungere un sistema sociale razionale, che non badasse tanto all’accumulo della ricchezza privata quanto all’uguaglianza. Era un modello che prometteva, attraverso la Ragione, libertà (dal bisogno), uguaglianza (e fine della lotta di classe), fraternità (e cioè solidarietà). Ma molti altri pensavano che quel modello non manteneva le promesse e invece della libertà portava dittatura, che al predominio dei ricchi sostituiva quello dei potenti, che strumentalizzava la solidarietà a fini imperialisti. Chi aveva ragione? (Ragione!). La Storia ha un modo tutto suo per rispondere a questo tipo di domande: le supera.

    Oggi la questione non si pone più in quei termini. Oggi si riaffacciano alla Storia culture che non hanno elaborato la separazione fra religione e politica, che considerano la laicità una bestemmia e che sottomettono la Ragione a una Rivelazione. Possiamo indignarci, ricordare che posizioni intellettuali simili non avevano più corso in Europa già alla fine del Medioevo. Ma a che serve? Se gli altri hanno ancora molta strada da percorrere, forse noi abbiamo tralasciato qualcosa di importante.

    Abbiamo allungato la durata della vita, ma è come se avessimo fatto di tutto per toglierle senso. La ricerca della felicità ha finito per coincidere con la ricerca del piacere, e abbiamo scoperto che i piaceri ripetuti perdono di intensità. Ci siamo accorti che la vita non è affatto felice e qualcuno comincia a essere sfiorato dal dubbio che sarebbe molto più sopportabile se avesse un senso e uno scopo.

    Ma per questa istanza la Dea Ragione non ha risposte valide. È indispensabile per il progresso scientifico e tecnologico. È efficientissima quando si tratta di distruggere le incrostazioni culturali, le superstizioni, le credenze immotivate. Ma non serve a niente quando vogliamo sapere che stiamo al mondo a fare. Forse da duecento anni abbiamo trascurato altri valori, ci siamo inebriati di progresso, abbiamo ammirato la complessità di un meccanismo dimenticando di chiederci a che serve.

    Saremo capaci di tornare a porci certe domande? Riusciremo a trovare una risposta che non ci costringa a buttar via le conquiste della Ragione? Tutto dipende dal nostro atteggiamento, dalla nostra elasticità mentale, dalla nostra onestà intellettuale.    

                                      

 

                                      Chi è Merlin Cocai?

 

    Alcuni amici mi hanno fatto presente che nessuno è tenuto a sapere chi o che cosa diavolo sia Merlin Cocai. In effetti, il silenzio da parte mia era un mezzuccio per suscitare un po’ di curiosità, ma a questo punto mi sembra ora di uscire allo scoperto.

    Merlin Cocai fu lo pseudonimo di Teofilo Folengo, l’inventore del latino maccheronico. Per questo mi sono permesso di mettere come sottotitolo una traduzione maccheronica della sentenza di Giovenale “Castigat ridendo mores”.

    Date un’occhiata ai primi versi dal libro I del Baldus, il capolavoro di Merlin Cocai. (Leggendoli vi stuferete quasi subito, ma non perdetevi i primi quattro e gli ultimi undici!)

 

            

 

                  La Storia non si ripete mai, ma ogni tanto balbetta                                               

                       

    Nel “Tramonto degli oracoli”, un dialogo piuttosto noiosetto composto intorno all’anno 100 d.C., Plutarco racconta una leggenda metropolitana. La riporto anche se è ben nota, perché illustra bene gli sbandamenti della coscienza collettiva quando le certezze che per secoli e secoli erano apparse indubitabili perdono il loro appeal.

    Il dialogo si svolge a Delfi, fra parecchi interlocutori. Quando prende la parola un certo Filippo, qualificato come storico, ma del quale non viene specificata neanche la città di provenienza, il dialogo si tinge dei colori di un crepuscolo cosmico.

 

    “Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, figlio di Epiterse mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l’Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera, quando già si trovavano presso le Echinadi, il vento cadde di colpo e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxos. (si tratta di isole ioniche a sud di Corfù) Quasi tutti i passeggeri erano svegli e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo.

    All’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxos come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti ne furono stupiti. Questo Tamo era un pilota egiziano ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell’uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose e allora quello, con tono più alto, disse: “Quando sarai a Palode (un porto dell’Epiro), annuncia che il grande Pan è morto.”

    A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi e si domandavano se fosse meglio eseguire l’ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infine arrivarono a Palode, non un soffio di vento, non un’onda. Allora Tamo, in piedi sulla poppa, guardò verso terra e gridò: “Il grande Pan è morto”. Non aveva quasi finito di dirlo che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di molte, pieno di stupore.

    In tanti avevano assistito al fatto e ben presto la notizia si sparse per Roma. L’imperatore Tiberio mandò a chiamare Tamo e trovò credibile il racconto del marinaio al punto che volle informarsi e fare indagini su questo Pan: i filologi di corte congetturarono che fosse il figlio di Ermes e di Penelope.”

    Molti dei presenti confermarono il racconto di Filippo, che avevano già sentito narrare dal vecchio Emiliano.

 

    Ai tempi di Plutarco l’affievolirsi della fede negli dei dell’Olimpo fece sì che a Roma diventasse di moda il culto di Iside. Oggi il cristianesimo subisce la concorrenza di buddismo e induismo, folle assetate di mistero passano la notte del 21 giugno a Stonehenge e milioni di delusi dalle religioni tradizionali nuotano nel mare magnum della new age.

    Posso azzardare un’opinione personale? Secondo me, il paganesimo fu messo in crisi innanzitutto dallo svilupparsi dei commerci. Finchè i viaggi in oriente erano rari, i resoconti di fatti meravigliosi erano accettati e rubricati come stranezze. Ma la pace imperiale, basata sull’afflusso del grano egiziano, metteva quotidianamente greci e romani a contatto con le credenze magiche egiziane, siriane, caldee, e per tutto l’impero era un continuo rincorrersi di racconti esotici, resoconti di prodigi, portenti e profezie. Era la globalizzazione delle bufale. Un romanzo come l’Asino d’oro di Apuleio non sarebbe stato neanche pensabile ai tempi di Platone o di Quinto Fabio Massimo, ma quando Pompeo liberò le rotte mediterranee dai pirati tutto il ciarpame della superstizione orientale si riversò sulla Grecia e su Roma.

    Prendiamo il racconto di Plutarco: niente vieta che sia tutto vero, ma tanto per cominciare è riferito di seconda o terza mano. La voce nella notte potrebbe non aver detto “Pan il grande” (Pan o mégas) ma il nome di un uomo originario di Palode che per caso era morto a Paxos. Un nome come Panurgos, Panfilos, o simili. Era buio, la voce veniva dalla costa e non era certo chiara e distinta. A bordo tutti si domandavano: “Cos’ha detto? Chi è morto?”. Qualcuno aveva interpretato le parole come “Pan il grande” e la suggestione collettiva aveva persuaso tutti.

    Quanto al resto, nessuno a bordo conosceva Tamo? Ma la voce che veniva da terra era probabilmente di un pescatore di Paxos, uno che poteva benissimo conoscere Tamo e la nave su cui prestava servizio. Infatti dava per scontato che andasse a Palode. E lì la bonaccia, un fatto del tutto casuale che si era già verificato appunto davanti a Paxos, viene presentata come un segno del Fato. 

    Non c’è niente di straordinario. Tutto è normale, logico, pedestre. Ma quando si apre la porta al meraviglioso, le spiegazioni razionali lasciano sempre insoddisfatti. Se la cultura greco-romana avesse trovato una risposta globale contro l’arrembaggio della superstizione forse si sarebbe salvata. Ma avrebbe dovuto rivoluzionarsi e presentare nuove dottrine teologiche, nuovi orizzonti sociali, nuove promesse escatologiche. Il cristianesimo impiegò un paio di secoli per elaborarle. Il paganesimo cercò di metabolizzare il bombardamento di tante novità esotiche e non ci riuscì. Gliene mancò il tempo.

    Oggi, la rivoluzione mediatica ha ottenuto un effetto simile a quello dei commerci in epoca imperiale: le notizie si diffondono con impressionante rapidità ma con scarso approfondimento. In Peru, per fini politici, si inventa una festa del sole e la si gabella come una restaurazione degli antichi riti precolombiani? Immediatamente le immagini rimbalzano in Europa. Davanti alle immagini di un attore addobbato con quel che ci si immagina che fossero i paramenti di un sacerdote inca, la parrucchiera di Pizzighettone si domanda: “Ma avrà ragione lui o il Papa?”. Angosciosa domanda, che rivolge anche alla comare che fa le carte, che torna a inquietarla quando in tv passa un documentario sui monaci tibetani o sui fachiri indù, e quando sul giornale compare la notizia del suicidio collettivo degli svizzero-canadesi convinti, non di morire, ma di trasferirsi su un altro pianeta (dove, naturalmente, si sta cento volte meglio di quaggiù). Eccetera eccetera.

    Qualunque cosa risulta più affascinante di una cultura che ci incombe sulla testa da secoli e secoli, e della quale la parrucchiera di Pizzighettone (ma anche i più raffinati pensatori) ha fatto indigestione. Perché da questo punto di vista (dal punto di vista della sazietà per le certezze troppo proclamate e troppo poco vissute) il racconto di Plutarco vale quanto la sconvolgente battuta che Nietzsche mette in bocca al suo Zarathustra quasi diciotto secoli più tardi: “Ma come? Questo vecchio non sa che dio è morto?”

    La gente non vuole più credere per paura delle fiamme dell’inferno. Vorrebbe capire. Non è diventata atea e forse nemmeno agnostica, ma ha smesso di partecipare. Non chiederebbe di meglio che essere convinta ma, nello stato d’animo in cui si trova, le sirene dell’irrazionalismo suonano più suggestive della cultura e del buon senso. Da un lato, l’ateismo militante toglie ogni speranza. Dall’altro, Sillabo, Catechismo e Dogmi, con la loro marmorea rigidità, hanno ingessato il sentimento religioso in una meccanica ripetizione di gesti e parole. Quella che doveva essere la vittoria in una lotta personale che dura tutta la vita si è cristallizzata in superstizione. E dopo secoli di prevalenza delle liturgie sulla sostanza, tanto la parrucchiera che il raffinato intellettuale, quando vengono a contatto con altre superstizioni, si domandano che differenza c’è. Perché non provarci? Magari funziona.

    La società affonda nel pensiero debole perché i pensieri forti sono diventati troppo forti, anzi: prepotenti. Dalle loro posizioni di monopolio hanno preteso di plasmare l’opinione pubblica secondo modelli rigidi e astratti. Hanno avuto paura di permettere e incoraggiare percorsi anche faticosi ma gratificanti e personalizzati, ai quali ciascuno potesse aderire esaltando il suo specifico contributo, senza essere costretto a rinnegare il suo modo di essere. Invece di concentrarsi sui principi fondamentali, hanno legiferato su tutto, anche sulle inezie. Hanno minacciato pene apocalittiche per chi disobbediva anche alle disposizioni più assurde, che prima o poi venivano lasciate cadere o abrogate. In questo modo, oltre a dimostrare una sconcertante miopia, hanno sperperato gran parte della loro legittimazione. 

    Così non si può andare avanti. Urgono risposte che non siano semplici riaffermazioni, ma ripensamenti profondi.

 

 

                                              I disguidati

 

    Oltre ai dietrologi (di cui ho parlato nel post del 14 settembre), la realtà contemporanea presenta almeno altre due sfaccettature singolari: i “disguidati” e i “flagellanti”. Dei flagellanti parlerò in una prossima puntata. Oggi vorrei intrattenervi sui disguidati.

    Chi sono costoro? Quelli che hanno consumato la vita rincorrendo un sogno impossibile, poi tutt’a un tratto si trovano di fronte al fallimento e non ci vogliono credere. Non classificateli nella categoria degli “ultimi romantici”: non lo sono affatto. Sono rancorosi, permalosi, vendicativi. Non vogliono ammettere di avere preso fischi per fiaschi: è la realtà che ha sbagliato, mica loro. Ormai non cercano più la realizzazione di un (bel) sogno, ma solo una rivincita (possibilmente cruenta e da ottenersi con qualunque mezzo). Però se glielo fate notare si incazzano.

    Il brano che segue fa parte del fantomatico romanzo di cui vi ho parlato e può darsi che contenga qualche riferimento poco comprensibile. Vi do la mia parola che in quei riferimenti non c’è niente di rilevante ai fini dell’episodio. Il protagonista si trova in uno stato mentale alterato: ha dei vuoti di memoria e ricorda a sprazzi. Si è perso in una zona semidesertica della Sierra de Guadarrama, ha incontrato un accampamento di gitani che l’hanno rifocillato. Gli torna in mente un episodio successo due mesi prima.       

 

    Robert voleva diventare qualcuno. Voleva far soldi, e tanti, per mandare tutti a quel paese, per essere libero. Era il suo chiodo fisso. La società era ingiusta e lui non riusciva a sopportarla. Sapeva di non poterla abbattere e tantomeno di costruirne un’altra, ma questo non gli imponeva di rivedere le sue idee: ci era troppo affezionato. E poi si sentiva abbastanza forte per sfruttare le contraddizioni di quella società che disprezzava.

    Cominciò a comprare e vendere appartamenti. Gli andò bene e passò a interi stabili da ristrutturare. Poi gli capitò di mettere le mani su un prodotto con una bella quota di mercato. Si convinse che valeva la pena di prenderci dei rischi e venne a cercarmi. Mi spiegò come pensava di sviluppare l’attività: macchinari, stabilimenti, rete commerciale, finanziamenti. Era un accidente di progetto.

    “Dovrai lavorare venticinque ore al giorno” gli dissi.

    “Lo so. Per questo te ne parlo. Ho bisogno di qualcuno di cui fidarmi a occhi chiusi. Potresti essere tu. Ti do un’opzione fino al dieci per cento del capitale.”

    Dovetti dirgli di no. Ero sicuro che avrebbe sfondato e mi dispiaceva buttar via una occasione, ma lo studio andava a gonfie vele e non mi lasciava tempo per altre avventure. Non mi rendevo conto di una cosa che in seguito avrebbe cominciato a pesarmi sulla coscienza: senza le entrature di Alberico non avrei battuto chiodo; senza Nicchia, Alberico non si sarebbe occupato di me. La contropartita del mio successo era un debito impossibile da saldare; mentre, se avessi collaborato con Robert, sarebbe stato lui a essere in debito con me. Ma io credevo solo in me stesso. Volevo farmi strada usando gli altri senza farmi usare. Quello era il mio obbiettivo primario, e pensavo che una volta affermato avrei potuto ricuperare anche gli obbiettivi secondari. Si ragiona così, da giovani, quando si guarda il futuro e non si vede il fondo.   

    Le persone, quando le perdi di vista, è come se restassero depositate in una cella frigorifera. Quando poi te le ritrovi davanti all’improvviso, non sono più quelle. Sono cambiate loro; sei cambiato tu; chi lo sa? Robert l’ho rivisto a Losanna due mesi fa. Non so come ci sono capitato. A dir la verità, non sapevo neanche dove andavo. C’era stata l’eclissi e il tempo si era fermato. Il mondo si era bloccato su un fotogramma e io vedevo e ascoltavo, ma nessuno parlava con me. Erano morti tutti. Almeno, così pareva. Poi il fotogramma cambiò: ero a Losanna, in un bar-ristorante che aveva per insegna un cinque di cuori. Questo lo ricordo bene. Ricordo l’insegna, la strada, il lago. Robert era là, solo, seduto davanti a una bottiglia. Alzò gli occhi. Mi riconobbe, ma senza sorridere. Con un gesto della mano mi invitò a sedere.

    “Prendi un bicchiere, avvocato. Alla tua salute. Tu hai capito tutto.”

    Bevemmo in silenzio. Poi lui mise giù il bicchiere e tornò a fissarmi.

    “Quando penso a te un po’ ti mando a quel paese, un po’ mi dico che avevi ragione. Merde! L’azienda fa profitti. Un ragioniere direbbe che è un successo. E invece è al capolinea. Non ci sono più margini per espandersi, non vale la pena di fare investimenti. C’è solo da tirare i remi in barca, fare cabotaggio, sopravvivere.” 

    “E tu diversifica. Entra in un altro mercato.”

    Scosse la testa.

    “Non ce la faccio più. Ci vorrebbe la grinta di un giovane. Ma in una azienda senza prospettive vengono solo gli smidollati, quelli che lavorano per lo stipendio.”

    “E allora vendila e goditi la vita.”

    Aggrottò le sopracciglia.

    “Vendere? A chi? I concorrenti stanno appollaiati su un ramo, come avvoltoi. Aspettano. Perché spendere soldi per comperare una mela che cadrà da sola, un giorno o l’altro?” 

    Era lui, Robert, che era arrivato al capolinea. Aveva passato la parte migliore della vita correndo ventre a terra, rincorrendo un falso scopo. Quando si era fermato e aveva alzato la testa si era reso conto di non avere più obbiettivi.

    “Ma se tutto fosse andato come volevi tu, cosa ci sarebbe di diverso?”

    “Che domande! Sarei libero.”

    “Ah davvero? Supponi di essere a capo di una azienda in espansione. Ogni anno raddoppi il fatturato, ti quoti in Borsa, apri filiali in tutto il mondo. E allora? Pensi di essere libero? Quando mai hai trovato il tempo per godere i tuoi successi? Un’impresa è un moloch che ti assorbe tutto, ti prosciuga fino all’ultima goccia.”

    I suoi occhi erano finestre buie, specchi senza espressione. Non rispose. Alzò le spalle. Aveva ancora gli occhi sognanti. Provai a insistere.

    “Robert, le scelte sono libere finché non le fai. Ma una decisione, una volta presa, è come un muro. Tu l’hai costruito e tu proibisci a te stesso di passare di lì.”

    Lui si versò un altro bicchiere e chinò la testa. Bevve, e tornò a guardarmi. Adesso aveva gli occhi pieni di collera.

    “Sei sempre quello di allora. Piovi qui, gonfio del tuo successo di leccaculo internazionale, e ridi di me.”

    “Non rido affatto, e non ho proprio niente di cui essere gonfio.”

    Non mi fece caso.

    “Perché ti ho fatto bere alla mia bottiglia? Non hai voluto berci allora. Vuoi sentirti dire che avevi ragione tu? OK, avevi ragione. Congratulazioni. Adesso te ne puoi andare.”

    “Robert…”

    “Fuori dai coglioni!”

                                                         ***

    La fiamma non c’è più: il fuoco è diventato cenere e braci. Le vecchie dormono. Gli uomini sono spariti. La gitana si volta verso Giorgio.

    “Il tuo amico gode a compatirsi.”

    “È vero. Ma non posso neanche dargli tutti i torti.”

    “E pensi di poter salvare capra e cavoli?”

    Giorgio fissa la gitana senza dire una parola. È lei che torna a domandare.    

    “Poi cos’è successo?”

    “Me ne sono andato. Mi sentivo colpevole di non sapere cos’altro avrei potuto fare. Non lo so neanche adesso.”

    Giorgio guarda a terra e non sa cosa pensare. 

 

                                                  SLMPDS

 

    Una volta tanto, una recensione. Magari un po’ sui generis, perché non è un panegirico ma neanche una stroncatura. E poi perché non c’è neanche una parola sullo stile, sicuramente molto personale dell’autrice. Forse un po’ troppo sul genere Fallaci, anche se di segno opposto.

    Il fatto è che l’argomento annichila ogni altra considerazione. E non è la guerra, come potrebbe parere di primo acchito: l’argomento è l’odio, e fa paura.   

    L’acrostico SLMPDS si riferisce al titolo di un libro che l’autrice, Babsi Jones, definisce a ragione un “quasiromanzo” e significa Sappiano le mie parole di sangue. L’editore è Rizzoli.

    Il giorno ufficiale di uscita nelle librerie era il 12 settembre. Per non rischiare i soliti non è ancora arrivato, non so, non c’è nel computer e simili, ho aspettato una ventina di giorni, poi sono andato alla Feltrinelli di Piazza Piemonte. Ho trovato due copie sepolte in mezzo ai libri di catalogo, messi in ordine alfabetico. Immagino che sul banco delle novità l’abbiano lasciato per un giorno al massimo. Ma forse non ce l’hanno mai messo. Scarso supporto di Rizzoli? Ostruzionismo di Feltrinelli? Semplice trascuratezza dei commessi? Non lo so e mi sembra inutile indagare: del resto, pare che anche Gomorra, il best seller di Saviano, sia partito in sordina. Il successo di un libro lo fanno i lettori, mossi da circostanze imprevedibili.

    Come se non bastasse, Babsi si è messa di proposito in una situazione impervia. Il libro racconta le ultime guerre balcaniche viste dalla parte della Serbia, cioè dalla parte perdente, che più perdente non si può. Chi ha vissuto quel periodo leggendo i giornali e guardando la tv qui in Italia, ricorderà che la Serbia era riuscita a mettersi contro proprio tutti: croati, albanesi, musulmani di Bosnia (e quindi anche turchi, arabi, ceceni), fino all’intervento internazionale (nel quale, come al solito, ognuno ha fatto in primo luogo gli interessacci suoi) e tutto questo proprio nel momento in cui il suo unico tradizionale alleato, la Russia, non era in grado di aiutare nessuno. Insomma: ricordo di essermi domandato, all’epoca, come diavolo era saltato in testa a Milosevic di trascinare il suo popolo in un’avventura così balorda.

    Diciamola tutta: Milosevic ci ha messo del suo, ma anche gli altri tiravano al precipizio. La realtà è che fin dall’800 quella zona d’Europa era chiamata “la polveriera dei Balcani”, che serbi e croati si sono sempre guardati in cagnesco, che il Regno di Jugoslavia sotto i Karageorgevic ebbe vita travagliata, che la seconda guerra mondiale approfondì le divisioni etniche, che Tito tenne fermo il tappo con tutte e due le mani ma non cambiò la sostanza delle cose, e infine, quando l’Urss implose, i Balcani tornarono come prima. Come sempre.   

    E cioè tornò a scatenarsi l’odio. Babsi racconta la sua scelta di campo e la giustifica con gli orrori e gli inganni perpetrati dai nemici (come succede in tutte le guerre), racconta la logica della vendetta (“ha cominciato prima lui”), l’odio puro e inestinguibile di chi si schiera, ne paga le conseguenze, e non pensa, non può pensare, che le stesse cose succedono anche sul fronte opposto, con la stessa pretesa giustificazione.

    Sono cose che noi non riusciamo neanche a concepire: siamo fortunati, fortunatissimi, e non ce ne rendiamo conti. Perché nei nostri giorni di noia e di routine, casa, ufficio, tivù, letto, non possiamo farci neanche una lontana idea di che cos’è la guerra. Per quanto ci si sforzi, non è possibile immaginare cosa significhi l’improvvisa, totale, assoluta abolizione di ogni regola. Ci sembra la scena di un film se all’improvviso degli uomini ti entrano in casa, rubano, sfasciano ogni cosa, violentano te, tua moglie, i tuoi figli, ti uccidono con un colpo in testa, se sono misericordiosi, se no con un coltello. E, come se non bastasse, hanno ragione loro perché sono dalla parte del più forte, perché tu sei un nemico, perché i padri dei tuoi padri erano nemici, oppure senza un perché: tanto, non ne hanno bisogno. Guerra significa che chi ha da quindici a sessant’anni e un mitra in mano vive finché spara per primo. Mentre chi è troppo giovane o troppo vecchio può solo sperare che il fronte stia da un’altra parte, altrimenti deve raccogliere quattro carabattole e andare a fare il profugo chissadove, a crepare di fame, di freddo, di sporcizia.

    Questa realtà, questo ritorno allo stato bestiale imposto dalla guerra, ce lo ricorda Babsi Jones con un libro che solo apparentemente è strutturato come un reportage. In realtà è il romanzo di una donna che ha fatto una scelta per motivi forse più emotivi che razionali e che dopo una stagione all’inferno non ha più voglia di capire, ma solo di combattere: anche lei è stata contagiata dall’odio, il morbo dei Balcani.   

    Eppure, in esergo all’ultimo capitolo, Babsi mette la famosa stroncatura di Voltaire all’Amleto. Ed è come se anche lei, in capo a duecentocinquanta pagine grondanti odio puro, cercasse di ammettere, a denti stretti e nel modo più obliquo possibile, che niente su questa terra ha un solo volto: perfino un capolavoro come l’Amleto può essere stroncato, e non da un ignorante ma da Voltaire. Ogni cosa ha due facce e tutte e due sono vere. Ci sono circostanze in cui l’odio può servire per sopravvivere. In guerra non se ne può fare a meno, eppure l’odio non è l’unica faccia della realtà. Non è la migliore, non porta a niente di risolutivo, tende a perpetuarsi in una spirale verso il basso. La realtà non può essere odio. Altrimenti vendetta chiama vendetta, e la guerra diventa faida.     

 

                                     Fantasmi del passato

 

    Una delle cose che più mi stupiscono e che non riesco a spiegarmi fino in fondo è la persistenza delle cosiddette “idee perdenti”. Lasciatemi citare un paio di esempi.

    Il fascismo crolla di fatto il 25 luglio 1943, sopravvive in rianimazione per venti mesi e defunge il 28 aprile 1945. Eppure qualche anno dopo rinasce, si chiude nel ghetto della nostalgia, e resiste per cinquant’anni prima di passare le acque a Fiuggi e convertirsi alla democrazia. Be’: da quando si rigenera come una specie di partito conservatore (e cioè l’esatto contrario del fascismo storico, che pretendeva di essere una rivoluzione), alla sua destra sono rinati partiti e partitini che propugnano il fascismo puro e duro.

    All’estremo opposto, il comunismo è in debito di ossigeno fin dal 1961, quando è costretto a costruire un muro non per impedire agli altri di entrare ma per impedire ai suoi di scappare. Trent’anni dopo, Gorbaciov porta i libri in tribunale, l’URSS implode e l’impero collassa. Ma in Italia il PCI impiega anni a elaborare la fuoruscita ideologica. Nessuno vuole riconoscere di aver commesso il benché minimo errore. Al primo timidissimo tentativo di accostata alla socialdemocrazia rinascono prima uno, poi due partiti comunisti che, almeno dal punto di vista elettorale, campano sulla nostalgia.          

    Insomma, la società va avanti con la testa rivolta all’indietro. La sindrome è arrivata al punto che, qualche tempo fa, a “Otto e mezzo”, un ex comunista convertito e una ex comunista rifondatrice hanno intervistato un giornalista ex missino che ha scritto un pamphlet per rimproverare ai suoi ex camerati di aver dimenticato il patrimonio ideale del fascismo. Nella mia beata ingenuità ne ho ricavato la sensazione che l’unica cosa da fare fosse mandarli a quel paese tutti e tre. Fino a quando dovremo andare avanti a discutere dei patrimoni ideali di sistemi condannati dalla Storia? Non sarebbe ora di pensare a costruire dei patrimoni nuovi, visto che quelli vecchi sono morti e sepolti?

    Macché. A questo mondo le cose non funzionano così. Per fare tacere le ideologie sconfitte ci vogliono secoli e nuove tragedie. Volete qualche esempio? Gli odii seminati da Mario e Silla avvelenano duecento anni di storia romana, fino a Ottaviano che seppellirà la repubblica. Tutto il medioevo è una rincorsa alle (false) legittimazioni del passato: Impero e Chiesa, aquile romane e donatio Costantini. Nel 1492 si arrende il califfo di Granada, ma ancora sotto Filippo II scoppiano rivolte dei musulmani rimasti nelle Alpujarras e sono anni e anni di guerriglia. Fra i partigiani degli Stuart in esilio nascono le logge massoniche di rito scozzese, mentre i tentativi di insurrezione finiscono nel disastro di Culloden (1746). In Francia, in epoca repubblicana, da un lato si organizzano i camelots du roy e dall’altro i bonapartisti non si danno pace finché non mettono sul trono Napoleone III (con il bel risultato del 1870). A novant’anni dalla sua morte, in Austria e non solo, Francesco Giuseppe è più popolare di quando era in vita. I Paesi Baschi non sono mai stati indipendenti neanche ai tempi del Regno di Navarra, eppure la ETA riesce ad avere un certo appoggio popolare, tanto minoritario quanto irriducibile.

    Mi fermo qui, ma potrei andare avanti fino a domani mattina. Veniamo al nocciolo: non c’è causa persa che non trovi partigiani irriducibili. Ma, ammesso e non concesso che esista una causa “giusta” al 100%, se viene assodata l’assoluta impossibilità di tradurla in atto, che senso ha insisterci fino al punto di uccidere nemici e innocenti o di sacrificare la propria vita? Chi sogna la restaurazione di questo o di quello non si aggrappi alla logica o alla morale per giustificare il suo attaccamento a scelte perdenti. Piuttosto si assuma la sua responsabilità.

    Perché la ragione, quando viene declinata in logica, in morale o in diritto, per non parlare della politica, arriva a distorcere il senso delle cose. Poco tempo fa, il Papa ha ribadito una vecchia tesi della Chiesa cattolica: il profitto è cosa lecita purché non ecceda una giusta misura, rimanga un mezzo e non diventi uno scopo. Emanuele Severino, il maggior filosofo vivente (con buona pace di chi non è d’accordo), ha scritto un articolo sul Corriere per dimostrare che, in fil di logica, se si chiede al capitalismo di mutare il suo scopo (e cioè di perseguire il profitto in quanto tale) gli si chiede di non essere più se stesso (e dunque il profitto non può essere definito cosa lecita).

    Un economista potrebbe obiettargli che il profitto non è fine a se stesso perché serve alla formazione del risparmio e quindi agli investimenti. Ma Severino insisterebbe: gli investimenti hanno lo scopo di produrre altro profitto. Allora l’economista potrebbe spiegargli che gli equilibri economici seguono una logica di breve periodo (nel lungo periodo, diceva Keynes, siamo tutti morti). Ma Severino replicherebbe che la logica sempre logica è, nel breve e nel lungo periodo. A questo punto l’economista gli offrirebbe un caffè e si metterebbe a parlare di calcio.  

    Ciò che mi lascia perplesso nel discorso di Severino è la fede (e sottolineo: fede) nella capacità della ragione di arrivare a conclusioni di valore assoluto. La sua argomentazione è logicamente inattaccabile, eppure lo vede anche lui che nella realtà delle cose il discorso di Benedetto XVI è molto più di buon senso. I filosofi, così come i nostalgici delle cause condannate dalla Storia, arrivano a sostenere le loro tesi in base a ragionamenti dalla logica irreprensibile (e infatti i nostalgici di tutti gli “ismi” sostengono sempre che la loro idea è crollata perché non è stata applicata coerentemente fino in fondo). Ma la Storia non premia né le visioni troppo radicali né le minestre riscaldate.

    La mia speranza è che il terzo millennio riporti la ragione entro termini più umani, che ci consegni una valutazione meno fideistica del suo potere. Spero che l’epistemologia (antipaticissima parolona) riprenda il significato di “dottrina dei limiti della ragione”. Perché anche la ragione ha dei limiti e quando esce dal seminato fa guai. 

 

                        Qualche domanda al professor Mancuso

 

    Vito Mancuso, professore di teologia all’università San Raffaele di Milano, è l’autore di L’anima e il suo destino, edito da Raffaello Cortina, in cui rivisita la dottrina cristiana alla luce delle teorie evoluzioniste richiamandosi esplicitamente alle intuizioni di Teilhard de Chardin. Grazie all’interessamento di Fabrizio Centofanti, animatore del blog collettivo La Poesia e lo Spirito, ho postato cinque domande al professor Mancuso. Queste.

    1) Che fine fa la trascendenza? Può darsi che mi sia sfuggita, ma ho avuto la sensazione che nel testo non si trovi una chiara affermazione della trascendenza di Dio. Potrei forse ricavarla (ma quanto obliquamente!) dalla teoria dell’intervento della Grazia nella trasformazione dell’anima da Spirito a Spirito Santo. (La quale, per inciso, è una teoria che non ricordo di aver mai sentito quando facevo il liceo in un collegio di preti. Vero è che, a quei tempi, Teilhard de Chardin era in odore di eresia).
    Il fatto è che interpretare “tutto” in termini evolutivi può non condurre a Dio, ma a un semplice Demiurgo, a un Sapiente Architetto. Non ho trovato nel testo una parola contro questa ipotesi, che peraltro lei evita di menzionare. Però l’uso ricorrente dell’espressione “Principio Ordinatore” me la riaffacciava alla mente di continuo. Certo, lei non perde occasione per riaffermare la sua fede nei dogmi del Cristianesimo che si possono ricondurre a ragione. Ma questo riguarda la sua coscienza personale; a me interessa il disegno complessivo del Cristianesimo così come esce rimodellato dalle sue tesi.
    2) Non sono riuscito a capire la differenza che lei introduce fra l’anima come vita, come mente e come spirito. Forse sono condizionato dall’imprinting platonico e dalla tripartizione soma, psiche e pneuma; ma, pur sforzandomi di entrare in una prospettiva evoluzionistica, non riesco a vedere il discrimine tra vita e mente (perché collocarlo nell’homo sapiens sapiens e non, per esempio, nell’homo erectus, il Prometeo che, a quanto pare, per primo imparò a usare il fuoco? E perché non nello scimpanzé? Eccetera eccetera). Se la sua visione non prevede un salto di qualità ma una mutazione antropologica (non più notevole di tante altre: la conquista della stazione eretta, la capacità di creare utensili, l’uso del fuoco, ecc.), la collocazione del discrimine non diventa una questione di opinioni? E cosa ne direbbe un uomo di Neanderthal, sarebbe d’accordo nel considerarsi privo di anima mentale?
    Ancora più ostico mi risulta lo spartiacque fra mente e spirito: se lo spirito non trascende la mente, ma è solo una mente più evoluta (come quella di Kant, Hegel, Einstein, …?), perché non aspettarsi che l’evoluzione prosegua e magari abbia in serbo l’avvento del superuomo? Non insisto a sviluppare questa ipotesi, ma lei vede bene dove ci porterebbe.
    3) Il fatto che lei non escluda la possibilità dell’annichilazione delle anime mi rafforza nel convincimento che, nella sua ottica, la distanza fra Anima, Spirito e Dio non sia tale da arrivare alla trascendenza. Annichilire è proprio di chi si considera minacciato da un suo pari. Invece un Dio trascendente che ordina il cosmo in modo che nulla si crei e nulla si distrugga, perché dovrebbe fare un’eccezione alla sua stessa legge?
    E, del resto, se Dio non è trascendente, di quale Grazia si può parlare? E se invece la Grazia è proprio quella di cui si è sempre parlato, come si può fare a meno della trascendenza?
    4) Lei considera assodati i risultati della scienza odierna e su questa base costruisce con la ragione teorie delle quali non esiste riscontro nelle scritture. È vero che dove si parla per allegorie i riscontri sono spesso discutibili, ma alcune delle teorie che lei espone sono, per sua stessa ammissione, inaudite (nel senso che non si trovano neanche accennate nelle scritture). Non che ciò sia filosoficamente illegittimo, ma trattandosi di teologia, come si fa a prescindere dalle scritture?
    5) Non è azzardato fondarsi con tanta sicurezza sulle teorie scientifiche? Non perché siano intrinsecamente false (ci mancherebbe!), ma perché cambiano, cambiano spesso, cambiano continuamente. Certo, l’evoluzione è confermata da migliaia di ritrovamenti paleontologici. Ma ancora si discute se l’orientamento dell’evoluzione dipenda dal caso o dal Principio Ordinatore di cui sopra. Dopo tutto, quando l’inquisizione condannò Galileo, si appoggiava anche su una teoria che all’epoca era considerata scientifica (infatti prevedeva le eclissi con buona approssimazione!). Pretendere di uniformare la scienza alla religione non ha dato buoni risultati. Riformare la religione in base alla scienza dovrebbe darne di migliori?

    Con grande gentilezza, il professor Mancuso ha risposto nel giro di poche ore.

    1) Non capisco come Le sia sfuggita nel mio libro l’affermazione della trascendenza di Dio, che invece è perfettamente affermata mediante la distinzione tra Dio personale (assolutamente trascendente) e Principio Ordinatore (il Logos immanente al mondo). Se c’è una cosa che appare nella teologia sottesa al mio libro è la rigorosa proclamazione della trascendenza del Dio personale, nella linea della classica teologia apofatica, quella, per intenderci, che risale al padre della mistica cristiana, Dionigi Areopagita.
Quanto al rapporto col Dio personale, io affermo che esso si instaura a partire dal nostro essere persona. Non si entra in comunione col Dio personale a partire dalla natura e dalla storia, che sono rette da una logica impersonale (e che sia così basta leggere un giornale o visitare un ospedale per rendersene conto), ma solo tramite la comunione degli esseri umani. Si tratta della capacità di generare lo spirito, che io assegno alla Chiesa quale sua più alta peculiarità.

    2) E’ ovvio che è impossibile (a distanza di centinaia di migliaia di anni) collocare con precisione il discrimine tra vita e mente. Ma ciò non toglie che questa differenza esiste, basta aprire gli occhi per riconoscerla. La vita che compete a una pianta o a un virus non è la medesima che compete a un gatto o a un uomo, anche se l’inizio è identico per tutti. Il dato da accogliere è la progressiva libertà dell’energia dalla materia. All’inizio il puntino cosmico primordiale presentava il seguente stato: Energia = Materia. La comparsa della vita ha segnato una discontinuità, uno stato definibile come Energia > Materia, laddove tale surplus è la ragione della vita. Il surplus è diventato via via maggiore, trovando nell’uomo il suo vertice. Lei obbietta che allora tale evoluzione potrebbe continuare? E’ evidente che sì, non a caso padre Teilhard de Chardin diceva che il destino dell’umanità è di giungere allo stato degli angeli (affermazione che può apparire implausibile se la si considera a breve termine, ma che assume molta più plausibilità se la si pensa sulla scala dei tempi che competono all’evoluzione).

    3) La terza domanda non la ritengo pertinente perché presuppone, come già notato sopra, un misconoscimento di quanto affermo nel mio libro a proposito della trascendenza divina, da me affermata nel modo più intenso. Anzi, ciò che combatto è ogni prospettiva tendente a fare di Dio un attore “umano troppo umano”, che ora interviene ora tace, ora c’è ora non c’è, non si sa con quale logica se non l’arbitrio capriccioso.

    4) Io non prescindo dalla Scrittura. Affermo però che la Scrittura è colma delle più disparate prospettive, anche contraddittorie tra loro. Ognuno vi può pescare ciò che vuole, e infatti non esiste setta o eresia che non abbia i suoi brani scritturistici di riferimento. Senza un’idea superiore, non si interpreta la Scrittura a dovere (profonda verità che la tradizione della Chiesa con i quattro livelli di esegesi ha coltivato da secoli e che ora purtroppo, a causa dell’influsso di un certo protestantesimo, il cattolicesimo contemporaneo ha perduto). La mia idea superiore si chiama Bene – un’idea ovviamente contenuta nella Scrittura ma più ancora maggiormente radicata nella scrittura primordiale da parte di Dio cioè l’essere umano a sua immagine e somiglianza.

    5) Il mio appoggiarmi alle teorie scientifiche contemporanee ricalca tale e quale l’impresa speculativa di Tommaso d’Aquino che fondò tutta la sua teologia sulla scienza e la filosofia (allora una sola cosa) di Aristotele. E tale impresa, contrariamente a quanto Lei scrive, ha dato buoni risultati. Da almeno qualche secolo è apparso chiaro che è tempo di rinnovare l’edificio, visto che la scienza non è più quella aristotelica. Teilhard de Chardin ha compiuto la sua opera in questa prospettiva, e anche il suo lavoro ha dato buoni frutti. Si tratta, umilmente, di proseguire.

   

    Ho ringraziato il professore e non entro in polemica con affermazioni che lascio alla sua responsabilità. Ma non posso fare a meno di pensare che alla trascendenza di Dio dedica un paio di pagine su quasi trecento e nelle altre non ne parla neanche di sfuggita, come se il Dio personale trascendente avesse poco a che fare con un mondo dove opera il Principio Ordinatore.

    Francamente non so se consigliare la lettura di L’anima e il suo destino ai cinque o sei lettori di questo blog. Se siete atei convinti perdereste tempo. Se siete bigotti vi mettereste a rischio di eresia. Finora il professor Mancuso non è stato scomunicato. Gli auguro di non trovarsi di fronte un Bellarmino, ma prevedo grosse difficoltà (e immagino che se le aspetti anche lui). Però questo libro ha il merito indiscutibile di gettare un sasso nello stagno, ed era ora. 

 

                                      

                                       Viva la revolución!

 

    A suo tempo, l’argomento di questo post ha dato origine a una discussione con Missy, al termine della quale ognuno è rimasto della sua idea (ma almeno ci siamo chiariti su un fatto: l’archeologia e la filosofia della Storia vedono le stesse cose in due modi differenti). Ci torno su perché ne sono sempre più convinto.

 

    Dividere la Storia in periodi è un esercizio temerario: basta un minimo di sguardo critico per accorgersi che gli avvenimenti ai quali assegnamo la funzione di spartiacque sono pressocché privi di significato. È poi così importante la deposizione di Romolo Augustolo? Il viaggio di Cristoforo Colombo, che pure ha portato caffè, cacao, patate, tabacco e pomodori, ha cambiato la civiltà? E la stessa Storia, nasce con l’invenzione della scrittura?

    Se proprio non si vuol fare a meno di individuare dei periodi, bisognerebbe almeno scegliere avvenimenti che hanno influenzato i secoli successivi. Io proporrei di confinare nella preistoria tutto ciò che avvenne prima dell’abolizione dei sacrifici umani (il che protrarrebbe la preistoria americana fino al 1492 d.C. e quella delle repubbliche di Amin e di Bokassa fino ai giorni nostri). Quanto alla Storia propriamente detta, la dividerei in un periodo antico e uno moderno: prima e dopo la rivoluzione francese del 1789. Rifiutando di sgozzare Isacco l’umanità uscì da una condizione animalesca. Tagliando la testa a Luigi XVI uscì da una condizione servile.

    Naturalmente continueremmo a parlare di imperi, battaglie, conquistatori, avventurieri, legislatori e riformatori. Ma se la Storia deve servire a marcare le pietre miliari del cammino percorso dall’umanità, non può che evidenziare una fase (lunga, lunghissima) in cui i comportamenti umani furono più istintivi che razionali, una fase successiva in cui i popoli esorcizzarono i loro terrori sottomettendosi a un padrone al quale delegavano il rapporto con il soprannaturale, e infine una terza fase in cui ciascun individuo reclamò la responsabilità di se stesso.

    Ora, a chi guarda la storia in sequenza può sembrare che l’umanità sia in costante progresso. Proiettandola nel futuro qualcuno ha ipotizzato l’avvento del superuomo, qualcun altro una palingenesi sociale. Ma gli sviluppi della realtà sono meno lineari di come appaiono a tavolino. Ciò che chiamiamo progresso (quando non si tratta di riforme largamente condivise) è rivoluzione, lacerazione di un sistema di rapporti, rivolta contro l’autorità costituita, ammutinamento contro i Padri. E non sempre ha successo.

    Le rivoluzioni hanno inizio con una fase distruttiva. Raccolgono consenso finché possono indicare idoli da abbattere, re e imperatori da deporre: padri da uccidere. In questa fase prevale l’assemblearismo e le assemblee sono dominate dall’estremismo in nome della purezza ideologica. Non può essere altrimenti: per commettere un parricidio bisogna essere tutti complici, duri e puri, legati da un patto esplicito.

    Però, una volta abbattuti gli idoli, il problema è costruire l’ordine nuovo e l’assemblearismo non funziona più. Nelle fasi di edificazione serve il carisma del capo: occorre un nuovo padre perché l’ordine nuovo deve essere più imposto che proposto. Ma nessuno può vantare una legittimità come quella del padre che la rivoluzione ha decapitato. Le istituzioni rivoluzionarie non incutono rispetto se non con il terrore. Contemporaneamente, il ricordo del passato suscita nostalgie e alimenta rigurgiti controrivoluzionari. Il rimpianto di una fantomatica età dell’oro si unisce al rimorso del parricidio e genera il senso di colpa.

    Ciò che spesso non si dice è che il rivoluzionario vorrebbe capovolgere il mondo, ma lasciandolo così com’è. In realtà nessuno è più conservatore di chi vuol cambiare tutto. I giacobini tagliarono la testa a Babeuf per non abolire la proprietà privata, i bolscevichi chiamarono Stalin con il nomignolo degli zar: “piccolo padre”. La rivoluzione pretende di rovesciare i rapporti, non di abolirli o di snaturarli. E siccome la legittima difesa sembra un po’ poco per giustificare un parricidio, la rivoluzione deve sbandierare un volto umanitario e progressista anche quando diventa reazionaria e conservatrice. Il rivoluzionario è un moralista.

    Ogni essere umano nel corso della sua esistenza passa per un periodo rivoluzionario. Ogni tappa della vita espande la consapevolezza di essere agli antipodi del padre, ogni passo avanti nel tempo è un riconoscersi uguale e contrario a lui. Ma tagliare i ponti con i padri significa perdere contatto con le convinzioni più profonde. Una volta detronizzati, i padri assurgono a depositari di una scienza perduta, archivi di un mondo delle idee dal quale il rivoluzionario si è autoesiliato. I prezzi dell’indipendenza sono lo smarrimento di una presunta sapienza primordiale e il conseguente senso di colpa. L’insicurezza alimenta il senso di perdita, e la perdita viene sentita come il castigo di una colpa irreparabile. Il rivoluzionario si sente naufrago nell’immensità di un oceano: sulla sua zattera riprogetta il passato per dargli un altro significato, denigra i padri per dare un senso al suo ammutinamento, per esorcizzare la paura della morte. Non si sentirà sicuro finché non avvisterà una terra, quale che sia, l’America o l’isoletta di Pitcairn. Perché soltanto lì, una volta sbarcato, può sperare di ricominciare: farsi padre e origine di una dinastia.

    Ogni rivoluzione tende a fondare un impero simile a quello che ha soppiantato. Ma merovingi, ottomani e molti altri stanno lì a dimostrare che si può anche fondare un impero e non progredire affatto.

 

 

                                                I flagellanti

   

    Ricordate i “dietrologi” e i “disguidati”? Un’altra categoria, che fin dai tempi di Savonarola non ha fatto che danni e ancora oggi non perde occasione per avvelenare la vita al mondo intero, è quella dei flagellanti. Gente assolutamente incapace di gustare i piccoli piaceri della vita senza provare rimorso. La scopata è stata grandiosa? Vergogna: era peccato! Non è stata niente di che? Ti sta bene, così impari a cedere alla concupiscenza! La parmigiana di melanzane era superba e non ho neanche fatto fatica a digerirla? Sta’ in guardia, perché sicuramente c’è in arrivo una punizione tremenda.

    E avanti di questo passo, fra terrori e tremori, mortificandosi e compiacendosi della propria mortificazione.

    I rimedi che i flagellanti mettono in campo per gestire i loro sensi di colpa sono puerili e ipocriti.

    Primo rimedio: quello che oggi si chiama politically correct (ma c’è sempre stato) e, stringi stringi, consiste nel chiamare le cose con un nome diverso. Non cambia niente? Sì, ma per un attimo la coscienza smette di rimordere.

    Secondo rimedio: costringere gli altri a piangere e far penitenza insieme a te. Anche così non cambia niente? Chi se ne frega. L’importante è battere il petto, umiliarsi, recitare il mea culpa. Non serve a nulla, ma per un attimo ci sentiamo “buoni”.

    Il brano che segue è un estratto del solito romanzo in fieri. Chi racconta è sempre Giorgio, il protagonista, che ricupera un episodio dalle nebbie della sua amnesia.

 

    Sandro? Un altro amico. Il creativo di punta in una grande agenzia di pubblicità, richiesto e coccolato da giornalisti, industriali, uomini politici. Ma il successo gli era piovuto fra capo e collo e gli sembrava una rapina. La società gli pareva fondata sull’inganno, sul raggiro, e quando ci pensava si macerava nel senso di colpa. Il suo ritornello era questo: mi danno un’automobile o una lavatrice, io la accoppio a un’immagine desiderabile e scelgo il mezzo più adatto per diffondere il messaggio. Cosa aggiungo al lavoro di chi stringe i bulloni?

    Io gli facevo notare che oggi i bulloni li stringono i robot, e lui ribatteva: e i bulloni dei robot chi li ha stretti? Una volta gli risposi: altri robot. E per poco non finì a cazzotti.

    Fa male al cuore vedere una persona in gamba comportarsi da imbecille. Lui si faceva un punto d’onore di chiamare etnie le razze, operatori scolastici i bidelli, bioparco lo zoo. Sapeva bene che le parole non risolvono i problemi, ma voleva sentirsi giusto, umano e sensibile, e credeva di cavarsela così, a buon mercato. Quando capì che la coerenza esigeva comportamenti, mica chiacchiere, ebbe una crisi profonda. Piantò tutto. Comperò un casale in Provenza e si mise a coltivare uva, ortaggi e lavanda. Se la cavò né meglio né peggio di tanti altri. Commise errori e li riparò. Ebbe i suoi guai e qualche annata buona.

    Ciò che non aveva previsto era la monotonia, e fu quella a provocare la seconda crisi. In quel casale fuori dal mondo gli amici arrivavano, ripartivano e non tornavano più. Con i vicini si poteva solo litigare. I ritmi di lavoro erano imposti dalla stagione e i raccolti dipendevano dalla fortuna. Non c’erano ispirazioni da sviluppare. Non c’era spazio per colpi di genio. Scoprì che l’agricoltura non è un’arcadia, ma un concentrato di fatica, furbizie e meschinità. Scoprì che in campagna il mal di denti viene sempre nei giorni in cui la farmacia è chiusa.

    Quando arrivai davanti al muro di pietra grigia in cima alla collina rigata dai filari di vite, Sandro aprì la porta e sbiancò in faccia. Disse che sembravo un fantasma. Dovevo avere l’aria stravolta. Non sapevo neanche perché ero capitato lì, come conoscevo quell’indirizzo, cosa ero venuto a cercare. Ero sfinito. Credo di aver riposato un po’, in una stanza in penombra. Forse ho fatto una doccia. Non so. Poi cominciai a riavermi, a poco a poco. Scesi una scala che non ricordavo di aver salito. Uscii nel cortile e poi nei campi. Le nubi salivano dall’orizzonte e nel vento c’era una specie di richiamo occidentale, un presentimento di oceano. Fu allora che vidi il falco per la prima volta. Saliva in cielo descrivendo una spirale e lanciava un fischio leggero.  

    Sandro mi venne incontro. Mi porse una pesca appena colta. La morsi come se fosse un frutto sconosciuto ed entrai in una nuova realtà senza scosse, senza discontinuità. Non fu come ritrovare un profumo o un sapore associato a un ricordo. Niente di così letterario. Sbattei le ciglia. Ero lì. Ecco tutto.    

                                                            ***    

    “E tua moglie?”

    “Mah. Credo che sia a Milano.”

    “Quando torna?”

    “Non torna. Mi ha lasciato.”

    Avrei dovuto saperlo? L’avevo dimenticato? Sandro non mi guardava in viso. Teneva gli occhi a terra e parlava con se stesso.

    “Ha fatto tutto in un giorno. Chissà da quanto tempo ci pensava. Sei un bambino viziato, mi ha detto. Fai l’elemosina a ogni accattone che incontri e chiami assassino chi non è vegetariano, ma a te non interessano gli animali e nemmeno gli esseri umani. Tu non sei preoccupato per chi sta peggio: semplicemente, paghi per sentirti buono, per far tacere la tua maledetta coscienza. Fra te e un avaro, mi ha detto, il più egoista sei tu.”

    “Ma dai… Sarà stato un momento di esasperazione… Una sfuriata… Sono cose che capitano.”

    “Era lucidissima. E aveva ragione. Almeno un po’. Più di quanta ne avessi io. Me ne sono reso conto quando ho capito che non sarebbe tornata.”

    Il risultato dei suoi ripensamenti ci aspettava a tavola e si chiamava Samiya: una donna magrebina abbandonata dal marito. Con spudorata sincerità, dichiarava che Sandro era la soluzione di tutti i suoi problemi perché cancellava il suo passato e le assicurava un avanzamento sociale. Lui la ascoltava, le sorrideva come se lei gli avesse detto “Ti amo”, e metteva in mostra una specie di allegra disperazione. Recitava la parte del peccatore che sconta con gioia la sua penitenza e aveva negli occhi una aspettativa ansiosa. Voleva sentirsi dire “Ego te absolvo”. Avrebbe fatto altrettanto con chiunque fosse capitato a casa sua: tutti angeli del Signore, mandati lì per comprenderlo e perdonarlo.

 

                                    Un problema minore

 

    Sarà anche un problema minore, non dico di no, ma mi fa incazzare lo stesso. Sono uno dei non moltissimi che pagano religiosamente il canone Rai e (salvo praticare lo zapping) subiscono con cristiana rassegnazione le dosi di pubblicità inflitte dalle Tv pubbliche e private. Ebbene: perché devo essere costretto a sopportare anche l’ignoranza crassa e supina (quando non la colpevole disinformazione) dei giornalisti che, in contanti o tramite spot, IO PAGO ?

    Vogliamo partire dalle cose più infime? Ci avete fatto caso che, se volete sapere l’esatta pronuncia di un nome straniero, a tutto dovete fare riferimento tranne a come lo dicono in televisione? Secondo me, lo fanno apposta: chi per stupire, chi per corriva acquiescenza. Il risultato è che chi conosce la pronuncia esatta si irrita, chi non la conosce ne impara una sbagliata.

    Non sto a perdere tempo con quel giullare di Emilio Fede che storpia le pronunce volutamente per far sobbalzare sulla poltrona il telespettatore (tanto, la sua attendibilità non può scendere oltre i minimi storici ai quali è già pervenuta). Ma perché un certo Auro Bulbarelli, che a spese mie e vostre viaggia per l’Europa al seguito delle gare ciclistiche, si ostina a pronunciare San Sebbàstian secondo la pronuncia in uso nelle osterie di Bracciano? Questo emerito Bulbarelli è stato laggiù (sempre a spese mie e vostre) e sa che si pronuncia San Sebastián. Ma perbacco, San Sebastián suona così veneto, così dialettale. Vuoi mettere com’è più figo spostare indietro l’accento? E chi se ne frega se un giornalista è pagato per informare.

    Appresso. Perché un certo Carlo Gobbo, che a spese mie e vostre gira per le Alpi al seguito del circo bianco (senza saper spiccicare una frase di tedesco che vada oltre buongiorno e buonasera), si è ostinato per anni a deformare il nome di Michael von Grünigen, noto campione svizzero, facendolo diventare von Gröningen come se fosse olandese? Si sa: gli olandesi, con tutte le montagne che hanno, sono sciatori formidabili. E naturalmente i giornalisti sono pagati per informare. Tant’è vero che dobbiamo pagare anche Paolo De Chiesa per fargli da supporto, al Gobbo, perché di sci non ne capisce una mazza e tutto quello che gli esce dalla bocca sono tormentoni di una idiozia quintessenziale (tipo: “gli dei della neve” o “pochi piccolissimi centesimi”). Ma da dove salta fuori questo Gobbo? Chi ce l’ha messo a fare il telecronista?

    Più in generale, qualcuno può spiegarmi come mai i telecronisti di sci della Rai, da Oddo a Pigna a Focolari, sono sempre stati un disastro? Lasciatemi formulare, non un consiglio, ma una supplica: la Rai faccia una convenzione con la Televisione della Svizzera Italiana. I telecronisti ticinesi parleranno un italiano un po’ insolito e guarderanno con un occhio di riguardo gli atleti di casa loro, ma sono incomparabilmente più seri e competenti dei vari Gobbo e compagnia sproloquiante.

    Un altro esempio e poi basta (perché se no facciamo notte). Verso le 14.00, al termine del TG1, c’è un supplemento “Economia” condotto per lo più da un certo Pierangelo Piegari, che manifestamente di economia non ne sa una cippa. Non arriverà ai vertici, o meglio agli abissi, dell’indimenticabile Everardo Dalla Noce, ma ce la mette tutta. Tra l’altro, ogni giorno presenta i cinque titoli più rialzisti e i cinque più ribassisti della seduta di Borsa. Per non leggerli tutti (troppa fatica!), il Pierangelo legge solo quello in cima e quello in fondo con la formula “Si va da… a…”, dando l’impressione che uno sia il rialzo più alto e l’altro il più basso in assoluto, mentre è solo il quinto, e chissà quanti altri lo seguono. Idem, a rovescio, per i ribassi. In compenso, per annunciare il cambio euro/dollaro, invariabilmente ripete: “Sul fronte del mercato dei cambi…”. Il fronte? Ma quale fronte? Quello delle braccia rubate all’agricoltura!

    E poi stiamo a scannarci per stabilire se è più fazioso Santoro o Emilio Fede! Ma che cosa pretendiamo? Perfino i Bulbarelli, i Gobbo e i Piegari, per non parlare delle inviate di Mediaset, professioniste dei “pensierini” da terza elementare, o delle anchorwomen ossessionate dal look, tutti quanti hanno dimenticato che li paghiamo perché si informino e ci informino correttamente!

 

                                      Mea culpa, mea culpa ! 

 

    Le emozioni dell’opinione pubblica ondeggiano come i pendoli. Prima tutti urlano “Fuori i romeni!”, poi tutti gridano “Mea culpa!”. Prima gli immigrati sono ladri e assassini, poi diventano santi e le carogne siamo noi. Ma queste diatribe vanno e vengono sull’onda dell’attualità. Oggi ci sono i romeni all’ordine del giorno. Al prossimo attentato riparleremo degli arabi.

    Io non sono mai stato in Romania e sull’argomento “zingari romeni” ne so quanto Ciccillo Esposito, quindi faccio a meno sia di gridare al lupo sia di sbandierare buonismi pregiudiziali. In compenso ho viaggiato parecchio in Egitto e nel Golfo Persico (non per passare le ferie a Sharm o a Hurgada, ma per lavoro). Sono stato in ottimi rapporti con parecchi arabi e mantengo una sincera ammirazione per alcuni aspetti della loro way of life. Fin da tempi non sospetti ho sostenuto che la guerra in Iraq era un’avventura dalla quale c’erano da ricavare più danni che vantaggi. Ma avere avuto ragione non mi inorgoglisce neanche un po’.

    Oggi, fra una oscillazione e l’altra del pendolo di cui sopra, sento dire sempre più spesso: “Dopo l’attentato alle Twin Towers, invece di reagire come cowboy, sparacchiando a destra e sinistra, americani ed europei avrebbero dovuto iniziare una seria riconsiderazione di come l’Occidente si è comportato nei confronti del mondo arabo”. Ma a che cosa ci si riferisce in particolare? Che cosa andrebbe specificamente riconsiderato e dove dovrebbe condurre questa riconsiderazione? 

    Vediamo che cosa ci rimproverano gli arabi. Mentre le persone responsabili, in primo luogo i capi di stato, si trincerano dietro l’insolubile questione palestinese, i fondamentalisti tirano in ballo due fatti storici: le crociate e la colonizzazione. Battendo su questi tasti hanno una grandissima presa sull’opinione pubblica araba e ottengono malcelate simpatie a tutti i livelli, dai fellah ai giornalisti, fino agli entourage della corte saudita. Se non si vuole chiudere gli occhi sulla realtà bisogna prendere atto che il cosiddetto “Islam moderato” si riduce a poche centinaia di intellettuali, mentre almeno un miliardo di musulmani sono più sensibili ai sogni di gloria di un sedicente nuovo Saladino che ai discorsi dei politici responsabili.   

    Dunque, parliamo di crociate. Gli arabi (tutti quanti, non solo i fondamentalisti) fingono di dimenticare che nel 732 i loro antenati arrivarono fino a Poitiers, non in gita turistica, ma mettendo Francia e Spagna a ferro e fuoco. Nel 1096, quando partì la prima crociata, occupavano ancora la maggior parte della Spagna. Chi osserva “be’, che c’entra? è roba di tre secoli prima” pensi che nell’Orlando furioso (edito nel 1516) gli arabi sono immaginati intenti all’assedio di Parigi! Nel medioevo non c’era la CNN e le notizie si diffondevano con una certa lentezza.

    Ufficialmente, la prima crociata fu scatenata in risposta all’occupazione musulmana di Gerusalemme nel 1076. Fu solo un pretesto per mettere in moto una reazione che covava da tre secoli e una voglia di conquista che esisteva da sempre? Probabile. Ma è un fatto che l’occupazione di Gerusalemme ci fu, che fu dettata dal fanatismo di un califfo, e che fu scioccante come un paio di Jumbo mandati a schiantarsi sul cupolone di San Pietro.

    Insomma: da parte degli arabi rievocare le crociate può avere senso come richiamo alle antiche virtù guerriere, ma come lamentela nei confronti dell’Occidente non sta in piedi.

    Quanto alla colonizzazione, Francia e Inghilterra non si curarono dei territori desertici a est del canale di Suez finché la Turchia (che da cinquecento anni occupava Palestina, Siria, Arabia e Iraq) non si schierò nella prima guerra mondiale al fianco di Austria e Germania. Per distogliere la Turchia dalla guerra in Europa, Francia e Inghilterra spinsero i capotribù arabi a ribellarsi. Fornirono soldi, armi e ufficiali. Ma a guerra vinta, gli arabi sprofondarono nelle guerre tribali e, per impedire alla Turchia di rioccupare l’area, Francia e Inghilterra instaurarono un protettorato. Lo fecero per motivi strategici, non economici. A quei tempi il petrolio non era fondamentale come oggi (era molto più importante il carbone) e non si sapeva nemmeno che nel Golfo Persico ce ne fosse così tanto.

    Naturalmente, se i beduini avessero avuto una o più identità nazionali avrebbero potuto dire a francesi e inglesi: grazie del vostro aiuto, diteci come possiamo sdebitarci e tornate pure a casa vostra. Ma gli arabi non avevano la nozione di “stato”. Ancora oggi ragionano in termini di tribù. Quelli del Golfo Persico non sono neanche dei veri e propri stati, ma solo zone desertiche dai confini piuttosto vaghi dove dittatori e emiri passano le giornate a litigare con i loro feudatari per la spartizione delle royalties petrolifere.

    Piccola testimonianza personale. Nel 1980 un vassallo dell’emiro del Qatar rifiutò di riconoscerne l’autorità, si chiuse nel suo villaggio e mise un posto di blocco sulla strada. L’emiro alzò il telefono e chiamò il capo della RAF a Londra. Da Muscat, in Oman, si alzarono in volo due caccia che andarono a mitragliare il palazzo del feudatario ribelle. Come nel cinquecento, quando i signori di Rimini o di Forlì chiamavano Giovanni delle Bande Nere.     

    Un giorno il petrolio finirà, il mondo perderà interesse nel deserto arabico, e l’area ripiomberà nell’anarchia. Ma fino ad allora il terrorismo continuerà. Chi sgozza ostaggi e sequestra aerei per mandarli a schiantarsi contro i grattacieli cerca di accreditarsi presso l’opinione pubblica araba come un leader temibile, in contrapposizione con gli emiri imbelli e ciccioni. Per questo parla di crociate e non di petrolio: perché vuole metterci sopra le mani.  

    Da parte nostra possiamo fare tutte le riconsiderazioni possibili, batterci il petto e fare penitenza; ma ormai abbiamo sul posto soldati, tecnici e operai. Se ritiriamo i soldati chi difenderà gli operai? E se ritiriamo anche gli operai cosa pensiamo di ottenere? Il terrorismo prenderà il potere in tutti gli stati dell’area e a quel punto cosa diremo agli israeliani? Arrangiatevi? Usate la bomba atomica? Oppure andate via di lì, tornate in Europa? E dove? E perché?

    Se vogliamo guardare le cose per capirle e metterci rimedio, non possiamo fermarci al mea culpa. Facciamolo pure, ma quando ci saremo salvati l’anima dovremo pur affrontare la realtà: le partite non le giochiamo solo noi. Ci sono altre squadre, e non hanno la minima intenzione di smetterla.

 

 

L’anno scorso, quando le elezioni erano ancora di là da venire, postai sul mio blogghino una vecchia poesia di Raul Montanari con le considerazioni che mi aveva suggerito. Sento il dovere di ripostarle perché vedo un po’ in tutti i blog, e anche in LPELS, la incontenibile voglia di gridare: se la sinistra ha perso è perché gli italiani sono scemi! Qualcuno è arrivato a teorizzare nientemeno che una “mutazione antropologica”. Lo dico con grande tristezza: per sostenere una cosa simile bisogna essersi bevuti il cervello.

 

                                   L’anarchico di destra

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di Raul Montanari

 

L’anarchico di destra vede cose,
odia l’autorità, s’insospettisce,
scorge il male nel mondo arrampicarsi
ma dubita che ci siano rimedi.

Un po’ cinico un po’ sentimentale
ha un’opinione varia sulle donne,
legge Houellebecq, ascolta Philip Glass
ma Tacito è il suo autore preferito.

E’ scettico, inarca il sopracciglio,
storce la bocca, lascia a metà il drink,
vede gli abusi, i torti, stringe i pugni…
ma la natura umana è sempre quella

secondo lui, e non ci si può far niente:
perfino i giusti, i santi, non appena
li sfiora solo l’ombra del potere
diventano corrotti e corruttori,

le loro idee marciscono, corrodono
i corpi dall’interno, fanno esplodere
le teste, e tutto il mondo dei politici,
dei capibanda, capiufficio, account

director, gli editori, i bigliettai,
esattori fiscali e segretari,
profeti, podestà, riformatori,
amministratori condominiali,

tuo padre con la cinghia fra le mani,
sergenti, presidenti, delegati,
sciamani, capiturno, capisala,
insomma il mondo di chi può innalzare

lo straccio di un potere, anche da niente,
è una caserma di mostruosità,
teste scoppiate, occhi scardinati
di gente che il potere ha trasformato.

Sarà sempre così, sempre così
finché non ci saremo tutti estinti
e il mondo tornerà agli scarafaggi.
E’ di destra per questo. In questo senso

si definisce anarchico di destra.
Non crede che una classe dirigente
illuminata possa fare il bene
dell’uomo, praticare la giustizia.

No, lui si è rassegnato ormai da anni.
L’idea lo inorgoglisce, e lo spaventa:
si sente all’avanguardia, un po’ in disparte,
per niente trendy, a volte disprezzato

come se non avesse le idee chiare!
Ha quasi solo amici di sinistra,
gli equivoci si sprecano a suo danno:
se fosse un anarchico di sinistra

gli altri lo inquadrerebbero un po’ meglio:
romperebbe le scatole ai vicini
coi volantini, e anche sul lavoro
distribuirebbe opuscoli, farebbe

discorsi accalorati coi compagni,
tutti lo inviterebbero alle feste.
Il nostro amico anarchico di destra
a me è pure simpatico, lo stimo,

è spiritoso, ma le sue battute
spesso hanno un che di acido, che stanca.
Non sta mai dalla parte giusta, annoia,
diventa malinconico invecchiando

scopre di aver ragione da una vita
ma che avere ragione conta poco
se intanto quella vita se n’è andata.
Tanto valeva avere torto e viverla.

 

    Questa è una poesia che Raul Montanari scrisse e pubblicò su Nazione Indiana più di quattro anni fa. Non sto a fargli i complimenti perché non ne ha bisogno: leggetela e ditemi se non è un grande esempio di immedesimazione, di comprensione di uno stato d’animo.

    Ma quando passa alla critica dà per scontati dei concetti tutt’altro che pacifici. E qui bisogna intenderci.

    “Non crede che una classe dirigente/ illuminata possa fare il bene/ dell’uomo, praticare la giustizia.”

    C’è qualcuno che ci crede davvero? Dopo i brillanti esempi che ha offerto il secolo scorso qualcuno può ancora coltivare questi sogni settecenteschi alla Fénelon? Balle! Le classi dirigenti non fanno il bene dell’umanità e non praticano la giustizia. Lottano per il successo, per il potere. Rincorrono i movimenti spontanei di opinione, le modificazioni nella convivenza civile, spesso anche le mode. Non le impongono e non le propongono: le strumentalizzano.

    Eppure, mi direte, il progresso sociale ed economico è innegabile. Lento, lentissimo, ma innegabile. Vuol dire che qualcosa si muove al di sotto delle classi dirigenti (con i lumi accesi o spenti).

    Sono d’accordo, ma io non mi fido dei singoli uomini politici così come non credo agli eroi. Chi ha avuto fiducia in un’aristocrazia a guida delle masse non ha avuto molto successo. Io credo più alla Storia.

    Del resto, se lo scetticismo porta gli anarchici di destra a vivere senza farsi troppe illusioni, gli anarchici di sinistra sarebbero degli Easy Rider che cavalcano liberi per la sconfinata prateria, non come predoni e masnadieri, ma come cavalieri bianchi, idealisti e giusnaturalisticamente fautori del Bene?

    Vediamo un po’. L’anarchico di sinistra cavalca nella immensa prateria portando nelle tasche della sella un capitale di belle e sante idee. Lui è un liberal (quindi è un buono), lui detesta i monopoli (salvo quelli di stato), le posizioni di preminenza sul mercato (a meno che non siano di Carlo de Benedetti), i giornalisti fiancheggiatori di un partito politico (tranne Furio Colombo), le scuole e le cliniche private (che non siano quelle degli amici). Gli danno fastidio anche l’obbligo del casco e delle cinture di sicurezza, e naturalmente i divieti di spinello, di pista e di pera.

    Cazzo, siamo liberal sì o no? Noi non vogliamo muri! I muri sono di destra! Vogliamo cavalcare nell’immensa prateria inebriandoci di infinito. La prateria è dei buoni, e i buoni siamo noi. E se uno mi viene incontro gli piazzo una palla in mezzo agli occhi. Perché è un cattivo. Come faccio a sapere che è un cattivo? Oh bella! Invece di andare nella mia direzione mi tagliava la strada! (Come dire: dava del pirla a Tabucchi e della vecchia strega a Margherita Hack, portava una camicia a strisce anziché a quadretti, ecc. ecc.). E se proprio non è possibile farli fuori tutti, costruiamo dei muri (ma belli, di sinistra) che li costringano a marciare nella nostra direzione anche se non vogliono. E che cazzo! Siamo liberal sì o no? Viva i muri di sinistra! 

    Solo che anche i muri di sinistra, una volta costruiti, stanno lì. E per far marciare nella giusta direzione tutti gli stronzi di destra, di muri bisogna costruirne così tanti che il bravo ragazzo di sinistra, invece di scorrazzare nella prateria, si accorge di camminare tra due muri anche lui, esattamente come gli stronzi di destra.

    Tragedia, disperazione, autocritica. Non sarà (diciamolo piano perché è quasi una bestemmia) non sarà che qualche ragione (non tutte! tutte le abbiamo solo noi!), ma una o due, magari su qualche punto marginale, potrebbero averla anche gli altri? Porca miseria! Sta’ a vedere che per essere liberal ci tocca diventare liberali? Ovvero: smetterla di sentirsi missionari, dare per scontato che ci sarà sempre gente con la camicia a righe e non a quadretti, riconoscere che l’umanità ha impiegato millenni per abolire i sacrifici umani, e altri millenni per mettere al bando la schiavitù, ed è ragionevole pensare che altri millenni di impegno, sudore e fatica ci vorranno per raggiungere le mete del progresso sociale?

    In fin dei conti, preoccuparsi più delle cose e meno delle idee non significa rinunciare ad avere delle idee. Non ci rinuncia neanche l’anarchico di destra. Solo che lui non si vergogna a riconoscere che le bacchette magiche (cioè il mito della rivoluzione che mette a posto tutto) sono rimedi peggiori dei mali. La macchina a vapore ha liberato l’umanità molto più dei discorsi e delle ghigliottine.

    Forse, quando si picchia il naso contro un muro, non è il caso di buttarla in politica: i muri non sono di destra o di sinistra. Sono muri e basta.

                              

 

                                           Praticare la giustizia

 

    Once upon a time l’ineffabile Gianni Agnelli, con una faccia di tolla degna di suo nipote Lapo, dichiarò candidamente: “Le azioni non si contano: si pesano”. Voleva dire che puoi avere anche metà del capitale sociale di un’azienda e restare un signor nessuno mentre, se hai una rete di relazioni importanti, comandi anche con il 10%.

    La frase fece il giro dei media senza suscitare il coro dei buonisti indignati. Anche il caposcuola dell’indignazionismo nazionale si lisciò il barbone bianco, tentennò il capo con un sorrisino che voleva dire: eh, sai che scoperta! e si guardò bene dal lanciare strali contro la “razza padrona”. Eppure ne avrebbe avuto motivo. Perbacco: l’unico simulacro di democrazia in azienda è l’assemblea degli azionisti e ci si viene a dire in faccia che i voti contano solo fino a un certo punto? Dove vanno a finire la legge, la morale, la politica come tensione verso il bene, la speranza di migliorare il mondo attraverso leggi giuste? Una battuta come “Le azioni non si contano: si pesano” dice apertamente che il bene non trionfa e che la versione corretta della favola è un’altra: la Regina cattiva interroga lo specchio e si sente rispondere: “La più bella del reame sei tu”. Fine.

    Se la realtà è questa, e la conoscono anche i moralisti, i giustizialisti, i buonisti, eccetera eccetera, allora gli atteggiamenti possibili sono (almeno) due. Il più diffuso consiste nel predicare bene, razzolare male e, quando la verità viene a galla, tentennare il capo sorridendo. L’altro atteggiamento è più arduo e consiste nel cercare una morale più vera, rinunciando a guardare il mondo come se fosse la favola di Biancaneve.

    Guardiamo le cose come stanno: le azioni si pesano eccome. Chi ha dei dubbi dia un’occhiata alla Storia. Tutte le rivoluzioni sono state fatte da minoranze (le quali, poi, per mantenersi al potere, non si sono fatte scrupolo di usare la ghigliottina o le fucilazioni). Tutte le grandi riforme sono state approvate dai parlamenti sotto la pressione di opinioni pubbliche messe in agitazione da una minoranza chiassosa. Per non parlare dei colpi di stato, attuati da minoranze ristrettissime, rese “pesanti” dall’appoggio dell’esercito. E anche i colpi di stato possono essere rivoluzionari, come quello del 18 brumaio.

    Ma pure negli ambiti più spiccioli le azioni si pesano: l’opinione del capufficio pesa più delle altre; in un gruppo di amici ce n’è sempre uno che finisce per decidere per tutti; in ogni famiglia c’è qualcuno (di solito la moglie) che ha un peso preponderante. Anche nei rapporti di coppia il peso prevale sul diritto e tutto fa comodo pur di imporsi.

    Chi ha studiato a fondo il problema ne ha tratto utili insegnamenti. Machiavelli dice che il principe non deve mantenere la parola data, se osservarla lo danneggerebbe e se vengono meno le ragioni per cui l’aveva data. Qui la cosa notevole è la congiunzione “e”. Non basta che mantenere la parola si risolva in un danno o che le circostanze siano diventate oggettivamente diverse. Bisogna che si verifichino tutte e due le condizioni.

    Si dirà: non mantenere la parola è comunque immorale e l’immoralità discende dalla pretesa di “pesare” anziché “contare”. Ma, daccapo, cosa succede nella realtà? Noi consideriamo immorale ciò che fanno gli altri ma, nella stessa situazione, faremmo (abbiamo fatto!) anche noi. Per favore, non dite che non è vero. Pensate a quante volte l’avete fatto.

    Si dirà: ma di questo passo l’etica diventa qualcosa di opinabile. E, come al solito, domandiamoci: cosa succede nella realtà? Se un’attrice, per dare la disdetta al marito, si fa fotografare insieme all’amante, dopo un anno nessuno se ne ricorderà, nessuno gliene farà una colpa, i fan la ammireranno anche per questo. E non è andata più o meno così anche per le coppie di amici e colleghi, gente che conoscete e che si sono lasciati perchè lui o lei ha rifatto i conti e ha concluso che la parola data non pesava più come prima?

    Ancora, si dirà: ma così non si sa più chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Eppure, dite un po’: Cesare era migliore di Pompeo? Silla migliore di Mario? (se vi sembrano esempi fuori moda, attualizzate pure il discorso: non servono sforzi di fantasia). Insomma, cosa succede nella realtà? Semplicemente, che intorno a qualcuno disposto a esporsi si raggruppano tutti coloro che hanno interessi analoghi. La stessa cosa succede sull’altro versante. E chi pesa di più prende tutto.

    E per l’ennesima volta si dirà: ma questo è il modo di procedere dei branchi di lupi! Noi (cioè: i buoni) vogliamo sostituire a questa logica bestiale quella delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti.

    Be’, sapete cosa vi dico? Mi avete convinto. Auguri.

 

                                               Tristano 

 

La Scala ha aperto la stagione 2007/08 con Tristano e Isotta, il capolavoro di Wagner. Forse il capolavoro assoluto della musica di tutti i tempi. Per parlare di un’opera lirica (genere che fonde poesia, musica e teatro) ci vorrebbe qualcuno molto più preparato di me. Io vorrei limitarmi a ricordare sei versi del secondo atto.

 

                             Einsam wachend in der Nacht,

                             wem der Traum der Liebe lacht,

                             hab’ der Einen Ruf in Acht,

                             die den Schläfern Schlimmes ahnt,

                             bange zum Erwachen mahnt.

                             Habet Acht! Habet Acht! Bald entweicht die Nacht!

 

                            Chi giace nel sorriso di un sogno d’amore

                            ascolti l’avviso di chi

                            veglia sola nella notte

                            e avverte il pericolo per chi dorme,                                  

                            e trema per lui, e lo chiama perché si svegli.

                            Attenti! Attenti! La notte sta per svanire!

 

    Chi canta questi versi è Brangäne, la dama di compagnia di Isotta, che sta di guardia sul balcone mentre Isotta e Tristano vivono la loro prima e unica notte d’amore. Ogni volta che ascolto questi versi mi commuovo.

    I due amanti hanno avuto una fortuna che non possono capire: tutti e due amano, sono amati, e sanno di essere amati. Brangäne, che non ha avuto questa fortuna, lo sa. Lei ha amato e non è stata corrisposta. Forse è stata delusa, ingannata, abbandonata. Forse si è illusa di essere amata e ha scoperto che non era vero. In un modo o nell’altro, la vita le ha insegnato che la sensazione di amare ed essere amati è qualcosa di istantaneo che va afferrato e vissuto per poi comprenderlo solo nel ricordo, quando sarà passato, quando non ci sarà più.

    Brangäne lo sa, e sa che Isotta e Tristano non lo sanno, non possono saperlo: in questo momento vivono la loro notte d’amore e non hanno tempo per capire. Continueranno a domandarsi: da dove viene questa felicità, come possiamo fare in modo che non finisca mai? Ma finché la passione è viva non troveranno risposte. Per un attimo senza tempo l’amore è diventato improvvisamente semplice: tutte le difficoltà sono cadute, gli scrupoli di lealtà sono sospesi, le paure delle invidie altrui sono dimenticate. Devono amarsi, e basta.

    Brangäne sa che solo così ci si può amare, e sa che l’amore è una cosa troppo grande perché qualcuno possa rinunciarci, anche se non lo capirà, anche se dovrà correre dei rischi esagerati. Brangäne ama insieme a Tristano e Isotta, con minore intensità, ma con maggiore consapevolezza. E la musica si fa sognante, lontana, quasi esotica, come se l’avviso di Brangäne fosse il grido di una sentinella dai merli di una torre, portato dal vento fino a un’oasi nel deserto. 

                                                       ***

    Non sono il tipo che va alle prime della Scala, ma a sant’Ambrogio del 2007 il canale satellitare Arté ha trasmesso l’opera in semidifferita, terminando più o meno a mezzanotte. Così me la sono goduta.

    Il giorno dopo, sui pettegolezzi del Corriere della Sera, ho letto che il redivivo Pillitteri, imbucato sul posto, trovava modo di citare una battuta di Woody Allen: “Quando ascolto la musica di Wagner mi viene voglia di invadere la Polonia”. Ciò mi ha confermato nell’idea che 1) anche a Woody Allen ogni tanto può scappare una cazzata e 2) si può star sicuri che uno come Pillitteri ricorda solo quella. 

    Passando a qualcosa di più serio, ho constatato con immenso gaudio che finalmente la critica comincia a ribellarsi di fronte a certi allestimenti troppo neutri e a costumi privi di significato. Mi dispiace solo che ci sia voluto così tanto. Non ho niente in contrario a veder recitare un’opera in abiti moderni. Non ne vado in visibilio, ma sopporto un’opera in abiti dell’epoca in cui fu scritta. Soprattutto, mi dà fastidio veder stravolgere le didascalie dell’autore per il puro gusto di far vedere quanto è (o crede di essere) intelligente il regista.

    A mia memoria, il primo caso di questo vezzo si verificò a Bologna più di quarant’anni fa: in una rappresentazione della Carmen di Bizet il regista mandò in scena il torero Escamillo vestito da Superman. Non era neanche un’idea peregrina: in effetti, nell’opera, Escamillo appare a Carmen come un supermacho. Il guaio è che Superman è tutt’altro che uno sciupafemmine e la povera Lois Lane è ancora lì che aspetta di consumare. 

    Fatto sta che ormai è impossibile vedere un’opera così come l’ha immaginata l’autore. Per il Sigfrido, Wagner arrivò a fare di sua mano i disegni costruttivi del drago Fafner (che doveva somigliare a un lucertolone). Negli anni 30 Fritz Lang fece un film sul Nibelungenlied e il suo drago è proprio come l’aveva disegnato Wagner. Be’, qualcuno ha mai visto il lucertolone in una rappresentazione del Sigfrido? Forse solo chi è così vecchio da essere andato all’opera prima della guerra. Trent’anni fa i registi non lo mettevano neppure in scena (troppo pacchiano!) e lo spettatore doveva immaginarselo; poi l’hanno riesumato, ma nelle forme più improbabili (l’ultima volta alla Scala sembrava un pipistrello: che fosse un’allusione all’omonima operetta di Strauss?).

    Tristano (come Lohengrin, Parsifal e cento altre opere di diversi autori) è ambientato in un Medioevo semifavoloso. Riuscirò mai a vedere una Isotta o una Mélisande o una Leonora in sontuosi velluti, con maniche ampie e cappello a cono? Prima di morire mi piacerebbe vedere qualcosa di coerente. Ma fate presto, vi prego, perché ho già sessant’anni.

    Tutto questo sarebbe ancora niente. Finché non si tocca la musica! Ma da una decina d’anni noto la preoccupante tendenza a dilatare i tempi come neanche Furtwängler si era mai sognato di fare. Soprattutto nel primo atto, Barenboim ha rallentato i tempi dell’esecuzione fin quasi a rendere difficile seguire la melodia. Per amor del cielo, non sarò certo io a mettere limiti alla libertà dell’interprete, ma ho sempre sostenuto che un’opera d’arte (o pretesa tale) nel momento in cui diventa pubblica non appartiene più all’autore (e tantomeno all’interprete), bensì appartiene a chi paga e dedica qualche ora della sua vita a fruirne. Insomma, signori autori, registi, direttori: l’opera d’arte non esiste per far divertire voi, ma per dare al pubblico qualcosa di esteticamente valido. Dategliela, per favore, e lasciate perdere le seghe mentali.     

 

                                            Lohengrin

 

    “Ma è in tedesco! Già le opere, anche in italiano, sono una noia micidiale. E poi, che palle, un teatro tutto ori e velluti rossi, giacca e cravatta, ingabbiati lì per cinque ore!”

    OK. Vi siete sfogati? Adesso venite con me. Niente paura, le luci si abbassano, l’orchestra attacca il preludio.

    Però! Siete sicuri di non aver mai ascoltato il Lohengrin, eppure questa musica avete l’impressione di conoscerla. Sembrano i Pink Floyd. Eppure, è roba che ha più di centocinquant’anni. Ma pensa te.

    Beh, il preludio è già finito. Peccato, era grande. Proprio grande. Ma qui non ti danno neanche il tempo per tirare il fiato: succedono un sacco di cose. Si è aperto il sipario, il palcoscenico è pieno di luce. Sulla riva della Schelda, un esercito e un popolo stanno uno di fronte all’altro. Siamo in pieno medioevo carolingio. L’imperatore Enrico è circondato di stendardi e di insegne del potere, ma il suo araldo ha appena chiesto ai brabanti se lo accoglieranno in pace e obbedienza. (Dunque, par di capire, potrebbero anche rispondere di no).

    È proprio un altro mondo. Qui le cattedrali hanno due cupole: una sopra l’altare e un’altra, uguale, in fondo alla navata, dove c’è il trono dell’imperatore. Una cosa simile in Italia non s’è mai vista. Da queste parti l’imperatore è una cosa seria.

    Però, quando un’orda di barbari esce dalla steppa e viene avanti saccheggiando, dov’è l’esercito? Non c’è. E allora come si fa? I soldati li hanno i feudatari, e l’imperatore è costretto a mendicare cento cavalieri di qui, mille fanti di là. Tutti cercano scuse, tutti lo mandano a quel paese.

    L’imperatore Enrico lo sa benissimo: brabanti, frisoni, renani, sono tutti uguali. Vogliono campare, fottere, ingozzarsi, e guai a chi rompe i coglioni. L’imperatore? Porta soltanto guerra e tasse.

    Povero Enrico. Deve esibire tutta la sua arte politica, mescolare argomenti e suggestioni, usare buon senso e demagogia. E infatti eccolo qua che sfoggia scettro e corona, ma due minuti dopo piange per le donne e i bambini delle provincie orientali. Chi li salverà dalla furia degli Ungari? Quei poveretti pregano Dio, ma tocca a me, al capo dell’impero, trovare una soluzione. E io il mio dovere l’ho fatto: ho combattuto, ho trattato, ho fatto e rotto tregue. Sono nove anni che tengo a bada gli Ungari. Ma ormai l’ultima tregua sta per scadere e i maledetti barbari sono di nuovo in armi. Nobili di Brabante, oggi il pericolo viene da est, domani potrebbe venire da ovest. Siamo tutti tedeschi, dobbiamo difenderci. Come ve lo devo dire? Diamoci una mossa!

    I portabandiera fanno sventolare i vessilli. Squillano le fanfare. I brabanti si impegnano a combattere per l’onore del primo Reich. Enrico tira il fiato. Uff, è fatta! Dài, incolonnatevi e andiamo a Magonza. Macché, neanche per sogno. Non si muove nessuno. Cos’altro c’è adesso?

    I brabanti non hanno un capo. Accidenti, il feudo è senza padrone? E chi li porta in battaglia, questi qui? Che fine ha fatto il duca?

    Sentiamo una persona seria. Federico, conte di Telramund, tu che sei un uomo d’onore, che qualche anno fa mi hai dato una mano a sconfiggere i danesi, dimmi come stanno le cose.

    “Grazie, o re, tu vieni a rendere giustizia.”

    Come sarebbe a dire? Rendere giustizia? Ci sarà mica in ballo una di quelle dispute dinastiche che vanno avanti un secolo?

    “Sul letto di morte, il vecchio duca affidò a me i suoi figli, Elsa e Gottfried.”

    Cioè, fammi capire, furbacchione, eri diventato una specie di Lord Protettore?

    “Tu mi conosci, sire, tu mi hai visto in battaglia. Quell’incarico era la gemma che splendeva sul cuscino del mio onore.”

    Vabbe’, mettila pure così. In effetti, sei sempre stato una persona degna di fiducia.

    “Immagina, sire, la mia disperazione quando quel gioiello mi fu rubato!”

    Rubato? Come, rubato? Parla chiaro!  

    “Elsa condusse il giovane Gottfried nella foresta e tornò senza di lui. Chiese del fratello fingendo uno sgomento che non provava. Disse di essersi smarrita e di aver perso le sue tracce. Ma le ricerche non ebbero esito. Il ragazzo non fu trovato.”

    Oh cazzo, non vorrai mica dire che…?

    “Ogni volta che interrogavo Elsa vedevo sul suo volto il terrore che rendeva manifesta la sua colpa. Era lei la mia promessa sposa, ma come potevo unirmi a una fratricida? Io sono un uomo d’onore, tutto il popolo lo sa. Ho sposato Ortruda, che discende dai principi di Frisia, e reclamo per me il ducato di Brabante! Ecco, sire: hai sentito l’accusa. Adesso giudica.” 

    Tutti sono senza parole. Nessuno, nemmeno il più informato dei brabanti, si aspettava un’accusa di fratricidio, così, in piazza, davanti a un esercito in armi. Ma Federico è un grande soldato, un uomo d’onore: se è arrivato a questo punto, vuol dire che tutto è contro Elsa. Ha confessato?

    “Quella donna orgogliosa finge una specie di sognante follia. Certo ha un amante segreto e pensa che, una volta sbarazzata del fratello, dividerà con lui il potere.”

    “E va bene, conte di Telramund. L’accusa è motivata. Si convochi l’imputata, voglio ascoltare le sue ragioni.”

    Fra i mormorii di sassoni e brabanti, Elsa compare in giudizio. È una ragazza bionda che avanza lentamente, con gli occhi bassi, le mani giunte, l’aspetto trasognato. Sembra chiusa in se stessa, come fanno le donne quando si aggrappano a un’idea con tutte le loro forze e non c’è verso di farle ragionare.  

    Elsa passa fra i popolani e i soldati, e sembra che non li veda neppure. Che fine hanno fatto i suoi amici? L’hanno abbandonata tutti? Sul suo viso c’è una specie di disperata risolutezza. Che sia rassegnata a morire?

    “Elsa di Brabante, mi riconosci come tuo giudice?”

    Fa segno di sì. È già qualcosa. Se non altro, questo processo servirà a confermare l’autorità imperiale. Ma veniamo al sodo.

    “Cos’hai da dire a tua discolpa?”

    Silenzio.

    “Come? Non ti difendi! Allora confessi?”

    Elsa alza le braccia al cielo. Cosa ha sussurrato?

    “Povero fratello!”

    Come sarebbe? Cosa vuol dire? Sta’ a vedere che è proprio fuori di testa! Ma no, non ci credo.

    “Racconta, Elsa. Abbi fiducia in me.”

    Visto? Adesso parla. Povera ragazza, forse anche lei credeva di essere impazzita. Chissà che vita è stata la sua, negli ultimi tempi.

    “Quando sono rimasta sola, al colmo della disperazione, ho pianto e pregato Iddio. E i miei lamenti sono arrivati fino a Lui. Li ho visti salire in cielo e perdersi nell’infinito. Allora i miei occhi si sono chiusi e sono caduta in un sonno profondo.”

    Sì, vabbe’, ma stringiamo, ragazza. Cerca di capire: c’è in ballo la tua pelle.

    “E allora è apparso un cavaliere che portava un’armatura scintillante. Lui sa che sono innocente. Lui mi difenderà!”

    Eccolo, il medioevo: Enrico è l’equilibrio dei poteri; Federico è la legge e il suo miraggio di giustizia; Elsa è l’aspirazione alla purezza che ha prodotto la cavalleria, i santi come san Francesco. E c’è anche qualcosa di eterno: lo scontro del sogno e della realtà. Il sogno dice che non ha senso vivere senza sognare. La realtà risponde che con i sogni non si vive.  

    Davanti agli stendardi, alle insegne del potere, all’impotenza della giustizia, una ragazza accusata di fratricidio se ne viene fuori con qualcosa di assurdo: ho sognato un cavaliere che mi difenderà. Potrebbe chiedere avvocati, convocare amici e sostenitori. Non ci prova neanche. Dice: sono innocente e lo dimostrerò davanti a Dio. Ha fede nel suo sogno e in niente altro.    

    Il popolo mormora. Tentenna. Enrico si guarda intorno. Facciamo ancora un tentativo.

    “Federico, pensaci: non mettere in gioco il tuo onore.”

    “No, non mi lascio ingannare da quel faccino sognante. Nessuno può mettere in dubbio la mia parola. Chi vuole provarci tiri fuori la spada e se la veda con me!”

    Sì, voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di sfidarti! Ma, a questo punto, bisogna rispettare le formalità.

    “Federico conte di Telramund, sei pronto a sostenere la tua accusa combattendo per la vita e per la morte nel giudizio di Dio?”

    “Sì!”

    “Elsa di Brabante, vuoi che un tuo campione combatta per te per la vita e per la morte nel giudizio di Dio?”

    “Sì!”

    “E chi è il tuo campione?”

    “Il cavaliere che ho sognato. Dio me lo manda e a lui prometto ogni cosa: me stessa, la terra e la corona di mio padre.”

    Ma no! A questo sei ridotta? Non hai neanche un amante disposto a combattere per te? Non ti aspetterai davvero che arrivi qualcuno inviato da Dio? Ti hanno proprio abbandonato tutti, ragazza mia! Mi dispiace, non posso più aspettare. L’araldo lanci l’appello.

    “Chi è pronto a combattere per Elsa di Brabante nel giudizio di Dio si faccia avanti!”

    Silenzio. Gelo.

    Oh Madonna, che disastro! Elsa, la tua sorte è segnata. Eh? Come? Cos’hai detto?

    “Ti prego, sire, fallo chiamare ancora. Il mio cavaliere non ha sentito perché è lontano.”

    Oh Signore Iddio! Elsa, hai la testa sul ceppo e ancora ti aggrappi a queste fantasie? Evabbe’, è il tuo ultimo desiderio. L’araldo ripeta l’appello.

    Altri squilli di trombe, altro richiamo.

    Che pena. Che silenzio di morte.

    Elsa, in che situazione ti sei cacciata! Sassoni e brabanti sembrano statue: stanno zitti e immobili, e ti guardano con gli occhi sbarrati. E tu cosa fai, sei caduta in ginocchio? Sì, fai bene a pregare.

    “Dio mio, tu l’hai mandato a salvarmi. Fa’ che lo veda arrivare.”

    Anche le donne dei brabanti si sono inginocchiate. Pregano. Chissà cosa pensano di te. Piangono per la sventura della tua casata; oppure pregano per la salvezza della tua anima; o forse loro, soltanto loro, riescono a leggerti dentro e vogliono credere con te al sogno pazzesco di un cavaliere mandato da Dio.

      

                                                     ALT !

 

    Fermate la musica. Fermate tutto quanto. Wagner ha tolto le mani dalla tastiera. I suoi occhi sono fissi sullo spartito, ma non lo vedono. Nella sua testa è scoppiato un ricordo dei tempi di scuola.

    Senofonte ateniese cavalca nelle retrovie di un esercito che da mesi è in ritirata attraverso un territorio sconosciuto. La colonna dei soldati è lunghissima e sale serpeggiando lungo il fianco di una collina. E tutto a un tratto, quando la testa della colonna arriva in cima, kraughè pollè eghéneto: sorge un urlo molteplice.  

    Senofonte sprona il cavallo, risale la colonna. Ed è come se il grido rotolasse giù dalla collina: percorre la fila degli uomini, si somma e rimbomba. Intanto i soldati in cima alla cresta si sono voltati, continuano a gridare e fanno segno: venite su.

    Senofonte spinge il cavallo al galoppo, arriva dove il grido diventa intelligibile e, ancora incredulo, sente urlare distintamente: thálatta, thálatta! Il mare! Il mare! Siamo salvi! 

 

    Dissolvenza: siamo di nuovo in teatro, la musica non si è fermata ma qualcosa deve essere apparso là in fondo, sulla Schelda. I brabanti più lontani gridano e fanno gesti, ma dalla platea non è ancora possibile capire di che si tratta. Le voci si sommano, si sovrappongono, si confondono. Gridano: guardate, guardate. Ma gridano anche dell’altro.

  Accidenti, non parlate tutti assieme! Cosa dicono?  

  Guardate. Sì, va bene, ma che cosa? Una cosa strana. Un fatto straordinario. Ma che cosa?

  Un cigno. Un cigno che traina una barca. Una barca con un cavaliere a bordo. Un cavaliere dall’armatura scintillante. Miracolo! Miracolo!

 

    Io mi fermo qui. Per chi va avanti ci sono duelli, trionfi, congiure, tragedia, e una musica che entra sotto la pelle. Ma il colpo di scena dell’arrivo di Lohengrin, la strategia del coro che avvicina e nasconde il cigno, e lo svela quando tutti gridano “Miracolo!”, la preparazione del climax (accusa, giudizio, sfoggio di fede al limite della follia), sono uno dei capolavori dell’umanità. Una di quelle scene che nessun regista, per quanto cane, riuscirà mai a rovinare del tutto.

 

                                                Speranza                                                          

 

    Da alcuni anni, in libreria e su qualche blog, è in atto una campagna pubblicitaria a favore della tesi: Dio non esiste. Alcuni testi di saggistica atea sono diventati dei bestseller. Dico la verità: mi sembra logico che, se la Chiesa cattolica fa proselitismo (o apostolato, chiamatelo come vi pare), se gli Hare Krishna girano per le città vestiti di arancione (a proposito: non se ne vedono più; che fine hanno fatto?), se i Testimoni di Geova suonano i campanelli e si intrufolano nei condomini senza essere invitati, mi sembra normale che anche gli atei si diano da fare.

    Bene: a sentire gli atei, Dio non c’è. Tiriamo un bel respiro di sollievo? Facciamo festa? Macché. Non sento cori di moltitudini acclamanti. Che strano. Vuoi vedere che la faccenda non è poi così semplice come viene presentata?

    In realtà, fin dal 1781 un certo Immanuel Kant ha dimostrato che l’esistenza o meno di Dio è razionalmente indecidibile. Mi sbaglierò, ma ho l’impressione che da allora non siano stati fatti grandi passi avanti. Tutti gli ateismi, compreso quello raffinatissimo di Nietzsche, sono impregnati di titanismo e disperazione. L’ateo sente Dio come un padre-padrone soffocante e prevaricatore, e lo uccide. Ma perché si uccide un padre-padrone? Per subentrargli nel ruolo. E invece chi uccide Dio non può mettersi al suo posto.

    A dir la verità, l’ateo lo sapeva anche prima, ma è solo dopo il deicidio che si accorge di essere rimasto solo. Ribellarsi è stato bello, ma adesso cosa può fare? L’ateo prova a sostituire Dio con una religione dell’umanità, ma scopre che costruire è molto più difficile che distruggere: gli altri vogliono sapere che fastidio dava Dio, cosa si è guadagnato a farlo fuori, che soddisfazione c’è nel convincere gli altri a sentirsi disperati come te.

    Ma come! grida il deicida. Non capite che io sono come Prometeo? Vi libero dai timori assurdi, dalle superstizioni, dalle illusioni. Non vedete che il mondo è pieno di guerre, violenza, malattie, morte? Come può Dio permettere tutto questo? Se il male c’è, vuol dire che Dio non esiste.

    Però gli altri si stringono nelle spalle. Sarà pure così, obiettano, ma anche se hai tolto di mezzo Dio il male è ancora lì tutto quanto. Non hai risolto niente.

    Niente affatto! insiste l’ateo. Accettatemi come capo e vi prometto che, dopo aver sconfitto Dio, elimineremo anche il male dal mondo.

    Ma gli altri non lo ascoltano. Per credere una cosa del genere bisogna illudersi che uccidendo Dio gli uomini diventino buoni. Il che è come minimo ingenuo.

                                                               ***

    Io non so se Dio esiste. E so di non saperlo.

    Però ci spero.

    Fino a una certa età semplicemente non ci ho pensato. Volevo affermarmi, cercavo gratificazioni professionali. Quando ho raggiunto i miei traguardi mi sono guardato alle spalle e ciò che avevo fatto mi è sembrato penosamente privo di scopo. Sì, mi ero affermato, potevo cercare di affermarmi ancora di più, ma per chi, per che cosa?

    Intendiamoci: questo discorso lo capisce solo chi l’ha provato. Prima o poi lo proviamo tutti, ma ciascuno a modo suo. Avrò sentito ripetere mille volte che una vita senza scopo è come un cibo senza sale, ma non l’ho capito fino a quando non ci ho pestato il naso. Il mio naso.

    Per quanto mi riguarda, l’idea di un universo generato a caso e che evolve in modo casuale mi fa venire la depressione. Se davvero l’universo fosse il regno del caso, la vita sarebbe una crudele presa in giro. Perché far progetti se l’intera esistenza è priva di senso? Tanto vale non vivere. L’unico progetto logico sarebbe il suicidio di massa e la scomparsa dell’umanità. Tanti dolori, delusioni, sofferenze risparmiate.

    E allora? Stabilito che non sono in grado di dare un senso all’universo, posso solo (e sono costretto a) scegliere se comportarmi come se l’universo avesse un senso oppure come se non l’avesse. Un altro sceglierà l’universo caotico. Io preferisco un universo sensato, quindi mi regolo come se Dio ci fosse. Non so se c’è. Non posso neanche essere sicuro di crederci. Però ci spero. Mi rifiuto di considerarmi un prodotto del caso, destinato a sparire nel nulla senza che la mia vita abbia avuto un significato.

    Dunque, cos’è la speranza?

 

    “Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa cosa ignota è la vera speranza che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l’autentico uomo. La parola vita eterna cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. “Eterno”, infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; “vita” ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia”.

 

                                    La matita rossa e blu

 

    Anni fa, sul suo blog che si chiamava Uffenwanken, apparve una recensione di Franz Krauspenhaar in cui si sosteneva – provocatoriamente – che un certo libro era stato “scritto per non essere letto”.

    All’epoca non conoscevo quel libro, e lo dichiarai (in seguito, dopo aver letto il primo volume, mi sono rifiutato di sprecare tempo e soldi con il secondo); in compenso, colsi l’occasione per abbozzare un ragionamento. Non ne facevo un discorso di “fruibilità”, che pure non è cosa da trattare dall’alto in basso. No, ne facevo proprio un discorso di letteratura. Questo.

    Ho una età sufficiente per aver accumulato un discreto numero di delusioni epocali. Non conto più i libri che ho lasciato a metà perché proprio non riuscivo a mandarli giù e quelli che mi sono costretto a leggere fino in fondo per poi accorgermi, in capo all’una e all’altra esperienza, che non potevo fare a meno di domandarmi: “Ma questo libro che ca… mi ha detto?”

    Quando avevo diciott’anni era obbligatorio aver letto La nausea di J.P. Sartre. Ancora oggi mi domando in che cosa mi abbia arricchito la lettura di quelle migliaia di parole. Anzi, non me lo domando più perché finalmente mi sono risposto: in niente.

    Di quanti libri che a suo tempo (e magari ancora oggi) sono stati considerati “fondamentali” si può dire la stessa cosa? Ognuno la pensa come vuole, ci mancherebbe; ma proprio per questo anch’io la penso come pare a me, e lo dico: un libro ha valore se possiede una permanente e perennemente mutante attualità. Quasi tutti i libri strombazzati come “fondamentali”, riletti a distanza di tempo (neanche tanto), risultano tremendamente invecchiati e non hanno più niente da dire. Invece Amleto, Achille, Ulisse e Dante – guarda un po’ – ogni volta che li rileggi hanno sempre qualcosa di nuovo e non stancano mai (e se la Divina Commedia fu trascurata per qualche secolo fu perché la deriva che sfociò nel marinismo fece perdere di vista la preminenza della forma, riducendola a stile: discorso sul quale conto di tornare). È per questo che “si fanno leggere”. È per questo che non viene mai meno la loro “fruibilità”.

    Continuo a trovare divertente il paradosso di Uffenwanken ma non lo condivido: scrivere per non essere letti è una contraddizione in termini. Anche il più ermetico dei poeti ermetici, in fondo al suo compiacimento elusivo, coltiva la speranza di essere compreso. Altrimenti, invece di comporre liriche, si iscriverebbe a un corso serale per sibille cumane, delfiche, o affini.

    Altra cosa sono i narratori che non hanno niente da dire. Ce ne sono parecchi, da Ken Follett a Umberto Eco (ohibò!), che senza aspirare al premio Nobel si dedicano onestamente alla letteratura di evasione. Ma non si può pretendere di essere incoronati d’alloro in Campidoglio se non si fa qualcosa di eccezionalmente valido (e, tanto per chiudere il discorso sul libro di cui parlava Uffenwanken, non c’è proprio niente di notevole nel riempire pagine e pagine di vaneggiamenti su temi schifosi cercando di far colpo e generando soltanto noia). E non mi sembra neanche il caso di puntare alla nicchia di “autore di culto”: l’alone del guru non si confà a poeti e narratori. Si adatta meglio a chi predica una filosofia o una religione rivelata.      

    Non so voi, ma io di certe esagerazioni programmatiche non ne posso più. C’è chi scrive poesie in forma di filastrocca per deridere la vacuità del mondo contemporaneo. Chi non conosce il programma (e non si vede perché dovrebbe conoscerlo) legge e conclude: “Ma questa è una filastrocca per bambini!”.

    Una volta ho conosciuto un pittore/scultore che organizzava mostre nelle quali non si esponeva niente: la “installazione” era costituita dal luogo dell’incontro e dagli amici che venivano a vedere, bere prosecco e sgranocchiare salatini. Le foto che si scattavano tra loro erano l’unica testimonianza di questa “opera d’arte”. Concettualmente, doveva essere una provocazione al quadrato, una metaprovocazione. Praticamente, era un’idiozia.

    L’ultima che ho sentito è questa: Nanni Balestrini ha pubblicato un libro in duemila copie, una diversa dall’altra. Proprio così: in ciascuna copia, frasi e periodi sono mescolati in modo diverso, a caso. L’idea (dice lui) è di svolgere una indagine sulle possibilità combinatorie della narrazione. Ma quale indagine? L’ipotetico lettore ha in mano una copia sola. Cosa può indagare? L’unico a conoscere tutte le varianti è l’autore (e che se ne fa?). Con tutto il rispetto per Balestrini, a me me pare ‘na strunzata. 

    Date retta: dopo la buriana sperimentalista, provocazionista e concettualista del novecento, non è ora di procedere a un sincero riesame? Prendiamo in mano la matita rossa e blu e leviamoci dai coglioni un sacco di zuppe che abbiamo dovuto mandar giù per forza, perché “l’hanno letto tutti”, perché “tutti dicono che è un capolavoro”. Naturalmente posso sbagliarmi, ma ho il fiero dubbio che la maggior parte della sedicente produzione artistica contemporanea sia una fredda costruzione col meccano. L’arte concettuale, l’esplorazione delle possibilità combinatorie del reale, è un cane che si morde la coda. In sé, un concetto può essere stimolante come un rebus o una sciarada; ma l’arte è un’altra cosa.

    Insomma, se il re è nudo perché non dovremmo dirlo chiaro e tondo? Diciamolo almeno a noi stessi, confidiamolo agli amici più sicuri, parliamone nelle catacombe. Un giorno torneremo a vedere la luce del sole.

 

                                            Natale 2007  

 

    Non ho preparato un discorsetto natalizio. Non ho in “magazzino” un racconto di Natale. Anche gli auguri valgono quel che valgono, cioè poco. Ma ve li faccio lo stesso. Buon Natale e Buon Anno. Sperare è un diritto, ma è anche un dovere.

 

                                        Franzwolf e le donne      

 

Il bruno carattere si svela nel capriccio
corposo, lunghe ciglia aggrottate
verso il cielo, un Mig a tagliare fette
d’aria balsamica. Accendi una Camel,
tiri una boccata e la guardi ancora
affascinato. Lei sta pensando al suo,
lo indovini, e il tabacco ti sa in bocca
di veleno peggiore, di vizio rapsodico.

 

Il biondo carattere si svela nella dolce
condivisione dei vezzeggiativi, prima
ancora del letto siete già a diminuirvi
nel parlato. La guardi, è hitchcockiana,
una Marnie da rapire e guadare a festa,
sogni di tirarle i capelli all’ insù davanti
a uno specchio rosso, in un rorido hotel.

Ma è estranea, si concede con tempi
che per te sono ere, il tempo di amare
ti si infeltrisce addosso come un golf
militare, da M.A.S.H. bellimbustato.

 

Il castano carattere ti ha reso i denti
stretti dal dolore, ortodonziche sparate
nei sogni, quando ti ritrovi a bocca vuota.
Ti accusava di tutto, di averle stuprato
la fiducia come fosse sua madre, di essere
inaffidabile: ancora con questa storia
di paragonarti a un SUV, a un fuoristrada.

Tu, Franzwolf caro, sei una fuoriserie.

 

Così, a fare degli esempi di donne, si rende
un servizio all’ arte più sopraffina.
Si creano dei modelli, nei quali ci si può
riconoscere senza doversi specchiare.
Tutti gli uomini hanno ricevuto soffi di fumo
da brune altezzose, sorrisi insensati
da bionde temporeggianti, cazziatoni
molesti e militari da castane ossessive.

 

E che dire di quelle che ti rincorrono
col mattarello della madre in mano?
L’hanno ereditato, incluso nel complesso
di Edipo. E quelle che scuciono affetto
con la tirchieria facoltosa dei nuovi ricchi?
L’affetto per loro è una merce, l’amore un lingotto
incarcerato in un bunker bancario.

 

Sì, bello, caccia affidabilità, caccia devozione,
casa di proprietà, auto di lusso – mantieniti
decente tramite qualche trapianto nei posti
giusti, lavora come un negro da Hilton
(nel senso della clientela), erigi statue
all’amore in stock bonds e, detto tra noi,
che nessuno ci sente, rompiti le corna
e sminuzzati i coglioni in Minipimer.

 

Sì, sei volgare. Una specie di orso, di grizzly
affaticato che, per non morire da panda inascoltato,
urla nella notte insonne bestemmie cosmiche.
Le balle spaziali le hai finite, ti rimane di dire
terricole verità: che sei stufo, che con le donne
avresti voglia di chiudere, che non sono loro
ad averti deluso, e nemmeno tu, ma la
atroce combinazione dei due elementi.

 

Maledici la tua eterosessualità. Fossi gay
staresti meglio, ne sei convinto, saresti agevolato
nell’arte, nei mestieri, nell’uso del fast sex.
Tra di loro si conclude al minuto secondo, altro
che convenevoli biondi, altro che messaggi
serali di buonanotte al simulacro della loro
urfica. Sì, sei un maschilista, solo perchè sei maschio.
E sei misogino, perchè fin da piccolo un paio
di valchirie diplomate in psicologia ti hanno detto
che ogni uomo, sotto sotto, e sopra sopra,
dagli Appennini alle Ande del suo mal-essere, lo è.

 

Tu che hai fatto dell’amare le donne una specie
di punto G d’onore, come se fosse un’operazione
esteticamente morale, ora ti guardi sbattuto,
incanaglito allo specchio. Gli occhi gonfi dalla rabbia
solitaria, la mascella che s’è sdraiata in cantina
e la secchezza delle fauci. Tu, Franzwolf, lupo
tanto cattivino, veleggi verso i 50 anni e ti percepisci
attor giovane. E mentre guardi con una certa
invidia certi uomini sposati, e con altrettanta
certi scapoli, guardi con la solita fame la prima
bella che passa e, per qualche secondo, il cuore
da lupo, da grizzly, da uomo, si prende una pausa
dal solito tum tum, il suo tran tran.
Ti tuffi nella piscina del cuore.
Alla fine, in questa limpida perdizione, ritrovi la strada di casa.

 

                                          Eterogenesi dei fini

 

    È un’esperienza che capita a tutti: se misuro la distanza fra l’idea di futuro che avevo da ragazzo e il modo in cui il futuro di allora è diventato il presente di oggi, mi accorgo che tutto è cambiato, sì, ma in un modo ben diverso da come avrei voluto. A questo punto ho l’impressione di aver passato la vita a spingere nella direzione sbagliata, e ci resto male. Poi ci ripenso, dico a me stesso: “È l’eterogenesi dei fini” e il parolone complicato mi mette il cuore in pace.

    Una volta, l’eterogenesi dei fini era difficile da discernere. Ai tempi di Catone il censore, o di Carlo Magno, o anche solo di Francesco Giuseppe, il progresso tecnologico era lentissimo, quasi impercettibile; le mode duravano decenni; le famiglie erano patriarcali e i figli riproducevano il modo di vivere che imparavano dai padri; le guerre seminavano stragi ma non cambiavano l’ordine delle cose. Per secoli e secoli il fatto che uno si sforzasse in una direzione e la realtà andasse da un’altra parte fu chiamato sorte, fortuna, Fato. La percezione dei cambiamenti sensati ma non governabili cominciò a manifestarsi verso la fine del diciannovesimo secolo. La rivoluzione industriale era già iniziata da più di cent’anni, ma la sensazione di un progresso capace di cambiare la vita quotidiana la diedero l’automobile, il cinema, l’aeroplano e le scoperte di Marconi. Nel 1918 a leggere i giornali erano ancora in pochi. Nel 1939 la radio era diffusa in tutte le famiglie. A partire dal 1945 la futurologia entrò nella cultura popolare.

    Superman e Batman sono nati in USA alla fine degli anni ’30, ma non avrebbero avuto successo senza la guerra. In un mondo che aveva visto per la prima volta cose come la V2, l’aereo a reazione, la bomba atomica, Superman prendeva un sapore di realtà. I viaggi interplanetari, gli impiegati che andavano in ufficio in elicottero volando fra i grattacieli, non erano più un sogno ma una possibilità concreta. I nomi di Einstein e di Fermi arrivavano all’uomo della strada insieme a quello di Werner von Braun. Chi faceva le elementari a Busto Arsizio leggeva i fumetti di Nembo Kid e pensava che un giorno sarebbe andato a vivere a Milano, dove avrebbe trovato grattacieli altissimi con ascensori atomici e piscine sul tetto, in mezzo alle nuvole. Se l’uomo era andato sulla luna nel 1969, dove sarebbe arrivato nel 2000? Il futuro, come lo si vedeva negli anni ‘50, assomigliava alla saga di Star Trek (ancora di là da venire) non tanto nei risultati quanto nella spinta verso l’esplorazione. Tutti erano convinti che l’espansione del genere umano negli spazi stellari avrebbe imposto l’unificazione degli stati sul pianeta, la fine delle guerre, della fame, dell’ignoranza. In fondo si sapeva che sulla Luna c’erano solo sassi ma si pensava che, se fossimo stati capaci di arrivare fin lassù, avremmo trovato il modo di sfruttare anche le pietre lunari.

    Oggi chi si guarda intorno non vede neanche l’ombra della grandezza un po’ ingenua che immaginava da ragazzo. I cambiamenti non sono stati quelli che sperava, hanno investito settori impensati, hanno avuto conseguenze impreviste. In Europa la cultura di base ha raggiunto milioni di persone che cinquant’anni fa ne erano escluse, ma il livello culturale medio non sembra migliorato, anzi. Ai tempi di Catone, Carlomagno e Francesco Giuseppe, le persone in grado di prendere iniziative erano poche e la Storia sembrava circoscritta ai loro contrasti personali. Oggi la tecnologia mette miliardi di esseri umani in grado di diffondere i punti di vista più strani, gli interessi più sconsiderati, gli obbiettivi più demenziali, e di trovare simpatizzanti. La globalizzazione mediatica fa conoscere in tutto il pianeta i vaneggiamenti dei demagoghi e anche nella colta e scolarizzata Europa non mancano i cretini pronti ad accodarsi.  

    In questa situazione l’eterogenesi dei fini impazza. Quasi nessuno è in grado di imporre il suo ordine alle cose e i pochi che ci riescono non vivono abbastanza per garantirne la continuità. La Storia va dove vuole lei anche se ognuno cerca di tirarla dalla sua parte. L’ha sempre fatto. Quando gli attori sulla scena erano pochi, quello che la spuntava aveva buon gioco a dichiarare: “La Storia mi ha dato ragione!”. Oggi invece la moltiplicazione dei protagonisti ha smascherato la verità: la Storia non è una lavagna sulla quale ognuno può scrivere ciò che vuole, ma una realtà che interviene attivamente, visto che opera una sintesi di tutte le posizioni e quasi sempre si tratta di una sintesi così creativa da mettere ciascuno di fronte a situazioni che non aveva saputo prevedere.

    Ma la Storia opera a caso o è guidata da un principio ordinatore?

    È la stessa domanda che ci si pone a proposito dell’evoluzione. Come mai l’homo sapiens avrebbe eliminato l’uomo di Neanderthal e gli australopitechi, ma non lo scimpanzé? Perché Cesare ha sconfitto Pompeo ma non è sopravvissuto alla sua vittoria? Come mai la prima guerra mondiale ha prodotto nazismo e comunismo, che si sono combattuti e uno ha sconfitto l’altro, ma il vincitore ha finito per dissolversi?

    Ognuno può trovare ottime ragioni per sostenere che la Storia e l’evoluzione procedono a caso oppure in vista di uno scopo. L’unica cosa sicura è che, nell’una e nell’altra ipotesi, lo scopo non siamo noi a deciderlo.                                         

 

                            La Storia non siamo noi

 

    La Storia ha due facce, o forse anche di più.

    Chi cerca di “fare la Storia” (a cominciare dalla sua personale) ha spesso la sensazione di combattere con i mulini a vento, si trova a fronteggiare scenari nebulosi e caotici, ed è costretto ad affrontarli con lo stesso spirito con cui si va in battaglia: o si vince o si muore (perché se si perde e si resta vivi, si finisce in un lager o in un gulag, e forse è meglio morire).

    Nello stesso tempo, chi prende in esame la Storia passata (compresa la sua personale) non può fare a meno di individuare una logica di sviluppo. Novantanove volte su cento non è quella che avrebbe voluto lui, ma la traiettoria balza agli occhi. A questo punto chi individua nella Storia una linea di tendenza è spinto a prevedere i futuri sviluppi e ad agire per “fare la Storia” in conformità con le previsioni. Se invece approfondisse i fatti compiuti, uno per uno, mettendosi nell’ottica dei protagonisti, dovrebbe concludere che a portare avanti la Storia non sono quelli che si attengono a un progetto razionale, ma gli opportunisti, i maneggioni, gli avventurieri in cerca di profitti personali. Gente pronta a cogliere opportunità di segno opposto con la massima disinvoltura.  

    Di solito chi cerca di mettere in atto un ideale di portata storica fallisce e cade nel dimenticatoio (a meno che quell’ideale non sia poi realizzato da altri, nel qual caso viene ricordato come un precursore, cioè come un velleitario idealista). La Storia ricorda i fallimenti solo in funzione delle vittorie. Ed è logico che sia così: ai posteri le idee perdenti interessano solo per sapere che hanno perso. I fallimenti (dalla Vandea a Bruto e Cassio, da Jan Hus a Pio IX, ecc. ecc.) la Storia tende a metterli in secondo piano. E così chi scorre la sequenza delle cosiddette vittorie crede di individuare la via del progresso e, proiettandola in avanti, si illude di avere in mano la chiave del futuro. È questo l’errore che ha spinto legioni di intellettuali a progettare sistemi sociali a tavolino, collezionando delusioni e disastri.

    Forse la scuola andrebbe frequentata in un altro modo. Forse gli insegnanti dovrebbero avere un’altra impostazione mentale. Ma è un fatto che la Storia si disinteressa delle decadenze: quando viene meno la potenza di uno stato, passa a occuparsi di quello che le subentra. La Storia d’Italia ammutolisce davanti al cimitero politico di Seicento e Settecento, ricorda a malapena le guerre sbagliate dei duchi di Savoia, preferisce parlare di Arcadia e Accademie. Eppure anche chi resta indietro prima o poi viene raggiunto dal progresso. La Spagna si è autoisolata dall’Europa nel 1713 e ci è rientrata solo dopo il 1975: eppure, nonostante due secoli e mezzo di lontananza culturale, da quando ha deciso di rientrare in Europa ha impiegato pochi anni a rimettersi al passo. Segno che, pur avendo preso una strada tutta sua, a grandi linee si era avviata nella stessa direzione. Come è potuto succedere? Se allarghiamo la prospettiva dalla preistoria ai giorni nostri è evidente uno sviluppo tecnologico e civile che, nonostante deviazioni, inerzie e contraccolpi, ha potuto svolgersi con una certa coerenza. Come è stato possibile? Bisogna pensare che la Storia abbia delle ragioni che la ragione non ha.

    L’affermazione può sembrare paradossale ma è giustificata da un fatto ben noto: se tre persone siedono allo stesso tavolo, per quanto distanti siano i loro punti di partenza, è probabile che discutendo trovino qualcosa di comune; se invece Tizio sale su un palco e parla a un migliaio di persone, non può svolgere un ragionamento: deve lanciare slogan, altrimenti non se lo fila nessuno. Più ampio è l’uditorio, più la comunicazione deve indovinare una difficile sintesi. Se ne erano già accorti i romani quando dicevano senatores boni viri, senatus mala bestia. Non entro nell’analisi del fenomeno e delle sue cause. Ma la sintesi delle singole posizioni ha qualcosa di paradossale: è sempre così semplice da risultare imprevedibile.

    Ebbene: gli esseri umani sono calcolati in più di sei miliardi e la globalizzazione ha messo tutti quanti in grado di farsi sentire. È vero che la voce di Jafaar al Darwish, pescatore analfabeta del golfo persico, ha un peso specifico infinitamente inferiore a quello del presidente USA; ma i Jafaar sono milioni, invece il presidente USA è uno solo. Inoltre Jafaar non ha niente da perdere ed è pronto a tutto, mentre il presidente USA è legato a interessi contrastanti, elezioni, votazioni congressuali, corti supreme, pesi e contrappesi, ecc. ecc. Contraddire milioni di Jafaar è sempre faticoso, spesso inutile, qualche volta disastroso. Aggredire l’uomo più potente del mondo è sempre gratificante. Se ne sono accorti gli americani ai tempi del Vietnam e lo rifanno spesso. Ma se ne erano già accorti anche i romani ai tempi del basso impero.

    Insomma, se si potesse rappresentare la Storia come una curva in un sistema di assi cartesiani, la sua espressione matematica sarebbe una funzione di (almeno) sei miliardi di variabili, ciascuna con forza e limiti diversi, ma mai ininfluenti, mai riducibili a costante. E non basta: oltre agli esseri umani incidono sulla Storia i cicli dell’economia, l’andamento delle annate agrarie, le catastrofi naturali, le variazioni climatiche di breve e di lungo periodo, la maggiore o minore disponibilità di fonti di energia, le invenzioni rivoluzionarie, il progresso tecnologico, le mode, le modificazioni del costume, le migrazioni, la demografia, ecc. ecc.

    Ciascuno di questi ambiti di variabilità può apparire governabile, se lo si considera come fenomeno isolato; ma nessun fenomeno agisce come una coltura in vitro. Tutto si esplica all’interno di un complicatissimo flipper dove ogni azione provoca reazioni, interazioni e deviazioni: uno scenario che evolve in modi così imprevedibili da suggerire la famosa immagine del battito d’ala di una farfalla in Amazzonia che provoca un tifone nel Mar Giallo.

    Quando si considerano tutte queste circostanze e si constata che, a dispetto dei fattori casuali, indipendentemente dai progetti di Tizio e di Caio, fra colpi d’acceleratore e colpi di freno, la Storia prende una direzione definita (seppure con modalità che nessuno può prevedere), bisogna concludere che “la Storia ha delle ragioni che la ragione non ha”.

    E se questo è vero, pretendere di “fare la Storia” è megalomania. Si può prendere un’iniziativa, si può portarla avanti con grande determinazione, si può convincere un grande popolo a condividerla fino in fondo. Ma pretendere di modellare la Storia secondo un progetto più o meno razionale è fuori dalla realtà. Napoleone e Lenin (per citare i due che più hanno creduto di riuscirci) hanno messo in moto energie gigantesche. I loro sforzi sono entrati nella Storia, sì, ma la Storia non è andata dove avrebbero voluto loro.       

    Dunque: quali sono queste “ragioni della Storia”? Omero ed Eschilo parlano di un Fato al quale sono sottoposti anche gli dei dell’Olimpo. Più tardi, tra i filosofi stoici e negli ambienti ellenistici, per spiegare come mai la Storia vista a posteriori ha un senso che non è mai quello che i protagonisti avrebbero voluto, si cominciò a parlare di Provvidenza. Il concetto nacque in ambiente pagano e il cristianesimo se ne appropriò con grande profitto. Venne di qui l’esaltazione dei vincitori, degli unti dal Signore, dei re per grazia di Dio, e la corrispondente sottovalutazione degli sconfitti.

    Del resto, concepire la Storia come moto dell’Umanità verso il Progresso, in stile Ballo Excelsior, non è molto diverso. Provvidenza o Magnifiche-Sorti-e-Progressive, dov’è la differenza? La domanda è un’altra: è corretto leggere la Storia in questo modo?

    E la mia risposta è: cosa volete che vi dica? Io proprio non lo so.

    Potete anche insistere: vabbe’, ma la Storia ha un senso oppure no?

    Posso solo rispondere così: visto che oggi disponiamo di parecchie cose che l’uomo dell’età della pietra non era neanche in grado di immaginare, viene automatico dire di sì: certo che ha un senso. Solo che non c’è modo di scoprirlo prima, al momento di prendere decisioni (cioè quando servirebbe). Il senso della Storia salta fuori solo quando i fatti sono diventati, appunto, storia passata.

    E allora come si fa?

    Come si è sempre fatto: ci si arrangia. Ed è proprio in questo, nell’arrangiarsi di ciascuno secondo il suo criterio, che consistono il libero arbitrio e le connesse responsabilità.                                                                                  

                                                   

                                                    K 

 

    Uno dei tanti vizi umani consiste nello “scoprire” qualcuno (cantante, sportivo, poeta, uomo politico, ecc.), metterlo su un altare, tributargli omaggi quotidiani e mandare al rogo per lesa maestà chiunque osi mostrarsi tiepido. È un fenomeno che avviene un po’ dappertutto, ma in Italia è considerato quasi un dovere: noi non siamo capaci di vivere senza idoli, in politica, in musica, nello sport e in ogni campo dell’attività umana. Anche in letteratura.

    Sapendo che le cose stanno così, quando l’aspirante intellettuale scrive un articolo o una recensione, non dimenticherà di infilare il prescritto omaggio al mostro sacro e sarà in regola con le norme dell’establishment. Per esempio, secondo i canoni correnti e fino al prossimo contrordine, è possibile trattare Faulkner con una certa sufficienza, è permesso snobbare l’Ulisse di Joyce (purché non si dimentichi di elogiare i Dubliners), è tollerato sussurrare a mezza voce che Proust e Musil sono noiosetti alquanto. Ma guai a criticare il Mostro Sacro (e per “criticare” intendo anche solo avanzare lievi dubbi su aspetti marginali): si rischia la pelle!

    Da quando gli italiani hanno scoperto Kafka, verso la fine degli anni ’50, l’hanno canonizzato, beatificato e santificato. Più o meno nella stessa epoca è stato scoperto anche nel resto del mondo, e dappertutto è stato giustamente riconosciuto come una pietra miliare della letteratura mondiale. Ma in Italia si è arrivati a sfiorare l’idolatria. Guai a chi si azzardi, non dico a ridimensionarlo, ma anche solo a guardarlo con occhi disincantati. Guai a considerare pura e semplice comicità i frequenti spunti di ironia yiddisch. L’intellighenzia strilla in coro: niente affatto! Il mostro sacro non può far ridere o anche solo sorridere. Il mostro sacro fa pensare.

    E per salire la scala del suo pensiero è obbligatorio vivere i suoi dolori, le sue malattie, le sue tristezze (e solo le tristezze, perbacco! Nessuno si azzardi a immaginarlo allegramente in birreria mentre scambia battute da fratelli Marx con gli amici!). Non solo: è obbligatorio essere andati in pellegrinaggio a Praga, preferibilmente in novembre, quando piove e fa un freddo cane. È obbligatorio conoscere le lettere più insignificanti del Nostro, citare aneddoti, confidenze e gossip. È obbligatorio ricordare in ogni pubblica occasione che la filiale ceca delle Assicurazioni Generali ebbe l’onore di pagargli uno stipendio per qualche mese (ormai lo sanno anche i gatti, ma guai se omettete di dirlo). È obbligatorio soprattutto prosternarsi davanti al Sommo, all’Inarrivabile, a Lui che non ha mai scritto neanche una virgola sbagliata e, anche quando è evidentemente sbagliata, be’, è sbagliata così bene che diventa giusta!

    Al di là delle esagerazioni, è vero che Kafka rappresenta un punto di svolta nella cultura universale. Anche se la sua tematica è estremamente semplice, proprio per questo colpisce nel profondo. È stato lui a smascherare l’assurdità della condizione umana, questo vivere senza scopo, con la gobba piegata sotto il peso del senso di colpa, senza sapere di che colpa si tratti. (Eppure, per tutti gli anni ’60 le parole-chiave nell’interpretazione di Metamorfosi, Castello e Processo, furono alienazione e spersonalizzazione, come se il senso di colpa non ce lo portassimo dentro ab origine ma fosse causato dal sistema economico e sociale. Nel frattempo, con bella sbrigatività, a est della cortina di ferro Kafka era all’indice e le sue opere circolavano alla macchia).

    Come arriva Kafka a precisare la sua tematica? Attraverso l’osservazione dei rapporti con il padre, con le donne, con il mondo, si dice. Ma nella seconda metà dell’Ottocento tutta la cultura europea stava dibattendo il problema del senso di colpa. Il brodo di coltura in cui nascono Kafka e Freud viene dalla generazione precedente. Kierkegaard aveva riscoperto l’angoscia esistenziale. Schopenhauer aveva individuato la colpa nell’esistenza stessa e non vedeva altra salvezza che il rifiuto della vita. Nietzsche esaltava la volontà di potenza proprio per sottrarsi al giogo del senso di colpa. Wagner oscillava fra suggestioni nietzscheane e prefigurazioni freudiane. Maeterlink trasportava i colpevoli Pelléas e Melisande in un trasognato n’importe où.

    Kafka non crede alla volontà di potenza, alle catarsi psichiatriche o alle rassegnazioni orientaleggianti; sente profondamente la realtà del senso di colpa, sente l’impotenza di fronte all’ineluttabile, e trasporta tutto ciò in un mondo surreale, crudelmente autoironico. Chissà dove, chissà quando, abbiamo commesso un delitto; l’abbiamo rimosso dalla memoria e non meritiamo neppure che la colpa ci venga contestata; saremo puniti, punto e basta. La vita è un intervallo fra la sentenza e l’esecuzione. Un intervallo nel quale capita anche di ridere amaramente.

                                                              ***

    Detto questo, e reso omaggio alla drammatica semplicità di questa visione, bisogna pur valutarla sotto l’aspetto filosofico e letterario.  

    Dal punto di vista filosofico si può solo dire che l’impostazione di Kafka, come quella di Leopardi, non contiene errori logici ma è incompleta. Coglie solo una faccia della realtà. Avrebbe bisogno di aprire la visuale sul panorama e invece la concentra in un microscopio.    

    Ma quanto all’aspetto letterario lasciatemi tirare il fiato, perché qui ci vuole il coraggio di Fantozzi al cineforum. Premesso che la corazzata Potëmkin rimane un capolavoro dell’arte cinematografica anche se, visto e rivisto decine di volte, diventa “una cagata pazzesca”, dichiaro e sottoscrivo che i romanzi di Kafka sono pietre miliari della cultura umana, ma sono di una pesantezza insopportabile.

    E c’è poco da meravigliarsi. Con le sue premesse ideologiche Kafka può immaginare situazioni, ma non può sviluppare vicende, conflitti e scioglimenti. La sua narrazione manca di dinamismo, fatta com’è di situazioni senza via d’uscita. Come andrà a finire La metamorfosi è già scritto nell’incipit; non ci può essere un climax perché non c’è suspence; e il finale con la gita in carrozza della famiglia Samsa non è un anticlimax ma una pietra tombale. In mezzo, ci sono troppe pagine in cui la stessa situazione viene riproposta cento volte, con variazioni lievissime, spesso insignificanti. La narrazione kafkiana (tranne in qualcuno dei suoi primi racconti) è totalmente priva di azione.

    Kafka non proietta un film: presenta una fotografia, poi la ripresenta con un particolare ritoccato, e poi ancora con un altro particolare corretto, e poi di nuovo, e di nuovo ancora, e così via. Dubito che Kafka abbia “inventato” questo modo di narrare per meglio raccontare l’ossessione. Al contrario: credo che vivere l’ossessione gli abbia fatto perdere il contatto con il lettore di narrativa. Il procedimento per accumulo è tipico della saggistica tedesca, usa a stabilire un principio, illustrarlo e ripeterlo infinite volte per pestarlo in testa al lettore zuccone.

    Si dirà: eppure la vita degli uomini qualunque è fatta così, è un monotono accumularsi di piccole variazioni sullo stesso tema. Ma tutti gli scrittori sanno che una narrazione, anche quando dice cose vere, non può riprodurre pari pari la realtà. Deve organizzare i fatti, tagliare le pause, introdurre senso. Anche chi ritiene che la vita sia un inutile dibattersi nel vortice del caos, e astrattamente apprezza il modo di narrare kafkiano, non può ignorare che, quando si rappresenta la realtà come fanno le telecamere degli impianti di sorveglianza, il risultato è la noia. Parliamoci chiaro: le pagine memorabili del Processo non sono più di una decina. Sono così stupende che bastano ad assicurare all’autore la sua meritata fama, ma annegano fra centinaia di altre pagine dominate da una noia irrimediabile.

    In conclusione, guardando a Kafka con occhi disincantati, sono portato a considerarlo grande come intellettuale, ma sopravvalutato come scrittore. Il suo ritornare ossessivo sullo stesso topos avrebbe bisogno di ritmo per concentrare la forza dell’esposizione, per non disperderla. Invece Kafka si dilunga come se non avesse l’idea della misura, come se non sapesse che il romanzo ha bisogno di una vicenda, mentre il taglio adatto per fotografare una situazione è il racconto.

    Se La metamorfosi fosse lungo la metà e accennasse all’aridità dei familiari non più di un paio di volte, il surrealismo di Gregor Samsa mutato in scarafaggio (che è il vero atout del racconto) risulterebbe meglio bilanciato rispetto alla condanna degli egoismi borghesi (tema sfruttatissimo per tutto l’Ottocento, e ormai esausto). Invece Kafka torna mille volte a calcare la mano sulla mentalità filistea dei signori Samsa come se i lettori fossero degli imbecilli che, per afferrare un concetto peraltro ben noto, hanno bisogno di sentirselo ripetere fino alla nausea.

    E che racconto fulminante sarebbe il Processo se Kafka l’avesse condensato in una quarantina di pagine! Macché: ne ha volute dieci volte tante. Il risultato è che la maggior parte dei lettori non lo compra, la maggior parte di chi prova a leggere lo lascia a metà, e i pochi che arrivano fino in fondo sono così sfiniti che quasi non gustano la stupenda pagina finale.

    Peccato.  

 

                                                 La strada 

 

    Cormac McCarthy è l’autore di Meridiano di sangue, probabilmente il capolavoro della letteratura mondiale nella seconda metà del Novecento. I suoi altri esiti letterari sono stati altalenanti e vanno dallo stupendo manierismo di Cavalli selvaggi al barocchismo di Oltre il confine, passando per romanzi non altrettanto riusciti.

    Qualcuno ha rilevato nella traiettoria di McCarthy un andamento simile a quello di Hemingway, rivelatosi con Fiesta (romanzo d’avanguardia, quasi senza trama, quasi sperimentale) e poi caduto in una narrativa compiacente, tesa al sentimentalismo e all’effetto come in Il vecchio e il mare. Nello sviluppo della narrativa di McCarthy La strada avrebbe la stessa funzione.

     Le analogie stilistiche fra McCarthy da un lato e Hemingway e Faulkner dall’altro sono notevoli. Tutti e tre possiedono la tecnica che rende epici anche i gesti più ripetitivi e quotidiani. Possiamo leggere pagine e pagine senza stancarci, senza calo di interesse e perfino di suspence, mentre il protagonista non fa che cavalcare in un paesaggio squallido, oppure scambia battute insignificanti con uno sconosciuto, o si trova in contesti assolutamente privi di sviluppo. Hemingway, Faulkner e McCarthy hanno la capacità di individuare all’interno di situazioni narrativamente amorfe gesti che, anche se privi di rilevanza ai fini della storia, diventano affascinanti in se stessi attraverso la descrizione dei loro più minuti particolari.

    Ma le analogie, credo, finiscono qui. In quasi tutta la sua opera (tranne in Addio alle armi e in alcuni dei suoi migliori racconti), un po’ per cultura, un po’ come reazione alla depressione che lo condurrà al suicidio, Hemingway esalta il combattente, colui che non si arrende di fronte alle difficoltà e continua a battersi (come, per esempio, Manuel Garcia Maera in Morte nel pomeriggio o Robert Jordan in Per chi suona la campana). Ne L’urlo e il furore e in Mentre morivo, Faulkner accompagna la decadenza di una famiglia, la vive e la fa vivere al lettore, ma non se ne compiace. Invece ho l’impressione che McCarthy, dopo l’esito straordinario di Meridiano di sangue in cui la descrizione del male, particolareggiata e asettica, conferisce al romanzo una efficacissima dimensione epica, non abbia più indovinato la giusta presa di distanze e cada spesso in un compiacimento morboso. Non so dare altra spiegazione a un racconto come Figlio di Dio e a un romanzo come Città della pianura. Non trovo altra ragione per la scelta di raccontare in La strada un viaggio senza speranza in mezzo a una umanità bestiale e antropofaga attraverso un paesaggio devastato come un Walhalla post-incendio. Si tratta una metafora della condizione umana? Indubbiamente. E anche se si tratta di una metafora sconfortante, da McCarthy non potevamo aspettarci qualcosa di consolatorio. Potevamo attenderci la solita, meravigliosa maestria nel narrare; e in questo McCarthy non ci delude. Ma nell’evidente ricerca di effettacci da grand guignol il romanzo mostra il suo limite. Che bisogno c’era di caricare le tinte fino a questo punto? Non riesco a rintracciare un vero motivo narrativo. Ci vedo invece una esigenza interiore dell’autore: McCarthy ha bisogno di raccontare il male perché ne è affascinato come chi è attratto dai ragni e dai serpenti. Non a caso, in una delle pochissime interviste che ha concesso, non ha quasi parlato di letteratura ma solo di certi serpenti velenosissimi che vivono nel deserto di Mojave: il suo senso estetico è deviato verso il deforme, l’innaturale, il malvagio.

    Del resto, La strada non è un unicum nella produzione di McCarthy: la sua filosofia è la stessa di Meridiano di sangue. Non contiene niente di moralistico, non ha l’intento pedagogico di mostrare il male per insegnare a fuggirlo: padre e figlio in viaggio attraverso gli orrori finiscono per commetterne anche loro. Il concetto di fondo in tutte le opere di McCarthy è che il male esiste ed esercita un suo fascino. Il narratore lo sa, lo subisce, lo cerca. Finché lo ha descritto con la giusta distanza narrativa, ne ha tratto esiti di altissima qualità. In La strada l’adesione emotiva al male ha giocato al narratore un brutto scherzo: l’ha portato a rovistare nel robivecchi di Eugène Sue e Carolina Invernizio, del dottor Mabuse, di Lex Luthor. Un brutto scherzo dal punto di vista artistico, ma un’ottima scelta commerciale: McCarthy non ha mai venduto tanto come con La strada.

    Che senso ha dunque l’incontro finale con una famiglia di “buoni” che si prenderà cura del ragazzo? Nient’altro che il senso della continuità. Il padre muore e consegna al figlio un incomprensibile motivo per andare avanti: noi portiamo il fuoco. McCarthy riesuma qui l’epilogo di Meridiano di sangue, una delle sue pagine più enigmatiche, nella quale descrive un uomo che avanza in un paesaggio squallido e tiene in mano uno strumento misterioso che, di tanto in tanto, infila fra le rocce, lo aziona e ne trae il fuoco. Il padre e il figlio che attraversano il continente desolato de La strada non sono buoni perché fanno il bene o perché combattono il male: sono buoni perché “portano il fuoco”.

    Se si tratti del fuoco di Eraclito, o di quello di Prometeo, o di quello che l’homo erectus imparò a usare più di un milione di anni fa, McCarthy non lo dice e, penso, non lo dirà mai.       

   

                                                   Manifesto    

 

    È da un bel po’ che penso a quanto sono fasulli i romanzi, a quanto sarebbe meglio dire la verità. Tutti mi dicono: non hai capito un tubo. E probabilmente hanno ragione. Un romanzo è una storia inventata e raccontata a chi la vuole ascoltare, dunque deve essere fasulla. Se poi uno pretende di campare con la scrittura, bisogna che scriva quel che piace al pubblico. O no?

    Riconosco che, per chi vede la faccenda in questa prospettiva, non c’è altro da dire. Ma proviamo a spostare l’osservatorio. Immaginiamo un tizio che sa di aver già avuto tutte le scarse soddisfazioni che poteva ragionevolmente aspettarsi dalla vita; immaginiamo che si domandi cosa diavolo sta ancora al mondo a fare e si risponda che, se finora si è arrabattato per conquistare cose che improvvisamente non gli servono più, d’ora innanzi potrà raccontare agli altri ciò che crede di avere imparato (Beninteso: liberissimi gli altri di fregarsene, naturalmente). Un tizio così scrive con spirito amatoriale. È un ingenuo che corre la Milano-Sanremo senza doparsi: spera di avere comunque una possibilità di vincere e, dopo essere arrivato ultimo, dice a se stesso che è stato bello provarci. E perché mai uno così dovrebbe sentirsi vincolato a scrivere storie fasulle?

    Ora, tornando ai romanzi, uno non si mette a scrivere per una scelta razionale o perché quello era il mestiere di suo padre. Lo fa perché ha una storia in testa e finché non l’ha messa per iscritto non può pensare ad altro. Poi però, quando comincia il lavoro di revisione, ci ragiona sopra: identifica gli snodi narrativi, si rende conto di aver applicato questo o quello schema, capisce che in futuro non potrà limitarsi ad aspettare che piova dal cielo la cosiddetta ispirazione. Dovrà costruire le storie in funzione di un’idea. In particolare dovrà scegliere la trama adatta a ciò che pensa di dire.

    Stando così le cose, più ci penso e più mi convinco che al giorno d’oggi le trame possibili sono soltanto due: il giallo e il viaggio iniziatico (o se preferite il “romanzo di formazione”, che è poi la stessa cosa). Volere o volare, un romanzo consiste nella proposta di un mistero e nel tentativo di svelarlo: in modo logico con il giallo, in altro modo con il viaggio iniziatico. Se accettate questo punto di vista, sarete d’accordo con me nel ritenere che i romanzi storici e i romanzi d’amore sono quasi sempre viaggi iniziatici. Il caso più noto è “Via col vento”.

    L’unico tipo di narrazione che non rientra nell’alternativa giallo-viaggio è quello ottocentesco, in forma di tragedia, centrato sulle contraddizioni interne della famiglia e/o della società. È il genere che ha dominato la letteratura mondiale fino a diventare “il romanzo” per antonomasia e quando i critici parlano di “morte del romanzo” si riferiscono a questo tipo di storie. Ma è un genere che non ha più niente da dire: in un secolo e mezzo i conflitti sociali e familiari sono stati passati al pettine fitto, per dritto e per rovescio, e sono stati osservati al microscopio della morale, del sentimento, della psicologia. Ormai lo sappiamo: il matrimonio non è tutto rose e fiori, la famiglia può diventare un nido di vipere. Emma Bovary e Anna Karenina sono sottoterra, Fjodor Karamazov pure. Cosa resta da svelare? Che risposta si può dare a una domanda che non c’è più?   

    Dunque restano solo il giallo e il viaggio iniziatico. Ma per dire cosa? Che l’assassino è X e l’ispettore Y lo smaschera e lo manda a Sing Sing? Sono già in mille a scrivere questo tipo di storie. Mondadori ne pubblica un paio ogni settimana. E intanto voi e io aspettiamo ancora di sapere chi ha ucciso Simonetta Cesaroni e la contessa Alberica Filo della Torre, tanto per fare solo un paio di nomi. Ogni tanto qualcuno ricorda il caso Montesi, un mistero che ha più di cinquant’anni e non è mai stato risolto. E io mi domando: che senso ha scrivere storie fasulle nelle quali un investigatore (eroe o antieroe) scopre la Verità e fa trionfare la Giustizia? Perché raccontare al pubblico queste fiabe?

    Risposta: perché è il pubblico che le vuole. Perché chi paga per leggere vuole essere rassicurato, vuole sentirsi dire che alla fine il Bene trionfa, che chi si fa il mazzo prima o poi avrà la sua ricompensa, e via discorrendo. Insomma: le solite bugie.

    È vero. Il pubblico vuole proprio questo. E libri così ne ho letti tanti anch’io, mi hanno consolato, mi hanno fatto evadere, mi hanno tirato su il morale. Ma, come dicevo, ce n’è un’infinità, di tutti i tipi e di tutti i livelli: per militari e ragazzi, per raffinati esteti, per laureati in enigmistica. E ogni settimana ne arrivano nuove infornate. Il bisogno di consolazione del pubblico è ampiamente soddisfatto.

    Piuttosto, siamo sicuri che tutti i lettori leggano per evadere e aborriscano l’idea di sentirsi raccontare le cose come stanno? Davvero non esiste una nicchia di lettori stufi di fiabe e menzogne? Dove sta scritto che la verità deve essere monopolio dei poeti e che solo loro abbiano il diritto di proporre una visione del mondo e della vita?

    In effetti non sta scritto da nessuna parte, però gli editori (e soprattutto gli editor) ne sono arcisicuri. Se provate a raccontare un viaggio apparentemente senza esito o la storia di un omicidio che non viene risolto, cestineranno sentenziando: bisogna dire chi è l’assassino, bisogna che il viaggio termini con un successo. Altrimenti il lettore resta deluso e pensa che tu non abbia abbastanza fantasia per trovare una conclusione con squilli di tromba e rulli di tamburi. Se obbiettate che solo le fiabe si concludono con “…e vissero felici e contenti”, vi sentirete ribattere: niente affatto! la vicenda si può raccontare anche dal lato del “cattivo”, da un punto di vista amorale, o persino immorale!

    D’accordo: narrare una storia dal punto di vista del cattivo anziché da quello dell’investigatore offre più possibilità. L’investigatore deve sempre far trionfare la Giustizia, invece il cattivo può 1) rivelarsi un buono sotto mentite spoglie, 2) essere sì cattivo, ma con un codice morale che lo riscatta, 3) essere sconfitto dalla polizia, da una ragazza di cui si fidava o da circostanze imprevedibili (cioè dalla Giustizia Divina), oppure 4) può vincere e farla franca.

    Questo però non risolve il problema. Anche la storia vista dal lato del cattivo, senza l’impianto logico e moralistico del giallo, gira pur sempre intorno al tentativo di spiegare un mistero, o di rendere chiara una situazione ambigua, e conduce a una conclusione strettamente connessa con il fatto che dà origine al racconto. In un certo senso, il noir è una combinazione di giallo e viaggio iniziatico, e i suoi esiti sono sostanzialmente i quattro di cui sopra. Può darsi che esistano altre varianti, ma la sostanza del discorso non cambia: tutti questi modi di condurre la narrazione tendono a dimostrare che in ogni circostanza esiste una via (morale, amorale o immorale) per cavarsela con successo o, quantomeno, per finire in bellezza. Insomma: per vincere. E questo è falso, falso, assolutamente falso.

    Nella vita reale chi segue coerentemente un principio, buono o cattivo, finisce male nove volte su dieci. I buoni che vincono sempre, i ladri gentiluomini, i cattivi che hanno un codice d’onore e quelli che trovano la punizione del Fato in stretta connessione con il loro misfatto, sono più unici che rari. La vita (e tutti noi lo sappiamo bene perché è così anche la nostra), la vita è normalmente incomprensibile. Il successo, l’amore, la felicità, sembrano dipendere dal caso, sono precari e durano poco. Quando finiscono, cerchiamo il perché e non lo troviamo mai.

    Insomma: la realtà non ha niente a che fare con la morale dei romanzi. Gli amori non corrisposti restano non corrisposti, punto e basta. Gli amori corrisposti durano poco, si sfasciano e i tentativi di rimetterli in piedi procurano solo umiliazioni. Anche la vita professionale è tutt’altro che un susseguirsi di successi: le carriere non decollano o si infognano in qualche vicolo cieco e non c’è verso di capire perché. Le invidie, gli sgambetti, le prepotenze, tutto resta lì, sospeso, senza rivincite, senza un deus ex machina che intervenga a rimettere le cose a posto. I traguardi si spostano sempre più in là e non si raggiungono mai. Eccetera eccetera.

    Con questo carico di rancori insoddisfatti ci mettiamo a raccontare una storia che simboleggi ciò che è capitato a noi, e inventiamo un sacco di balle, ci prendiamo rivincite e vendette sui colleghi che ci hanno fregato, sui furbastri che ci hanno bidonato, sulle donne che non hanno voluto fare sesso con noi. Ma mentre uno scrive queste cose dovrebbe domandarsi: che gliene frega ai lettori delle tue personali frustrazioni? Credi che siano tutti meschini come te? Non è possibile!

    A chi non vuole leggere soltanto fiabe bisognerebbe raccontare i guai e le stranezze della vita senza farle seguire da incredibili colpi di genio investigativi, o da pestilenze che arrivano al momento giusto per togliere di mezzo tutti i cattivi, o da improbabilissimi conti di Montecristo che trovano tesori abbandonati e si dedicano a far vendetta. Sarò anche duro di comprendonio, ma non vedo perché un romanzo non dovrebbe dire la verità, e cioè che la maggior parte dei delitti resta impunita, che la gente fa finta di credere alla Giustizia perché altrimenti tanto varrebbe spararsi un colpo in testa, che ognuno di noi subisce dei torti, li manda giù e passa oltre, e prova a rifarsi cercando gratificazioni di altro genere. E non solo: un romanzo dovrebbe dire chiaro e tondo che anche noi infliggiamo dei torti a chi non ci ha fatto niente, per pura incosciente cattiveria; e dovrebbe smascherare le bugie con cui ci giustifichiamo davanti a noi stessi, la vergogna con cui comprendiamo quanto siano false quelle giustificazioni, la viltà con cui fronteggiamo il rimorso, l’ipocrisia con cui cerchiamo di espiarlo aiutando altri che magari non se lo meritano.

    Ma naturalmente la difficoltà è sempre quella: la maggior parte dei lettori non vuole guardarsi dentro e preferisce essere consolata. A chi ne ha già fin sopra ai capelli dei casini quotidiani come si fa a proporre un giallo in cui non si scopre il colpevole? E qual è l’editore che rinuncia d’acchito al grande pubblico per puntare su una nicchia di lettori? Forse solo Vibrisse.

    Non resta che sperare nelle alterne vicende del gusto e della moda: i libri di successo non sono quelli che si inseriscono in una tendenza consolidata, ma quelli che ne creano una nuova. Chissà che la critica, dopo aver pianto calde lacrime sulla morte del romanzo bugiardo, non cominci a reclamare romanzi che dicano la verità.

 

                                       Psicologia junghiana

 

    Ho letto uno di quei pseudo-manuali americani in cui un praticone tenta di spiegare i rudimenti della sua arte. In questo caso il praticone è uno psicoterapeuta e il tema che cerca di illustrare è il concetto junghiano di “sincronicità”. Carl Gustav Jung diede l’avvio a questa linea di pensiero scrivendo un saggio intitolato “Sincronicità come principio di nessi acausali” (che già dal titolo fa venire in mente l’Ufficio Complicazione Affari Semplici).

    In estrema e sicuramente eccessiva sintesi, la faccenda è questa:

    – i fatti che danno origine alle coincidenze sono in realtà più frequenti di quanto non ci sembri.

    – noi notiamo certi fatti quando si verificano simultaneamente ad altri fatti che sono rilevanti per la nostra vita; altrimenti li dimentichiamo. Per esempio: tra il fatto A (cade una stella filante) e il fatto B (cena a lume di candela con una ex velina) non esiste alcun rapporto di causa-effetto, però se il fatto B si realizza la coincidenza mi resta impressa. Invece, se B non si realizza, A diventa un fenomeno qualunque, magari anche raro, ma senza significati particolari. Quindi lo dimentico. 

    – la prima conclusione è che la coincidenza appare come un segno del destino solo a posteriori, quando le cose sono successe; la seconda conclusione è che, se il fatto A si verifica quando si desidera davvero il fatto B, potrà costituire una spinta ulteriore a raggiungere lo scopo; la terza conclusione (molto più azzardata) è che, siccome uno può anche darsi da fare e non riuscire lo stesso, il fatto A preluderà alla riuscita del fatto B se lo scopo per cui uno si dà da fare è inserito in un ordine cosmico, in un sentiero preordinato.        

    – ma a questo punto (dico io) il serpente si mangia la coda: qualcuno deve tornare a spiegarmi perché la coincidenza non sarebbe un segno del destino.

                                                              ***

    Prendiamo l’argomento da un altro lato. Gli storici antichi parlano spesso di fatti strani o miracolosi. Ricordo di aver letto in Plutarco il caso di un meteorite che venne a cadere tra due eserciti poco prima che si scontrassero. La battaglia fu sospesa, venne combattuta qualche giorno dopo, ma non decise le sorti della campagna militare. Ora, la caduta di un meteorite nella terra di nessuno fra due eserciti si presta bene a essere considerata di per sé un segno del destino (e questo già contraddice la prima conclusione). Ma un segno di che? Gli dei avevano ordinato di non combattere? La battaglia si fece lo stesso, qualche giorno dopo. Gli dei non volevano che si combattesse in quel giorno lì? E per questo era necessario che cadesse un meteorite (per di più con quella precisione!) solo per ritardare lo scontro di qualche giorno? Si dirà: era meglio che non combattessero, tanto è vero che poi, quando lo fecero, non decisero le sorti della guerra. Ma questo è fare la storia con i “se”! Tra l’altro, alla fine, la guerra fu decisa comunque. Mi piacerebbe sapere cosa ne avrebbe detto Jung.

    E poi ci sono dei fatti anche più problematici. Per esempio, come la mettiamo con i presentimenti? Si dice che a Padova un noto indovino dichiarò pubblicamente che in quel momento si stava verificando lo scontro armato fra Cesare e Pompeo, e poco più tardi gridò con tutto il fiato che aveva in corpo: “La vittoria è tua, Cesare!”. Data la distanza fra Padova e Farsalo (e l’assenza di telefoni cellulari) non si vede come Cesare avrebbe potuto trarre vantaggio dal presagio favorevole o come l’indovino abbia potuto avere notizia dei fatti. Inoltre, l’indovino aveva tutto l’interesse a star zitto: se avesse vinto Pompeo, oltre alla reputazione ci rimetteva anche la pelle.

    Che dire? La profezia era una pura e semplice coincidenza? L’indovino tifava per Cesare? Altri dieci indovini avevano pronosticato la vittoria di Pompeo? E siccome non lo sappiamo dovremmo vederci una ulteriore conferma del fatto che le coincidenze avvengono con molta frequenza, ma noi ricordiamo solo quelle connesse con ciò che ci interessa, o ci tocca, o ci commuove? Mi sembra un po’ tirata per i capelli. Non solo Plutarco (che era dichiaratamente religioso), ma anche Erodoto (che era più razionalista), citano un sacco di oracoli ai quali la Storia ha dato ragione. Forse altrettante profezie di segno contrario sono andate a vuoto e gli storici non le hanno citate perché non “facevano notizia”? Bisognerebbe dimostrarlo. E bisognerebbe anche spiegare cosa diavolo è passato per la testa dell’indovino di Padova.

    Nel profondo della mia ignoranza, mi limito a non costruire teorie. Quando le cose devono ancora succedere, chi non è sicuro di sé (cioè quasi tutti) si lascia impressionare dai presagi ma non riesce a interpretarli. Invece, quando le cose sono successe, i fatti sono lì, sotto gli occhi. Metterli in rapporto fra loro è il problema di ogni storico. In genere, la concatenazione degli avvenimenti risulta attribuibile a precise cause, precisi interessi. Ma a volte non è così, e allora si tira in ballo l’imprevedibilità dell’essere umano con i suoi vizi, le sue paure, le sue superstizioni. Invece è proprio qui che sta il guaio.

    L’eterogenesi dei fini è esperienza di tutti, e porta a pensare che la Storia si fa da sé. Questo non è fatalismo. Ammettere una razionalità immanente nella Storia è cosa ben diversa dalla superstizione. Individuare, per esempio, le vere cause della prima guerra mondiale è un’impresa così intricata da far tremare le vene ai polsi di qualunque storico; figuriamoci quanto gli sarebbe di aiuto il venire a sapere che una famosa indovina che si faceva chiamare Madame de Thèbes aveva previsto la morte violenta dell’arciduca Francesco Ferdinando seguita da una grande guerra!       

 

                       André Rieu e la sopravvivenza del mito                                                    

 

    Avete mai sentito nominare André Rieu? No? Be’, avete perso qualcosa. Ma ve ne parlo più avanti, perché il discorso va preso da lontano.

    Forse avete visto in televisione il concerto di Capodanno della Filarmonica di Vienna. I professori della più famosa orchestra sinfonica del mondo si riuniscono tradizionalmente la mattina di Capodanno sotto la bacchetta di un grande direttore per suonare, non musica classica, ma i valzer di Strauss. Come mai?

    Vienna è un posto tutto particolare. È vero che i viennesi parlano tedesco, ma per certi aspetti somigliano ai napoletani. Non c’è poi da meravigliarsene gran che. Vienna non è in Austria: è in Kakania (come Musil chiamava l’Impero Asburgico) e probabilmente non smetterà mai di starci. Tanto l’Austria è montanara e provinciale (e se non ci credete chiedetelo a Thomas Bernhard), tanto Vienna è cosmopolita. Un esempio: se ci andate in auto e uscite dall’autostrada a Schoenbrunn, scendendo verso il centro percorrerete la Mariahilfer (Maria dell’Aiuto), uno stradone pieno di negozi di tappeti. Sono tutti gestiti da ungheresi scappati a ovest ai tempi della cortina di ferro, e i viennesi hanno cambiato nome alla strada: la chiamano Magyarhilfer (Aiuto per i Magiari). Altro esempio: la chiesa più veneranda di Vienna è la cattedrale di Santo Stefano, ma quella che i viennesi sentono più propria è la chiesa di San Carlo (che è poi san Carlo Borromeo; proprio lui, il Sancarlone di Arona).

    Allo stesso modo, a Vienna (come a New York, ma in modo meno sfacciato) ci sono zone infeudate dalle varie nazionalità dell’ex impero: boemi, slovacchi, ruteni, sloveni, croati, turchi, romeni. Anche italiani. A Innsbruck o a Linz gli italiani non sono amati alla follia (diciamo così). A Vienna ognuno è rispettabile o detestabile per ciò che è, non per il paese da cui proviene. Come dicevo, l’Austria è una cosa, Vienna è un’altra.

    Una ulteriore caratteristica di Vienna è che ci sono passati tutti i più grandi musicisti della storia: Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Brahms, Wagner, Bruckner, Mahler, Richard Strauss, Schoenberg, Webern, ecc. ecc. I viennesi sono imbevuti di musica esattamente come i napoletani (vi avevo già detto qualcosa del genere, vero?). Ma non si sono scelti un beniamino fra i grandi. Mozart l’hanno regalato a Salisburgo. Bruckner a Sankt Florian. Beethoven l’hanno messo in alto, sull’ultimo ripiano dello scaffale, così non disturba.

    Vienna va matta per Johann Strauss, per il valzer. L’inno nazionale della Kakania non è più il “Gott erhalte”, ma “Il bel Danubio blu”. Con una coda importante: oltre a migliaia di valzer, polke e mazurke in confezione sciolta, Johann Strauss compose anche un’operetta, il “Pipistrello”, e la maggior parte dei viennesi non andrebbe a teatro neanche gratis per il Pierrot lunaire o l’Idomeneo, ma è disposta a pagare per ascoltare il Pipistrello. Sulla scia del Pipistrello arrivarono Lehar e gli altri facili melodisti che in poco più di mezzo secolo misero in piedi una letteratura operettistica impressionante, che va dalla Vedova allegra al Cavallino bianco. (C’è poco da storcere il naso: non sono operette anche West side story, Jesus Christ superstar, Hair, Evita, ecc. ecc.?)

    Ma non soltanto i viennesi vanno matti per le melodie in tre quarti: non c’è paesino di lingua tedesca, dalla stolida Prussia alla furbesca Saar, in cui il classico um-pa-pa non trascini immediatamente l’anima dei grassi Metzger e dei biondi Mueller in un sogno belle-époque sospeso tra Parigi e, appunto, Vienna. Perfino i teutoni più refrattari al riso e al buonumore si deliziano agli scherzi (studiati e programmati) che le orchestre infilano fra una polka-schnell e le storielle del Wienerwald. Nel valzer, e solo lì, ostrogoti e visigoti ammettono l’irruzione dello humour viennese, del Witz, della gag anche un po’ grassa ma interpretata da gentiluomini in frak (il che la rende anche più esilarante).

    Be’, vi ricordate che all’inizio vi ho chiesto se conoscete André Rieu? Chi è costui? Adesso posso dirvelo: nonostante il nome francese, André Rieu è nato a Maastricht quasi sessant’anni fa (ne dimostra quindici di meno) e fra le cinque o sei lingue che parla elenca orgogliosamente per prima il dialetto limburghese. Ha studiato violino al conservatorio ma, dopo averci provato senza troppo successo, ha capito che la sua strada non era quella del solista. Però non si è dato per vinto. Ha messo insieme un’orchestra di quaranta-cinquanta elementi e gira per il mondo, ma soprattutto per i paesi di lingua tedesca, riunendo folle smisurate. Per le sue esibizioni ci vogliono anfiteatri della capienza di un’arena di Verona. Rieu incanta il suo pubblico con valzer, arie di operetta, joedler, la canzoncina di Heidi, tutto fa brodo. In salsa deutsch, è l’equivalente di Arbore e la sua orchestra (vi ho già detto qualcosa a proposito di Vienna e Napoli, vero?). Ma moltiplicato per dieci.

    Perché vi racconto tutto questo? Per consolarvi: non siamo soltanto noi italiani a vivere di nostalgie per mondi ideali che non esistono più (se mai sono esistiti). La differenza è che noi sognamo repubbliche platoniche, mentre la gente concreta come i tedeschi va in brodo di giuggiole sognando i séparé di Chez Maxim e canticchiando i valzer della Vedova Allegra. André Rieu l’ha capito e ha trovato l’America in Germania: non conosco la sua denuncia dei redditi, ma ho letto da qualche parte che il suo violino è uno Stradivari datato 1667.

 

                                          Mia Hoffmann

 

    Mia Hoffmann è scrittrice e pittrice. Fino al 13 dicembre 2006 ha tenuto un blog al quale mi ha invitato a collaborare per qualche tempo. Successivamente, con la subitaneità degli artisti purosangue, Mia chiuse il blog e letteralmente sparì dalla rete. Oggi (1/2/2008) sono tornato sul sito con l’idea di ricuperare qualche stralcio della sua prosa superespressionistica, e ho trovato l’indicazione (non il link) di due altri siti. Ci sono andato, ma non ho incontrato altre tracce della sua presenza. Eppure questo segno di vita dopo più di un anno di silenzio è importante: Mia è in qualche modo riemersa dal suo volontario esilio. Può darsi che fra poco torni a irrompere nel web, magari attraverso youtube, magari in qualche nuova forma di ricerca artistica.

In attesa del suo ritorno, ripropongo un breve pezzo del luglio 2006 in cui Mia interpreta il disagio di una generazione, e nel quale, con il senno del poi, sono già avvertibili i prodromi della sua fuga.

 

 

    E’ cominciata la spoliazione, siamo in de-costruzione, avanziamo per sottrazione. Abbiamo tolto i binari – dice lui – e che la vita vada dove cazzo le pare. Già la sento – aggiunge – è fluida.
    Regalato l’arredamento minimal, venduta la moto in carbonio, chiusa l’attività, messa in vendita la 2CV customizzata, disdetto l’appartamento extralarge, eliminate le schede-SIM-sempre-reperibili, scomparsi per qualche centinaio di pseudo conoscenze a testa, dissociati da associazioni, eventi, iniziative, incontri, cene e gruppi conviviali, rispedite al mittente le partecipazioni a matrimoni cresime e battesimi, depennati da siti, segreterie e rubriche private, non ci rimane che liberarci di noi. Ho rasato i capelli, ha smesso di tagliarli; acquistiamo solo per necessità. Non abbiamo preso una scelta radicale, è una realizzazione istintuale. Non abbiamo scopo. E’ una questione dinamica in cui lo schema programmatico fa attrito. Tolti i binari le aspettative contestuali non possono raggiungerci, né prevedere scali o partenze, né influenzare tempi di percorrenza. Non abbiamo ragioni con cui difenderci. Non pretendiamo di essere felici. Abbiamo trent’anni, solo questo. L ha mollato il lavoro manageriale e l’appartamento newyorkese e, stando alle ultime notizie, vive a Parigi in una comune. F ha mollato tutto e si sposta da un subaffitto all’altro con una valigia di cartone. M ha lasciato la dirigenza di bla bla bla per fare il carrozziere, ed ora progetta la fuga. P ha chiuso la ditta e ha smesso di lavorare. R si è ritirato in casa. Z ha chiuso con la fotografia e si è costruita una fattoria in Brasile. F ha chiuso con il design e fa il fabbro a tempo perso. O abbiamo anticipato la crisi di mezza età o semplicemente stiamo imparando la flessibilità.
    Senza pubblico, senza scena, gli uomini improvvisano.

 

 

                                                 Aborto

 

    Ogni tanto i miei post provocano una reazione un po’ stizzita: ma insomma tu da che parte stai? Ho constatato che rispondere la verità (e cioè che di ogni questione vorrei capire bene la sostanza, invece di prendere posizione a priori per poi trascinare a forza i fatti dalla mia parte) serve solo a fare incupire chi mi rimprovera. Questa volta è anche peggio, perché non ho una preparazione medico-scientifica, non sono un esperto di morale, e quando ho cercato di approfondire l’argomento leggendo i giornali non sono riuscito a farmi un quadro chiaro della faccenda. Parlo della questione dell’aborto e della necessità o meno di riformare la legge 194. Scommetto che, se si facesse un referendum, la maggioranza degli italiani prenderebbe posizione seguendo pedissequamente le indicazioni dei partiti. In effetti che c’è di più comodo che appaltare ad altri (religione o politica) la propria coscienza? Io invece in queste cose sono masochista: mi piace soffrire, e con la mia coscienza voglio vedermela da solo.

    Probabilmente la faccio troppo facile, ma ho la ferma convinzione che uccidere un essere umano vivo sia omicidio. Quindi, il bene e il male dipendono dal momento in cui un essere umano diventa vivo. Ora, in Italia e in molti altri paesi civili, la legge ammette l’aborto ma si guarda bene dal dichiarare che il feto diventa un essere umano vivo in questa o quella settimana di gestazione. La legge si disinteressa del problema morale. Si limita a dire: chi crede che il feto non sia un essere umano vivo può abortire nei modi previsti dalla legge, chi crede il contrario se la veda con la sua coscienza.

    Da un certo punto di vista, si potrebbe anche considerarla una presa di posizione ipocrita. Ma lo stato non può fare diversamente se vuole tutelare il diritto di alcuni da chi vorrebbe coartarli, senza però coartare questi ultimi. Altrimenti non resta che lo stato etico, cioè quello che dice ai cittadini: che cosa è bene e che cosa è male lo so soltanto io; voi fate quello che dico senza discutere, se no finite al gabbio.

    Dunque, credo io, lo stato può proibire e punire le conseguenze aberranti dell’esercizio della libertà, ma non può restringere la libertà in quanto tale. Tanto per scendere dall’astratto al concreto: una volta che la sperimentazione medico-scientifica sugli ovuli fosse proibita in Italia e permessa altrove, e una volta che ciò consentisse (altrove) di raggiungere risultati decisivi per guarire da certe malattie, cosa dovremmo fare, rifiutarci di usare quei risultati perché ottenuti in un modo che da noi è illegale?

    D’altra parte, se è vero che i legislatori preferiscono non andare troppo contro l’opinione pubblica, è anche vero che, a volte, l’opinione pubblica ha bisogno che lo stato la difenda da se stessa.

    Chi non vorrebbe per sé e per gli altri il massimo della libertà? Già quando si dice il massimo della libertà possibile qualcuno storce il naso. Eppure la libertà deve avere un limite. Che non è soltanto la libertà degli altri, secondo il vecchio assioma illuminista, ma è anche il senso di responsabilità.

    Facciamo un caso estremo, nel quale non mi sogno neanche di prendere una posizione: durante la guerra in Bosnia si verificò il caso di miliziani di una parte che, nel quadro di quella che si chiamò “pulizia etnica”, stuprarono e ingravidarono dolosamente donne dell’etnia nemica. Che dovevano fare queste donne? Chi può pensare di condannare anche solo moralmente quelle che decisero di abortire? Ma, d’altra parte, lui, il feto o il bambino (dopo tutto, chi lo sa qual è il momento esatto in cui si diventa un essere umano vivo?) che colpa aveva? Perché non aveva il diritto di vivere? Questo è un problema al quale, ripeto, non riesco a dare una soluzione né in un senso né nell’altro.

    Ecco: come si fa a prendere una posizione chiara e netta su certi problemi? Come dovrebbe/potrebbe essere giustificato l’annullamento di un progetto di vita che forse è già vivo? E visto che a quel progetto hanno collaborato in due, perché solo uno dovrebbe prendersene la responsabilità? Lo stato esiste per tutelare la libertà dei singoli, ma deve pur fornire una guida: se tutto fosse lasciato alla assoluta libertà del singolo avremmo madri-nonne imbottite di ormoni raggianti e soddisfatte (chissà se il figlio-nipote sarà altrettanto soddisfatto?), mogli che chiederanno la fecondazione eterologa contro il parere o magari all’insaputa del marito, e ogni genere di prevaricazione delle libertà altrui in nome della propria.

    Immagino l’obiezione radicale: e chi ti dice che sia un male?

    Già, ma chi garantisce che non lo sia? Può darsi che i manipolatori genetici non creino mostri, ma se poi succedesse? Ha senso impedire allo stato di regolare una materia per poi dipendere solo dal buon senso di chi magari non ne ha? E in ultima analisi lo stato, la società civile, deve limitarsi a sanzionare i comportamenti aberranti o ha anche il dovere di prevenirli per quanto possibile?

    Confesso di non avere risposte. Personalmente credo che la procreazione debba essere responsabile (e non condivido certe opposizioni preconcette ai preservativi), ma ho grosse difficoltà a risolvere il problema delle gravidanze indesiderate con l’aborto. Perché non esiste un programma di maternità protetta e aiutata (come si proteggono e si aiutano i testimoni dei processi di mafia) per poi affidare il figlio all’adozione di una famiglia che non aspetta altro?

    Sono fermamente convinto che le donne abbiano il diritto e il dovere di emanciparsi da una condizione subordinata che non ha giustificazioni. Ma se lo facessero rinunciando a essere donne, non farebbero innanzitutto del male a se stesse? 

 

                  

                                Notti attiche e orologi a cucù 

 

    Ho letto le “Notti attiche” di Aulo Gellio e mi è tornata in mente la battuta di Orson Welles nel film “Il terzo uomo”. L’Italia del rinascimento era tutta guerre, congiure, sommosse, e ha prodotto Leonardo, Raffaello, Michelangelo. La Svizzera non fa una guerra da cinquecento anni e che cosa ha prodotto? L’orologio a cucù!

    Non so bene come dirlo: da un lato non me la sento di raccomandare la lettura delle Notti attiche, dall’altro io le ho lette e mi ci sono divertito. Non ho il coraggio di raccomandare un libro di appunti, pensieri alla rinfusa, disquisizioni sulla quantità di una certa vocale, etimologie assurde e gossip su questo o quel personaggio storico. Però mi ha fatto entrare nello spirito del II secolo dopo Cristo e ci ho trovato un sacco di analogie con la Svizzera degli orologi a cucù (e con l’Italia di oggi). 

    Aulo Gellio è uno di quei cultori del passato che conoscono a memoria tutti i poeti latini e buona parte di quelli greci. Gira per i bouquinistes di Roma e di Atene alla ricerca di codici antichi e quando li trova di che si preoccupa? Di controllare se nel verso tale del libro tale Virgilio ha scritto propterea tutto attaccato oppure propter ea. Io leggo le sue sincere indignazioni nei confronti dei giovani ignoranti e saputelli, e penso che fanno il paio con quel che ho letto sul giornale qualche giorno fa: un ristoratore è stato denunciato per sevizie contro gli animali perché teneva le aragoste in ghiaccio. A un legionario schierato contro i Parti quanto gliene fregava se Virgilio scriveva così o cosà? Esattamente quanto gliene frega delle aragoste a un carabiniere di servizio in Afghanistan. Ma le aragoste restano sotto ghiaccio e i soldati restano in Afghanistan. Come mai? Bella domanda.

    E dunque, eccomi daccapo con le Notti attiche e il problema che sottintendono. Il secondo secolo, il periodo d’oro dell’impero romano, non ha prodotto niente di paragonabile a Virgilio, Orazio, Tito Livio, che invece si trovarono a vivere in epoche ben più travagliate. Nel periodo più pacifico e opulento della storia romana Aulo Gellio, che pure non ha l’aria di essere del tutto cretino, non ha trovato di meglio che dilettarsi di filologia e scienze miscellanee. Possibile che davvero la cultura inaridisca se non ci sono contrasti violenti? 

    Io non ci credo. Nei secoli successivi l’impero fu dilaniato dalle guerre civili, poi arrivarono i barbari e il mondo fu tutta una guerra. Ma la cultura batté in ritirata fino a sprofondare nel medioevo. E, per tornare ai giorni nostri, lasciate che vi dica la mia sincera opinione: non sono convinto che l’ultimo dopoguerra ci abbia portato gran che. Chi non c’era esalta il neorealismo, sciuscià e ladri di biciclette, l’esistenzialismo boulevardier di Sartre e Juliette Gréco, il sesso cupo e disperato di Moravia e Pasolini, i mondi astrusi di Fellini e Antonioni: ma che palle! È un’opinione personale, naturalmente, ma io che c’ero ricordo più volentieri il sarchiapone di Walter Chiari.

    Eppure l’idea è dura a morire: quando le cose si assestano e le guerre vengono relegate in zone lontane, la cultura inaridisce. Ma non sarà il contrario? Forse la cultura di tanto in tanto inaridisce per conto suo, i grandi scontri ideologici si smorzano e le guerre, se pure scoppiano, non si propagano.

    In fin dei conti, come evolve la cultura? Come la politica, come la guerra. A poco a poco, con lotte sorde e coltellate alla schiena, si impone un certo stile; gli esponenti dello stile vincente, secondo la definizione di Arbasino, si impongono come “giovani promesse”, diventano quasi subito “venerati maestri” e rapidamente decadono a “soliti stronzi”; dopodiché, nuovo round di lotte sorde e coltellate alla schiena, a seguito delle quali subentra una nuova avanguardia. E via così.

    Chi lavora tutto il santo giorno non ha voglia di fare la guerra e non ha tempo per pensare. Invece gli intellettuali saltano i pasti, pensano e sbraitano per farsi sentire. Avete presenti le monumentali cazzate che strillavano nei primi anni del Novecento? “Guerra, sola igiene del mondo!”. Poi, a conflitto concluso, quando i superstiti si leccano le ferite, arriva il Thomas Mann o il Günther Grass di turno a rimproverare i bottegai di essere stati ciechi, minchioni e autolesionisti per aver dato retta agli intellettuali (ma loro dove stavano? perché non l’hanno detto prima?).

    Al contrario, quando la cultura non trova grandi motivi per litigare si adagia nei porti sicuri della filologia, del restauro, della conservazione dei beni culturali. Insomma, si rifugia nel culto del passato; e il clima retrospettivo produce uomini sconfortati e delusi come l’imperatore Adriano, vecchie mummie come Breznev, emeriti fessi come Jimmy Carter, insigni mediocrità come Forlani e Mastella. Tutti bravissimi a gestire le decadenze e a procrastinare l’inevitabile.      

    Ciò che sembra mancare ad Aulo Gellio, alla Svizzera degli orologi a cucù e all’Italia di oggi, è un progetto per cui valga la pena di darsi da fare, un avvenire desiderabile e possibile. Gli intellettuali farebbero meglio a darsi una mossa e guardare avanti: non so perché, ma qualcosa mi dice che i barbari sono alle porte e, se nessuno si dà da fare, al nostro futuro ci penseranno loro.

 

                                Il Cavaliere della Rosa

 

    Secondo un modo di dire di fine Ottocento, a Vienna in ogni strada abitava un genio. Non era uno sproposito: nell’arco di una generazione, prima di sprofondare nella guerra e nel disastro, la capitale dell’ultimo impero vide una rivoluzione in tutte le arti e in tutte le scienze. Il fenomeno aveva la sua spiegazione in una serie di coincidenze: una lunga espansione economica, un impero multietnico, un imperatore-simbolo che non moriva mai, imbalsamava le contraddizioni e mascherava fino all’ultimo l’agonia di una civiltà.

    Tra i letterati, che hanno per missione la sensibilità a ciò che nasce e a ciò che muore, soltanto Hofmannsthal si rivolse con un sorriso a un mondo che si ostinava a sopravvivere a se stesso. Nel “Cavaliere della rosa” non ci sono i sarcasmi di Kraus, l’ironia di Musil o i tremori di Kafka. Hofmannsthal contempla con serenità i formalismi desueti, le fisime nobiliari che vanno in archivio. Confida nell’immortalità dei sentimenti. Sorride ai suoi personaggi con la nostalgia di ogni addio e con la vaga speranza di una metempsicosi: quei sentimenti trasmigreranno in altri corpi, in epoche nuove.

    La storia del Cavaliere della rosa può sembrare troppo semplice o troppo complicata. In pieno Settecento, il conte Ottaviano, diciassettenne amante di una gran dama (la Feldmarescialla Maria Teresa), deve far da compare d’anello a un nobile volgare e squattrinato (il barone Ochs von Lerchenau) che impalma per soldi la figlia di un intrallazzatore (Sophie von Faninal). Ma Ottaviano si innamora di Sophie e per screditare Ochs organizza una burla. Alla fine dovrà fare i conti con Maria Teresa, e saranno conti malinconici.

    In fondo è una storia risaputa, un antico canovaccio da commedia dell’arte. Ci si traveste, ci si corteggia, ci si inganna. E tutto questo si svolge in pieno “gran teatro del mondo”. Nella camera da letto della Marescialla o nel palazzo di città dei Faninal, oppure in una locanda compiacente, è tutto un pullulare di servitori in livrea, maggiordomi, istitutrici, notai, postulanti, modiste, cantanti, suonatori, osti, vetturini, camerieri, poliziotti e intriganti. Hofmannsthal li mette in scena sullo sfondo di una città settecentesca che è riconoscibile in Vienna solo per l’uso micidiale dei dialetti, ma potrebbe tranquillamente essere Parigi o Napoli (con buona pace di chi vorrebbe ridurre il Rosenkavalier a manifesto dell’austriacità).   

    All’alzarsi del sipario i personaggi sono legati l’uno all’altro in un equilibrio di sentimenti semplici: esuberanza, ingenuità, vanità, avidità, inquietudine. Ma è un equilibrio instabile, che ha in se stesso i germi della disgregazione. Dopo la crisi del secondo atto e la mezza catastrofe del terzo, il mosaico si ricomporrà in un equilibrio di sentimenti altrettanto precari, ma molto più sofisticati. Il finale ingombra la scena di personaggi e comparse, per poi ridurla a una stanza vuota, dove tutto sembra soffocare in un velo di malinconia. E quando pare ormai acquisita la morale cinica di una favola farsesca, un’ultima invenzione teatrale ribalta ancora la prospettiva. Da un palco nascosto, l’autore-demiurgo sorride come sorridono gli dei nei poemi di Omero.

    Cosa è accaduto? Niente più che una lunga serie di sorrisi, in perfetto stile viennese. Ride sotto i baffi il commissario di polizia mentre minaccia di arresto il libertino barone Ochs. Ridono i due intriganti italiani che finalmente agguantano il successo. Sogghignano i quattro bambini prezzolati per strillare “Papà!”, l’oste con il conto in mano, i camerieri che reclamano la mancia, i vetturini che rumoreggiano nel loro orripilante dialetto. La burla è riuscita. Ochs, sconfitto su tutta la linea, batte in ritirata e tutti sanno che il conte Ottaviano aprirà i cordoni della borsa.

    Eppure il conte ha altro da pensare: è preso tra due fuochi dalla Marescialla Teresa, l’amante, e da Sophie, il nuovo amore. Non sa decidersi, e nell’ingenuo conflitto dei sentimenti non trova di meglio che sorridere. Sophie, abbandonata/liberata da Ochs, vede Ottaviano riavvicinarsi a Teresa, tanto più nobile e potente di lei. Vorrebbe sprofondare ma non può: deve far fronte, fino in fondo, e sorride per nascondere l’imbarazzo. La Marescialla sa fin troppo bene che Ottaviano la lascerà, oggi o domani o un altro giorno: il tempo passa, e fermare i pendoli degli orologi non serve a niente. Che si può fare? Nulla. Solo sorridere, e lasciare che le cose vadano per il loro verso naturale.

    Sorride anche il padre di Sophie, che non ha capito granché, ma sa che sua figlia sposerà un gran signore (e poco importa se l’amore in poco tempo se ne andrà, questo lo sa anche lui, non è così per tutti?). Oggi tutto è bene quel che finisce bene, dunque possiamo sorridere. 

    Ecco: tutto crollerà. Il mondo dei borghesi come quello dei nobili. Le illusioni degli amori di gioventù e le malinconie degli amori di mezza età. Il frenetico dibattersi degli avventurieri e i falstaffiani bluff dei nobili strapelati. Ma anche quando gli osti, i camerieri, i vetturini saranno diventati classe dominante, il conflitto tra vitalismo e melanconia riavvierà lo stesso eterno ciclo: innamoramento/ fine della passione/ sofferenza/ tradimento/ nuovo amore. Il progresso sociale non sposta neanche una virgola nei sentimenti.

    Cambia solo il punto di vista. In ogni storia, in ogni momento di crisi, c’è un giovane (una classe sociale emergente) che ha il futuro davanti e lo guarda con una speranza così ingenua da far tenerezza. E c’è anche una persona di mezza età (una classe sociale avviata a un inarrestabile declino) che vede più in là del futuro ed è quasi atterrita dal suo stesso cinismo.

    “È stata solo una farsa” mormora la Marescialla pensando alla sua ultima illusione. “È stata solo una farsa?” si domanda Sophie, tremando al pensiero che Ottaviano si sia preso gioco di lei. In realtà, dice Hofmannsthal, è sempre una farsa e finisce sempre con un sorriso amaro. 

    E Ochs?

    Che fine ha fatto il libertino cacciatore di dote, Priapo impenitente, sboccato, volgarotto, allegro e fanfarone? L’hanno cacciato via, come succede nelle farse, smascherato e sconfitto. Ma non del tutto. Ochs, come Falstaff, è un carattere immortale e non può morire in scena. Quando Ottaviano e Sophie tenendosi per mano corrono verso una fugace felicità, la scena resta vuota. Ma la musica continua. In mezzo al palcoscenico è rimasto il fazzoletto di trina che Sophie ha lasciato cadere. Una porta si apre, il servo negro della Marescialla fa capolino, si avvicina al proscenio, agguanta il fazzoletto e saltellando se ne va.

    È adesso, sulle ultime note dell’orchestra, mentre il sipario cala in fretta, che riappare il sorriso di Ochs, il sorriso di Hofmannsthal, il sorriso di chi sa che questa è la storia e doveva essere così.

 

                                              Hegel

 

    Ci sono momenti della vita in cui si rilegge un libro perché all’improvviso ci sembra che abbia significato qualcosa di importante per noi, che lo abbiamo perso di vista ma non vogliamo dimenticarlo, e allora lo riprendiamo in mano con la voglia inconfessata di lasciarci andare alla nostalgia. Per certi libri capita più di una volta, in epoche differenti, e con qualcuno l’operazione-nostalgia funziona. Con altri no, e sono i libri più validi: quelli che, invece di farci riassaporare le stesse sensazioni, ci fanno scoprire a ogni rilettura qualcosa di nuovo, che ricordiamo di aver letto ma non avevamo capito, o non l’avevamo capito in quel modo lì.

    Sulla testata del mio letto tengo molti libri. C’è la Divina Commedia che rileggo più o meno una volta all’anno, da cima a fondo, come se fosse un romanzo (e lo è: il più bel viaggio iniziatico che sia mai stato scritto). Ci sono un Pirandello e un Thomas Mann che ho cominciato a leggere, li ho piantati dopo una trentina di pagine e non li ho più riaperti, ma sono ancora lì perché non si sa mai. Ci sono altri libri di vario genere. E poi c’è la Fenomenologia dello Spirito.

    Credo che si tratti del libro più difficile che sia mai stato scritto. Garantisco a tutti coloro che hanno studiato Hegel al liceo che le pagine sulle quali ci siamo spaccati la testa a diciott’anni sono zucchero filato in confronto a ciò che il Giorgio Guglielmo Federico ha scritto di suo pugno nel 1807 con la penna d’oca. Ciò non toglie che al liceo, quando leggevo e credevo di capire il testo di storia della filosofia, tutto ciò che ottenevo era la soddisfazione di sentirmi pronto per l’interrogazione; invece adesso, quando leggo il Giorgio eccetera con tanto di testo originale a fronte, se nelle più profonde latebre cerebrali mi si accende un facsimile di scintilla, mi pare di arrivare in cima all’Everest e ho quasi paura a guardar giù. (Ho sempre patito l’acrofobia).

    Certo che è difficile farci il callo. Si legge e si rilegge, lo si lascia lì e lo si riprende in mano, si fa passare qualche anno e poi lo si riapre: non è mai definitivamente acquisito; ogni volta che ci ritorni sopra, il Giorgio eccetera torna a stupirti; ogni volta si offre da un angolo diverso, e ogni volta ti sembra che solo quello, solo l’ultimo, sia l’angolo giusto. È un fenomeno che si verifica con tutti i classici, che diventano tali proprio perché sembrano sempre diversi: dipende dalle età della vita in cui li leggi e li rileggi.

    Sto rileggendo la Fenomenologia per la nonsopiùquantesima volta e la chiave di lettura è diventata teologica. Razionalmente, so di non aver mai trascurato questo aspetto; ma non mi ero mai reso conto della sofferenza con cui Hegel lo viveva (semplicemente perché, non avendola ancora sofferta io, non potevo sentire nella mia carne la sofferenza altrui).

    La vita dello Spirito non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte…, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa… Lo Spirito è questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e permane in esso. Questo permanere è la magia che converte il negativo nell’Essere.     

    Chissà perché non avevo mai fatto caso che queste parole di Hegel sono da lui stesso riferite al mistero della morte di Dio sulla croce.

    Al dolore infinito contenuto nella frase “Gott gestorben ist” il Concetto puro deve conferire l’idea della libertà assoluta, e quindi la Passione assoluta, il Venerdì Santo speculativo, che fu un fatto storico… in tutta la verità e con tutta la durezza dell’assenza di Dio. 

    Rileggo e sento sulla pelle, sotto la pelle, la fatica immensa del mondo nel suo divenire conflittuale, nel suo svolgersi obbligato in perenni antitesi che affondano nella negatività, nella morte di Dio. Leggo, e mi sembra di ascoltare le rocce, i pianeti, le sfere celesti che gridano: “Dio, perché mi hai abbandonato?”. Leggo, e sento soffrire Hegel come Leopardi, come Kafka; lo sento dibattersi e lottare mentre si domanda: perché mi hai condannato a una realtà senza scampo, che non è soltanto morte, ma dolore apparentemente senza fine e senza scopo?                                                           

    Non avevo mai sentito un filosofo così vicino, e umano, e disperato. Non mi ero mai accorto di quanto abbia sofferto quest’uomo tutto cervello nel mettere a punto il suo sistema rivoluzionario. Sì, siamo condannati a vivere in un mondo antipode, negativo, dove tutto è il contrario di come vorremmo; siamo chiusi in un inferno in cui tutti, dinosauri, mammiferi, uomini, sono costretti a sbranarsi l’un l’altro e l’evoluzione mette in scena il cannibalismo della vita che divora se stessa.

    Eppure questo conflitto infinito, questi orrori incessanti, porteranno alla generazione dello Spirito assoluto così come il Venerdì santo, dalla morte di Dio, porta alla risurrezione e all’avvento dello Spirito Santo. Certo, è paradossale che la Ragione si sviluppi attraverso il dolore e che una serie infinita di sofferenze sia necessaria per farla diventare Spirito, libertà, gioia assoluta. Eppure, come si potrebbe spiegare il dato oggettivo dell’evoluzione se il dolore del mondo fosse l’unica realtà, se lo scontro di tesi e antitesi non avesse altro scopo che la sofferenza? Se questo mondo pieno di morte esistesse soltanto per perpetuare il dolore universale, la vita sarebbe una colpa, un peccato originale. E una volta presa coscienza di un verdetto così orribile, la vita dovrebbe estinguersi, prima per cannibalismo, poi per suicidio.

    Se questo non è successo, se la vita non si è estinta, pur con tutti i suoi orrori, pur intrisa com’è di morte, può darsi che non possieda soltanto la capacità di animare organismi complessi e scagliarli uno contro l’altro, ma anche la speranza di qualcosa che la morte non può distruggere. E se è così, allora la vita non è un peccato originale che prima o poi bisogna inesorabilmente scontare: la morte non è una punizione, e vivere non è una colpa.    

 

                                              Quetzalcoatl 

 

    Nella iconografia messicana Quetzalcoatl è raffigurato in tunica bianca, con i capelli rossi e gli occhi azzurri. È probabile che intorno all’anno 1000 un vichingo o un normanno sia arrivato sulla costa orientale del Messico e sia stato considerato l’apparizione di un dio dell’Olimpo precolombiano. Le leggende alle quali ha dato origine sono molte e contraddittorie. Sulla sua fine esistono versioni discordanti e io ne ho preso spunto per scrivere un racconto che poi è entrato a far parte de “I nomi sacri” (lo trovate all’inizio della tera parte).

 

 

                  Io sono la scimmia, l’uomo è superato          

 

di Franz Krauspenhaar

 

Io sono il più figo, il più tremendo
con tutte le ragazze sono come
il rocky roberts, con manetti di passion,
e io spakko tutto, e io rockabilly,
io vinco io slargo io svello,
io sono il più figo der bigonzo
er cecio alto, il fungo atomico
il forzaotto, il poeta salvifico
il crepapadrone! tutto va bene
il figo dei fighi, il super dei supra,
io sono l’alighiero ed il noschese
il frizzi e il lazzi, il bibendum sbronzi,
il kleenex raro, il bombanonbomba
il diofà, il melangelo, il miguel son semper
mi, io sono il do, il la, il niet, il des,
il der die das, il sturm, il drang
l’arindranghete, il balossa, l’udo,
il finnico, il menarca, l’anarca gittato
e il cavalcavia al culo, il delinquez
e il paccalabala, l’hombre vertical
e il razzo uomo, la pantera afghana
il meltingpoppele, l’absurdioclimax,
il feci la reverie di rito, il pavone
sempiterno, il guazzo a rombo 50×70
l’anacreonte rorido, il mellinstofele
l’arcano diuturno ambagio tre per due,
la saponara mingozzi, e abbagnara,
e mio zio, su nella villa, a palmi beach,
e sono il pesce con un occhio solo, sono corso,
sono l’urlo e il fetore, sono il plasmon
antralocita, sono la paranza sul mar cujolivre
sono lynch dall’occhio in su per il waffencréme,
sono la topamorta che pulsa di biscotti ashanti
al pelo di somara, sono il purè coi fiocchi rosa,
e il célinenand, che scoppia di ss in danimarca, sono
il gheriglio teso in dura noce massello semeraro,
sono il vincitore dello slam, che la porta bitocca
sbatta presto e se li porti al diablo tutti, che
slammi la porta, che svanghi che spacchi
che sfondi, io sono il best, il strongest
del contest, io sono il winner, io sò io,
e voi nun siete un cazzo, io sono del grillo
il marchese anni 2000, il sordiano a voci in toro,
e il frutti tuddi, e il sardomatico andale andale,
io sono il cuxco in pera di cacio e fregassai, io sono
quel che sputi, puttanoroscopo segno del vacco
al triclinio sunnita, io sono il de niro al bacioperugia
in jackie brown, con mutande calation, io sono il fonzie,
io sono è vero vero mi son messo davanti un sombrero,
è vero è vero muovo il culo come un salsero,
io sono l’ambassador muratto, io sono il sigarone – vengo
a prenderti stasera con la mia turbato blu – io sono
il sagomato pingitore delle cene romane aggenerone,
io sono il fantozzi, il luttazzi, il paolo mengoli e il mistermengele,
io sono l’ultrabrait, il beneduce, il farolfidoc, il genoacity,
il tenco dead, l’alive grassilli, io sono i karamazov mit der zoff,
il cazzikov, il medardorouge, il van hanegem rep und grabowski,
l’haan arie arie tu mi suggi le bananies, il zuid afrikaaparhta,
il ricordo di giorgio porcaro, il mentelatte locale, il zugo
su per il swisskul, la galleria fellini su per il cunnie, il soldie
e il goldie hawn, l’unica donna che col nome sbadiglia,
io sono il fracicoso, il tashalcortego in supposte mobili
di prodotto angelini superil, io sono il wehrmachtfreiarbeit,
io sono le mie lunghe notti codarde, il minoico dei poeti
beat, il mesozoico di fruttero, io sono le arachidi allo zoo
di berlino, io sono la scimmia, che nella poesia di corso
attende all’uscita i tedeschi dell’est e quelli dell’ovest
tornare alle uniche origini dell’uomo, questo pugno d’ossa
e di carne rossa superato, questo sfigato simile dell’io,
questo declino dell’essere al nulla rivoltato, come cappotto
gogoliano a pere, spantegato sul collio canino, dove volano
le nutrie pensate da max ernst, inseguite da coralli a squalo,
dove muoiono le sentenze e nulla appare all’ultimo plancton
dell’increazione a rovescio, e finirò così, a lanciare l’osso
al contrario, finchè il bufalo rinascerà dalle mie ceneri,
e poi altre specie lontane dalle sue, fino all’ultima crosta
di volatile, dopo la nascita del primo dinosauro, in caldi
e freddi mortali, e dopo l’ultima mosca primigenia
e l’ultimo seme per terra che sia primo,
volante verso il buco nero d’ogni inizio.

  

 

                                

Quasi quattro anni fa postai su Uffenwanken questo articoletto semiserio. Non mi ripromettevo niente di speciale, invece ci fu da divertirsi. Date un’occhiata: ci troverete la migliore espressione del gallismo nostrano che riemerge al di sotto della patina politicamente corretta. Due noti scrittori si vantano, uno di raggiungere “vette siderali” a letto, l’altro di far urlare le sue partner. Un noto blogger elenca i sintomi dell’orgasmo femminile con l’aria di averli scoperti lui. Eccetera eccetera. Alla fine sopraggiunge una ignota Sofie (un evidente pseudonimo, ma di chi?) la quale, con bel garbo, mette a posto tutti. 

 

                            Perché le donne fingono ?

 

    Nelle Memorie di Giacomo Casanova si legge una illuminante riflessione: la maledizione della vecchiaia consiste nell’essere ancora capace di godere ma non più in grado di far godere, e siccome il piacere di un uomo deriva per tre quarti dal vedere sul volto dell’amata il piacere che le ha dato, ciò che rimane si riduce a ben poca cosa.

    Fin qui il Giacomo nazionale, orgoglio e vanto del gallismo italico. Ma chi ha imparato a conoscerlo un po’ sa che Casanova bara. È vero che una buona parte del piacere di un uomo dipende dalla conferma della propria virilità (e infatti se una donna nel salone del parrucchiere vuol fare sghignazzare le amiche racconta che Tizio, dopo aver fatto sesso, le ha chiesto: “Ti è piaciuto?”). Ma il Nostro confonde le carte quando si dipinge preoccupato di far godere la compagna e si dispiace di non poterlo più fare: in realtà gli rincresce di non godere più come una volta, e arzigogola per cercare scuse (altro esercizio in cui è maestro).  

    Perché sono così severo con il nostro latin lover? Perché, si sa, le donne fingono. Cosa direbbe Casanova davanti alla famosa performance di Meg Ryan in “Harry, ti presento Sally”? Forse proverebbe a vantarsi: lui, con la sua lunga pratica di attrici, non ci cascherebbe mai. Ma la realtà è un’altra. Come ogni uomo sa, è assolutamente impossibile sapere se una donna ha goduto o ha finto. E non valgono neanche le prove a posteriori: il fatto che una donna, dopo aver fatto sesso con te, voglia farlo ancora significa solo che ha in mente qualcosa. Qualcosa che non c’entra con le tue illusioni da gallo.

    A nessuno dei lettori, beninteso, è mai successo niente di ciò che sto per dire (vero?). Non mi sognerei mai neppure di pensarlo! Ma per puro esercizio retorico provate a immaginare una cosa così. (Ribadisco: a voi non è mai successo!). Avete fatto faticosamente del vostro meglio. Apparentemente, lei ha collaborato con scarso entusiasmo. Nel momento culminante del finale travolgente (si fa per dire) c’è stato un sospiro, un “ooh” fioco e roco, una lievissima contrazione. Occhi chiusi, naturalmente. Espressione imperscrutabile. Siete rotolati di fianco e avete fissato il soffitto cercando di trattenere il fiatone. Lei ha fatto passare venti secondi, poi si è rannicchiata contro la vostra spalla.

    E adesso? Poche storie: se le credete, o le volete credere, lasciamo perdere. Siete dei filosofi. Ma se non le credete, dovete domandarvi perché fingeva.

    In effetti, non c’è neanche bisogno di non crederle: basta il dubbio. I suoni erano forzati, i movimenti non erano spontanei, quel rannicchiarsi contro la spalla aveva l’aria di un mezzo rimprovero, come se avesse detto: non importa se non sei stato Escamillo, fammi le coccole come il mio papà. (Non so a voi, ma a me niente mi fa andare in bestia come una che mi si struscia addosso vagheggiando il padre). Insomma: fingeva. Ma perché?  

     Forse qualcuno (o qualcuna) istruisce le donne e spiega che un commento sarcastico sarebbe deleterio per i futuri rapporti. Ma quando avviene questa occulta iniziazione alla psicologia del sesso? E perché a noi maschietti nessuno dice niente?

     Parliamoci chiaro: questa spiegazione non mi convince. Anche perché (non proprio spesso, ma qualche volta càpita) esistono anche le avventure, le “cose da una botta e via”. Possibile che quelle si concludano sempre necessariamente con un orgasmo? E se non è così (e non lo è), perché una donna dovrebbe fingere quando sa benissimo che non ti vedrà mai più?

    Una vecchia leggenda dice che Tiresia trovò due serpenti che si accoppiavano, li percosse con il bastone e per incantesimo fu tramutato in donna. Nove anni dopo si trovò di fronte alla stessa scena, percosse ancora i serpenti col bastone e tornò uomo. Qualcuno gli domandò se, avendoli provati tutti e due, era maggiore il piacere sessuale dell’uomo o della donna. Tiresia rispose che il piacere della donna sta a quello dell’uomo come dieci a uno. (La traduzione dal greco è controversa quanto alle cifre, ma la sostanza è che il piacere della donna è molto superiore a quello dell’uomo).   

     Avanzo un’ipotesi. La donna fa sesso solo con se stessa. (Ripeto: è soltanto un’ipotesi). Ciò che le provoca l’orgasmo è un fatto puramente mentale, che si ingigantisce se, per pura casualità, l’uomo si comporta esattamente nel modo che ha in mente lei. Per questo finge. Per se stessa. Perché per lei l’illusione conta più della realtà.

 

26 Dicembre 2004 – 13:20

Bah, mica tutte fingono. Personalmente non lesino staffilate e scudisciate se la cosa non è andata a buon fine (per me), altro che rannicchiamenti coccolosi e finterie. Non posso generalizzare, perché non ho dati statistici sufficienti, parlo solo per me. Perché quelle che fingono fingono? A mio avviso, per pena verso il genere maschile che sanno essere, in fondo, così fragile e delicato nell’amor proprio…

eburnea

 

26 Dicembre 2004 – 13:41

… Comunque, se fingono, che fingano: alla fine, io non ci tengo troppo che lei mi dica d’essere soddisfatta, non ci tengo a farmi del male per un amor proprio che proprio non ho e a cui poco o nulla ci tengo. In fondo, quando si fa all’amore, si è animali, due corpi, e poi nulla più: inutile condire il tutto con sentimenti finti o reali. Non val la pena.

Iannox/kinglear

 

26 Dicembre 2004 – 15:00

Ferrazzi stavolta ha superato sé stesso in quanto a cinismo. Noto però che eburnea e Iannox non sono da meno. Insomma (ancora) nessuno che abbia un’idea un po’ meno cinica (ma forse più realistica, mi permetto di dire) sull’argomento? O, viceversa, ancora più cinica?

markelouffenwanken (Franz Krauspenhaar)

 

26 Dicembre 2004 – 16:04

Un “ooh fioco e roco” di sollievo finale potrebbe pur essere il reale piacere della donna che infine vede terminare l’affannarsi di un maschio maldestro. O col quale non intende assolutamente avere la pena supplementare di spiegazioni relative al fatto. E poi: valgono, io penso, anche le ragioni di Casanova. Esiste il piacere da geisha: quello cioè di far godere pienamente e con arte il compagno o la compagna. C’è anche la donna che sente il fatto di non aver raggiunto l’orgasmo come una propria incapacità e finge per mascherarla, così come si maschera un difetto. Forse persino, se la pensa come il nostro Riccardo sulle relazioni tra illusione e realtà, finge per tentare a forza di immaginazione e finzione di arrivare per tale via al piacere che altrimenti è di sicuro inattingibile. Infine: perché mai tanta convinzione sul fatto che “le donne” fingono? Questo sospetto trattato come fosse una conoscenza assodata, non è semplicemente un indizio dell’insicurezza di alcuni uomini di fronte alla non evidenza dell’orgasmo femminile – fenomeno che sfugge alla prova e richiede fede quasi quanto l’esistenza di dio?…

arden

 

26 Dicembre 2004 – 17:20

Acidello, ‘na cifra acidello ‘sto Ferrazzi! Sarebbe interessante conoscere le premesse che lo hanno spinto a formulare questa quantomeno discutibile tesi. E’ un sessuologo? E’ in grado di certificare quello che dice? Ha consultato l’Annuario delle Frigide? Ha in mano dei sondaggi della Demoscopa’? Cos’ha in mano? Siamo sicuri che non si tratta del semplice resoconto dei suoi fallimenti con le donne, eretti a postulato universale?

utente anonimo (non identificato)

 

26 Dicembre 2004 – 17:39

anche a me il commento di eburnea pare soddisfacente. altrettanto le glosse di arden. tranne il fatto che l’orgasmo femminile, in diversi casi, risulta evidente da sintomi inequivocabili (diciamo non più del dieci per cento delle donne che ho conosciuto).

alderano

 

26 Dicembre 2004 – 18:24

Io trovo molto interessanti i commenti fin qui arrivati. Quando ho proposto alla fine del post l’ipotesi che nel sesso ognuno cerchi qualcosa di diverso, cercavo di essere provocatorio. Invece, a quanto pare, sembra che sia un’idea condivisa. A questo punto vorrei fare chiaramente una domanda che credevo sottintesa: l’amore (fisico, emotivo, spirituale o comunque vogliamo considerarlo) è qualcosa di reciproco oppure ognuno lo vive a suo modo, per conto suo ? Per quante accuse di cinismo mi vengano rivolte, io non riesco a perdere la speranza della reciprocità.

riccardo ferrazzi

 

26 Dicembre 2004 – 19:53

Io so SEMPRE quando la mia compagna ha avuto un orgasmo (come se questo, poi, fosse veramente importante, che discorsi da macho del cazzo!!!). Scusate non è il mio superego che parla. Ma la mia (modesta ma sincera) pratica sessuale. Che, ovviamente, si fa in due. Io (noi) lo faccio (facciamo) solo quando voglio (vogliamo) farlo. E vi assicuro che le vette che si raggiungono sono siderali! Quando lo facciamo “di malavoglia” non è mica la stessa cosa!!! Il corpo della donna deve essere ancora liberato, in realtà. Il femminismo (l’unica rivoluzione veramente importante del ‘900) ha fatto molto (sul piano della consapevolezza), ma molto deve essere ancora fatto. Dalle donne, innnanzitutto. 

gianni biondillo

 

26 Dicembre 2004 – 20:23

Secondo una tradizione, chi fece quella domanda al povero Tiresia (“gode di più l’uomo o la donna”) furono Zeus ed Hera che come al solito litigavano. Hera diceva che le donne godono di meno, Zeus (e la sapeva lunga) affermava che le donne godono alla grande.
Tiresia diede ragione a Zeus. Hera si incazzò e accecò il povero vecchio saggio.
Quella antipaticona sempre acida ebbe tale reazione perchè Tiresia non avrebbe dovuto rivelare la verità: il mondo femminile doveva restare sempre misterioso al mondo maschile.
Secondo me, invece, Hera punì Tiresia perchè doveva stare zitto e lasciare voi uomini alla continua ricerca di darci il massimo piacere… (Grazie!!)

missy

 

26 Dicembre 2004 – 21:12

Sono d’accordo con G.B., sottoscrivo punto per punto. (Anche il fatto che stiamo facendo ‘discorsi del cazzo’…). Sulle ‘prove’ ero stato volutamente ambiguo, per attirarmi qualche strale e scaldare la discussione…: quella di cui tu parli è, come dire, il certificato di (piccola) morte. Ma ce ne sono altri, più superficiali: il grido irrefrenato, l’occhio arrovesciato…lo spasmo interiore… E’ vergognoso ed osceno, comunque, descrivere alle donne i loro sintomi. Ma mi espongo così proprio per attirarmi gli strali ribelli di donne insorgenti… o forse non solo per questo.

alderano

 

27 Dicembre 2004 – 01:24

Per la verità, io credo di non aver mai conosciuto un’amante pietosa che si facesse scrupolo di non ferire il mio amor proprio. M’è accaduto, piuttosto, di conoscere la donna esigente, che mi accusava di egoismo se la meccanica degli sfregamenti intimi non aveva, per lei, l’esito sperato. Avete mai provato a sentirvi dire: “bastardo, sei contento adesso che hai goduto?”. Tra le due, meglio quella che finge. Ti sei mai sentito un attrezzo sessuale, magari con una donna che amavi?

giowanni

 

27 Dicembre 2004 – 03:57

Ribadisco: Ferrazzi non ce la racconta tutta e neanche giusta. Cerca di fare buon viso a cattiva sorca. In realta’ non sembra essere affatto interessato al piacere e all’orgasmo femminile in se’, ma solo come conferma autoreferenziale, una sorta di scontrino fiscale: vidi, veni, WC.

utente anonimo (non identificato)

 

27 Dicembre 2004 – 08:34

per esperienza personale, l’ansia da prestazione è la peggior compagna di un sano e pacioso rapporto amoroso. per me è stato un problema sin quando è stato un problema. poi, calma, respirazione, presenza e totalità: la gioia.

cristiano prakash

 

27 Dicembre 2004 – 09:59

Casanova rivela ciò che ad un uomo piace di più: osservare lo spettacolo-mistero di una donna che viene. E, diciamola tutta, non ha tutti i torti. Da apprezzare !

cletus1.clarence.com

 

27 Dicembre 2004 – 10:45 

diciamolo ai quatto venti uffenwankiani che Casanova l’era minga un pirla; a parte ogni battuta, in Casanova (magistralmente ma anche ingiustamente strapazzato sia da Schnitzler che da Fellini) si trova anche tanta generosità, pura e semplice. Il piacere di dare piacere. Il piacere di dare. Altro che ginnastica.

markelouffenwanken  (Franz Krauspenhaar)

 

27 Dicembre 2004 – 11:57

Sono io che leggo male oppure Gianni è l’unico che fa l’amore in due ? Tutti gli altri sono del partito “dacci dentro e se funziona bene, se no chi se ne frega”. Le donne soprattutto, a quanto pare.

riccardo ferrazzi

 

27 Dicembre 2004 – 12:08

Dato che sono una delle poche donne che ha risposto, mi sentirei in dovere di rispondere. Non concordo con r.f.. Si fa in due, assolutamente. Ma si era partiti dal “fingere”, e se una finge, è irrimediabilmente sola. Non ha neppure il coraggio di intavolare un “parliamone”.

eburnea

 

27 Dicembre 2004 – 13:44

Mah, c’è qualcosa che spinge il nostro r.f. a cercare il difetto nelle donne;-)) Prima dice che fingono e chiede lumi sul motivo di tale fatto, che dà per scontato. Poi, quando ottiene, in risposta al suo quesito, delle ipotesi sui motivi di una possibile finzione (nei casi, cioè, in cui ci sia finzione), ecco che se ne viene fuori con l’altra ipotesi, indimostrata anch’essa, che le donne siano del partito del “dacci dentro e se funziona bene, sennò chi se ne frega”.
Ah, povero lui: se così è portato a pensare o sospettare, non c’è tanto da stupirsi, poi, che le donne gli possano apparire dei triboli incomprensibili e sostanzialmente ostili;-))

Arden

 

27 Dicembre 2004 – 15:33

Arden, la mia frase “le donne soprattutto, a quanto pare” era una mera constatazione statistica sui commenti arrivati fino a quel momento. Come sempre, io cerco di esporre nei post alcuni fatti (discutibili, ma fatti) nel modo più asettico possibile e poi nei commenti molti mi attribuiscono questa o quella opinione, come se avessero bisogno di criticare la (presunta) mia opinione per dichiarare la loro. Fa niente. Va bene anche così.

riccardo ferrazzi

 

27 Dicembre 2004 – 13:52

Totalmente d’accordo con Biondillo e con Giovanni. Provo a dirlo per punti:
1. La questione della donna che finge mi pare davvero un po’ vecchia. In particolare considerando che, da un certo momento storico in poi (diciamo dagli anni 60-70?) il problema di tutti noi è diventato tutt’altro che la menzogna e l’acquiescenza a situazioni subite, che accetti perché ti danno altre sicurezze: è diventato invece la ricerca quasi ossessiva della felicità, della pienezza esistenziale; e l’abitudine a questa ricerca ha fatto saltare altri valori di riferimento. Quindi, fra l’altro, affanculo la coppia per la vita: se il mio partner non mi va più, ne cerco un altro. Figuriamoci se non mi fa nemmeno venire!
2. Credo che il fenomeno dell’orgasmo simulato sia molto circoscritto, almeno nelle civiltà urbane evolute e almeno fuori dai lupanari, e auguro a Riccardo che non sia circoscritto intorno a lui! Ric ha comunque sempre la capacità di stimolare discussioni interessanti. Sono sicuro che sa stimolare anche rapporti intimi altrettanto interessanti e gratificanti.
3. E’ assolutamente vero che ci sono una serie di sintomi dell’orgasmo reale che permettono a chiunque abbia un barlume di sensibilità (diciamo la stessa sensibilità che forse gli ha permesso di fare venire la sua compagna, appunto?…) di capire se si trova di fronte a piacere autentico o simulato. Gianni ha mille volte ragione quando si spazientisce e dice: Io so benissimo quando la mia compagna è venuta! E sono d’accordo che è piuttosto inelegante stare qui a fare la lista dei segni esteriori, alla quale peraltro aggiungerei in moltissimi casi aumento della sudorazione e arrossamento del collo e del petto, il famoso “flush”. E così ci sono cascato anch’io, a fare la lista! Ma santo dio, segni accessori a parte, quando una donna viene c’è o non c’è un aumento fortissimo, riscontrabilissimo, delle secrezioni vaginali? La sensazione della penetrazione, dell’aderenza, non cambia CHIARAMENTE? Non capisco davvero di cosa stiamo parlando.

4. Se una non viene e finge, i casi sono due. Se si tratta di un problema sessuale che turba un rapporto d’amore che in tutto il resto funziona, il problema è davvero grave, direi tragico, e merita attenzione, rispetto e considerazione. Nel senso che in questo caso la simulazione è il tentativo sofferto e faticoso di puntellare il rapporto nel suo tratto più debole. Di salvare un amore. E’ probabile comunque che la soluzione migliore non sia quella di fingere, un po’ perché alla lunga non è sostenibile, un po’ perché all’interno di un rapporto qualunque concessione venga fatta senza mediazioni o compromessi, in forma di perdita secca (dall’orgasmo simulato al permesso che il partner vada ogni weekend a pescare con gli amici, quando tu avresti un’idea ben diversa su come passare i weekend…) genera un accumulo di credito da una parte e di debito dall’altra, che finisce per esplodere. Prima o poi gliela fai pagare con tutti gli interessi, e spesso l’innesco alla deflagrazione è un fatto di per sé insignificante. Risultato: sorpresa e sbigottimento del partner, che viene investito dall’effetto accumulo senza averne avuto precognizione (e senza essersene potuto difendere), e rapido passaggio dell’aggressore, chiamiamolo così, dalla parte del torto.
Un pasticcio! Forse non si dovrebbe mai concedere nulla, se non in cambio di una contropartita emotiva o affettiva chiara, leggibile, sufficiente. Detto così suona freddo, lo so, ma non vuole esserlo.

5. Non mi ero dimenticato del caso numero due (ehm). E’ il caso penosissimo di un certo tipo di donna sciocca, cattiva anzitutto con se stessa, che a volte finge l’orgasmo per avere poi il piacere acidissimo di poter dire cazzate sul genere maschile e sulle sue inadeguatezze. Questo tipo di donna mi interessa dal punto di vista narrativo, non da quello personale o esistenziale. Lasciamola al suo pH sotto il livello del mare: in questo caso sì, sono davvero affari suoi. E comunque io ne ho incontrata credo solo una. Gridava da tirar giù i vetri, ma quando la storia è finita e siamo passati ai dispetti reciproci mi ha notificato che era tutta simulazione. Chissà quando non simula, allora! Probabilmente il condominio deve venire evacuato. In ogni caso, mi spiace ma questo è l’unico caso in cui vale la pena di dire: peggio per lei.

Raul Montanari

 

27 Dicembre 2004 – 14:08

non lo so, credo si semplifichi tutto un po’ troppo, io per prima. non credo che le donne non fingano più, perchè l’istinto a difendere l’uomo (soprattutto il proprio) c’è sempre. vero che dopo un po’ in una coppia si innescano automatismi difficili da variare. ma non è tutto così semplice. non è tutto grida che sconquassano le pareti del palazzo, oppure noia. ci sono delle vie di mezzo che non sono state considerate. e non è un caso che ad intervenire siano nella maggioranza maschi. io quindi mi ritiro silenziosamente dalla discussione.

sEp

 

27 Dicembre 2004 – 17:44

scusate signori, ma se ne aveste la possibilità, piuttosto che dare buca, non preferireste fingere? o avete tutti l’ego onestamente esemplare? non pensate che può essere imbarazzante anche per una donna non raggiungere l’orgasmo?

“non credo che tutte le donne fingano”, mi pare ovvio: nessuna donna fa della finzione una costante nella sua vita sessuale! però si può senz’altro scrivere che tutte le donne hanno finto almeno una volta! e comunque, anche se ci fossero donne che fingono sempre, fare sesso con loro può essere bellissimo. spesso sono donne più attente alle esigenze del partner. a volte non raggiungono l’orgasmo per motivi fisici o psicologici che nemmeno loro conoscono, ma comunque godono tutto il godibile in un rapporto sessuale. non credo che, in questo caso, fingere sia sintomo di disonestà. le Geishe erano orgogliose di compiacere l’uomo, se ne occupavano come devote adoratrici al cospetto di un dio, è vero, ma se sono state mitizzate è perché gli uomini si sentivano onorati d’avere rapporti sessuali con loro.

kanji

 

28 Dicembre 2004 – 01:18

A volte si finge quando la cosa è meglio che smetta subito. Se c’è amore (non necessario), curiosità (necessaria), passione, intesa, esperimento, gioco e gioia (necessari), non c’è alcuna necessità di fingere. Il sesso non deve avere alcuna regola tra due persone che si sentono. Fosse anche solo una notte o 10 min. all’aeroporto internazionale… In generale, però, di tante volte, se ne possono ricordare epocali poche. E’ la top-ten.

missy

 

28 Dicembre 2004 – 11:37

Non buttiamola sul ridere, però. Quello della liberazione e della consapevolezza del corpo femminile è un tema epocale. L’idea stessa che una donna debba fingere per fare felice un uomo dimostra l’esercizio del potere maschile (e il grado di sudditanza femminile) anche sul piano della sfera più intima. E la stessa ansia da prestazione che coinvolge moltissimi maschi mette in luce come questo “modello di potere” gravi pesantemente sulle spalle degli uomini. Anche il nostro corpo, in questo senso deve essere liberato.

gianni biondillo

 

28 Dicembre 2004 – 15:16

cari signori, inciampo casualmente tra queste vostre parole e mi viene un po’ da sorridere perchè credevo che quelli che ancora si chiedono se la donna che hanno accanto nel letto sia venuta o meno fossero spariti. mi compiaccio quindi di tutto sto popo’ di sensibilità. meno male che ci siete. è vero. si finge. ed è piuttosto spiacevole farlo. in quel preciso momento hai la piena consapevolezza di mentire. e se è l’uomo che ami quello al quale fai il verso è ancora peggio. ma guardiamo l’altro lato della medaglia: la felicità di fare all’amore con tutto il resto. bucarmi il “sacro monte”??? NO. guardo negli occhi il mio amante, sento il suo odore nel mio, tocco l’amore, lo respiro ad ogni lieve contatto. e godo come una pazza.e se poi per una volta non arrivo al cielo è solo una buona scusa per ricominciare da capo.
il sesso coniugale è tecnicamente perfetto, eppure…NO! è PERFETTO e basta. quando raggiungi una completa conoscenza del corpo dell’altro vai a scoprire altri campi che con la scopata di una notte nemmeno potresti sfiorare col pensiero. e vi assicuro che è dopo una certa età che ho scoperto cosa vuol dire realmente avere un orgasmo. un tale alderano fa la lista dei fenomeni più evidenti dell’orgasmo…caro…fai molta attenzione che certe cose alle bimbe si insegnano fin da piccole…e voi uomini vi siete mai chiesti se la vostra donna non si chieda, come voi, se sia stata “brava” o meno? se quel cuscinetto di cellulite non vi abbia dato fastidio, se una gamba non perfettamente depilata vi abbia in qualche modo fatto calare il desiderio, se la VOSTRA di EX vi facesse cose che lei nemmeno sa che esistono, e se paragonate le prestazioni?…eccetera eccetera eccetera…la gratificazione deve esserci da entrambe le parti. io SO che il mio uomo impazzisce per me come lui SA che non potrei avere amante migliore. e nemmeno vado a ricordare o immaginare come sarebbe il sesso dei primi giorni di una nuova relazione. in ogni caso, continuate a esercitarvi…

sofie

 

                                 Palio di Siena a Washington 

 

    Tempo di elezioni. Quando ho aperto questo blogghino per pochi intimi mi sono ripromesso di non trattare di politica. Anche perché qualche volta mi viene il dubbio di avere il dono della profezia.

Leggete un po’ questo post, scritto all’indomani della riconferma di Bush, novembre 2004. Ferrazzi-Nostradamus aveva previsto l’esito del secondo governo Prodi, a cominciare dal suo chilometrico programma.

    La discussione che ne segue è divertente e istruttiva, soprattutto dal punto di vista metodologico. La consegno alla futura memoria. Qual è la tecnica per schivare un problema imbarazzante? Prima si va sui massimi sistemi, poi si cerca la lite, poi si manda tutto in vacca. E infatti: (1) se non è andata come volevamo noi è perché gli americani sono scemi, tant’è vero che (2) hanno rimesso in auge il creazionismo contro il darwinismo; e allora (3) litighiamo su Michael Moore. Dopodiché (4) tutto finisce in gloria.

       

    Abbiamo finito di elaborare il lutto? Spero di sì, perché è ora di guardare in faccia la realtà con virile freddezza. Poche storie: quando si perde è perché si è sbagliato più dell’avversario. (Dire che l’altro ha vinto perché gli elettori sono scemi equivale a dichiarare di non credere alla democrazia).

    Proviamo a partire dal presupposto che si è sbagliato, non su questioni spicciole, ma sulla questione di fondo. E cioè: i democratici sono stati capaci di proporre qualcosa di coerente, autonomo e originale? Oppure non hanno saputo fare meglio del compianto Gino Bartali, famoso per brontolare sempre che “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”? 

    Perfino il lattaio di Cincinnati ha capito che andare in Irak è stata una cazzata, eppure non ha votato per Kerry. Perché? I lattai di Cincinnati sono forse intrinsecamente pirla? Non credo. Otto anni fa avevano votato Clinton. Sono forse rincoglioniti nel frattempo? Ma no. Mi sembra più probabile che questi prosaici mercanti abbiano fatto un ragionamento forse rozzo, ma concreto, e si siano detti: noi cambieremmo anche volentieri, ma qual è la strategia alternativa di Kerry? Che cosa ci propone di diverso? Ha qualche idea su come andare a prendere Bin Laden? A torto o a ragione, si sono risposti: no. E hanno concluso che tanto valeva insistere con Bush non perché lo amassero alla follia, ma per mancanza di alternative convincenti.

    Ora, da questa vicenda in qualche modo esemplare bisognerebbe trarre delle indicazioni di metodo. Per esempio: conviene trasformare le elezioni in un Palio di Siena, e cioè in un gioco nel quale non conta tanto vincere quanto far perdere l’avversario? È vero: noi italiani siamo usi al bellum intestinum fin dai tempi di Mario e Silla, ma guardate come ci siamo ridotti! Odiare l’avversario aiuta a essere uniti, ma riduce la strategia a gridare “crucifige!” e poco altro.

    Se questa notte la Madonna apparisse a Berlusconi e lo convincesse a lasciare la politica per ritirarsi in eremitaggio sul Monte Athos, dopo un’ora di sfrenata felicità Prodi si sparerebbe un colpo in testa. Non solo la sinistra non ha uno straccio di programma, ma sappiamo tutti che anche quando l’avrà saranno i soliti “brevi cenni sull’universo”: non tre scaglioni IRPEF ma quattro o cinque, Blair è brutto e cattivo, Chirac è un bravo ragazzo, nel nostro governo ci saranno almeno sei donne, eccetera eccetera.

    È questa la strategia politica della sinistra per il ventunesimo secolo? Se è tutto qui, tanto vale sperare nella Madonna.   

 

07 Novembre 2004 – 11:41

Gulp!

gianni biondillo

 

07 Novembre 2004 – 13:31

Il programma non è ben definito, ma se entriamo in questa  “sindrome da sconfitta” e cominciamo (anzi proseguiamo!) nel nostro sport preferito di dare addosso ai “nostri” , be’, allora sì che siamo destinati male. Io non credo, per esempio, che se Berlusconi vedesse la madonna Prodi non saprebbe che fare. Saprebbe, saprebbe. Qui non si tratta di fare rivoluzioni o meraviglie, ma di difendere le conquiste civili del nostro recente passato. 

arden

 

07 Novembre 2004 – 14:17

non ho capito perché non credere nella democrazia rappresenti un problema.

fabio.

 

07 Novembre 2004 – 14:36

La democrazia non è una questione di fede, fabio. Se ti riferivi a quelle che definivo le conquiste del recente passato, io intendevo certi diritti faticosamente raggiunti. Dalle donne, per esempio. Mi stanno a cuore.

arden

 

07 Novembre 2004 – 16:38

L’america è una società malata e molti elettori sono anche stupidi, come no. Il sistema maggioritario a due partiti porta a una corsa verso il centro che esclude le posizioni estremiste di sinistra ma non quelle di destra, che anzi ne sono avvantaggiate e trainano il centro verso di loro. Il capitalismo americano trasforma il governo in un consiglio di amministrazione in cui siedono i ricchi. Il dissenso viene limitato imponendo di fatto uno stato di polizia che protegge i privilegiati, condanna a morte le minoranze e i poveri. L’economia capitalista si nutre di guerre, necessarie per espandere il mercato, reperire nuove risorse energetiche, ecc. A questa volontà di dominio, caduta in disgrazia la superpotenza nemica, va contrapposto un altro nemico, individuato nei terroristi islamici. Abbiamo quindi una nazione parafascista, imperialista, in guerra perenne. E dopo aver letto due libri di Michael Moore, e aver visto i suoi film, continuo a chiedermi: perchè si ostina a dire “this is a great country?” Qualcuno sa spiegarmelo?

lorenzo galbiati

 

07 Novembre 2004 – 18:42

Dire che l’altro ha vinto perché gli elettori sono scemi è l’ultimo stadio della delegittimazione. Che ne sarà del mondo quando scompariremo noi acculturati bevitori di Manifesto? Come se fossimo noi a vincere i Nobel, ad andare a spasso per l’universo, a sfornare brevetti, a coltivare le arti, gli studi umanistici. Noi che la democrazia ce l’abbiamo nel DNA, come tutti sanno, tanto da insegnarla a quelli che ce l’hanno regalata ma, poverini, mo’ c’hanno “il blackout dell’informazione” e pure la sfortuna di non avere forze “estremiste di sinistra”. In compenso c’hanno gli “Striscia la notizia” di Moore, ai quali si abbeverano le italiche menti.

utente anonimo  (elio paoloni ?)

 

07 Novembre 2004 – 22:22

L’America è all’avanguardia per la tecnologia (per le arti non saprei) e quindi anche per la scienza. Eppure com’è che il creazionismo negli USA è in grande crescita da tempo? Cosa pensa un americano di Darwin? Non solo l'”ignorante sudista” che vota Bush, ma anche l’intellettuale neocon? Paoloni, please, fatti oltre che opinioni sarcastiche.

utente anonimo  (lorenzo galbiati)

 

07 Novembre 2004 – 23:45

È vero che negli USA si fa ricerca, e la cosa più incredibile è che, tanto più la ricerca va avanti negli USA, tanto più l’americano medio ne risulta assolutamente indifferente. C’è da dire che negli USA l’istruzione si paga e non poco. Il che corrisponde a un bacino elettorale che fluttua indifferentemente tra destra e sinistra, in base a quanta più sicurezza il candidato riesce a promettere.

missy

 

08 Novembre 2004 – 01:15

Io non ho finito di elaborare il lutto! Ha detto bene Missy, l’americano medio è indifferente come del resto l’italiano medio. L’istruzione in America costa moltissimo perché le tasse sono diminuite e sono saliti i costi di istruzione e assistenza. Mi sembra che il nostro governo abbia intrapreso questa strada, piano piano ci arriveremo pure noi. E’ così facile scrivere due righe e liquidare il senso di perdita della partecipazione alla vita politica da parte di tutti.

gabriella fuschini

 

08 Novembre 2004 – 14:51

Evoluzionismo e creazionismo sono due tesi contrapposte sulle quali non mi permetto di avere opinioni. Ma la tesi anonima quale sarebbe? Che un creazionista è automaticamente un ignorante? E se anche la comunità scientifica avesse decretato che il creazionismo non può neppure essere discusso (cosa che non mi risulta) il fatto che qualcuno osi opporre la propria fede, la propria cosmogonia, a una delle tante teorie avanzate nel corso del tempo, fa di lui un pericoloso fondamentalista?

utente anonimo (elio paoloni ?)

 

08 Novembre 2004 – 17:09

Il creazionismo non è una teoria scientifica. L’evoluzione della Terra e delle specie viventi che la abitano è ormai considerata un fatto, non una teoria. Teorie sono i tentativi di spiegare COME questa evoluzione sia avvenuta. I creazionisti più bigotti rifiutano l’evoluzione in toto e credono nei 6 giorni biblici. Molti altri ammettono che vi sia l’evoluzione ma negano che possa portare alla creazione di nuove specie, soprattutto alla specie umana. E’ implicito quindi che Dio abbia creato la Terra e la vita, abbia permesso alla vita di seguire il suo corso, ma di tanto in tanto continui a volerci mettere lo zampino creando nuove specie. Chiunque è libero di crederci, ma se quest’atteggiamento viene considerato scientifico si sta facendo oscurantismo.

lorenzo galbiati

 

08 Novembre 2004 – 17:44

Zichichi è un evoluzionista, ma è anche un cattolico. In senso stretto non c’è contraddizione.
Il creazionismo invece, così come lo si intende nel Texas, è fondamentalista. Ed è quello che ha votato Bush.

gianni biondillo

 

08 Novembre 2004 – 22:02

A me risulta che studiosi per nulla ostili ad altre teorie evoluzioniste, non diano affatto per scontata la creazione di nuove specie. Il tutto all’interno della comunità scientifica, non in bocca ai telepredicatori.

utente anonimo (elio paoloni ?)

 

08 Novembre 2004 – 22:53

Mannaggia, me s’è rotta l’astronave. E mò come ce ritorno ar pianeta mio? Gnente, n’ce ritorno, m’ho da adattà a’a vita su ‘sto pianeta scarcinato. Mo’ si trovo un nativo come se deve, puro si peloso come ‘na scimmia, co ‘a faccia un po’ rincarcata, ‘n fa gnente, fatte conto che fosse Alain Delon, m’o pijo com’è. Me ne sto niscosta quarche decina de millenni, accurturo graduarmente ‘a nova razza che nasce da me e dar burino e poi sortisco fora pe’ fondà ‘na città, quella d’a squadra der core. Ner mentre, d’a astronave faccio sortì fora tutti l’animali der pianeta mio, così s’accoppieno co’ questi e li fanno ‘n po’ evorve, che stanno ‘ndietro. Aho’, ma qua ce sta n’antra astronave. Voi vede’ che so’ arivati prima quelli der pianeta assiro-babilonese? (antico manoscritto rinvenuto durante gli scavi per la costruzione di una villa abusiva, accanto al tempio di Vesta. La firma, quasi indecifrabile, sembrerebbe Lupa)

pamela canali.clarence.com

 

09 Novembre 2004 – 01:26

C’è un pensiero che non mi si crea in testa, come è possibile che continuiate a prendere sul serio Elio quando proprio lui è il primo a negare il valore di qualsiasi ragionamento difendendo l’indifendibile? Come potete continuare a parlare con uno che scrive tra migliaia di baggianate anche “l’America ci porta la democrazia”. Voglio dire, a parte la storia di sangue che hanno, sempre mascherata con gli ideali, per quella favolosa democrazia hanno mandato dei carabinieri coglioni a fare le belle statuine di Bush in iraq, a fare gli omini del subbuteo per dimostrare che la squadra era internazionale, li hanno ammazzati per quella testa di cazzo di Bush e quell’altra testa di cazzo di Berlusconi e uno viene qui a dire che gli americani portano la democrazia, ma vaffanculo. Ma vallo a dire agli iraniani, vallo a dire ai cileni, agli argentini, agli haitiani, agli irakeni che gli americani portano la democrazia. Povero Elio ma se nascevi in Cile ti toccava essere con la dittatura per non farti torturare dai massacratori della cia. Proprio solennemente: VAFFANCULO!

andrea barbieri

 

10 Novembre 2004 – 00:29

Andrea, ti voglio bene (anche se non ti conosco) ma secondo me hai un po’ pisciato fuori dalla tazza, stavolta. Te lo dico con affetto.

gianni biondillo

 

10 Novembre 2004 – 00:41

Ma Paoloni dov’è? Eliooooooooo!!

markelouffenwanken (franz krauspenhaar)

 

10 Novembre 2004 – 00:52

e tu non istigare! 😉

gianni biondillo

 

10 Novembre 2004 – 13:48

La democrazia non ha mai escluso l’uso della forza. La democrazia è quella che è, fa anche porcate. La Francia democratica, col pieno appoggio delle forze di sinistra, ha fatto un milione di morti in Algeria e continua a fomentare massacri tra gli africani unicamente per tutelare i suoi interessi. Mitterand ordinava ai servizi di mettere bombe sulle navi Greenpeace. Ma non ci sono alternative e a queste schifose democrazie mi aggrappo con tutte le forze: anche se compiono massacri, a volte chiamano i responsabili a renderne conto. La democrazia l’hanno inventata gli anglosassoni. E loro ce l’hanno riportata sessant’anni fa, dopo che erano venuti a morire per noi sul Carso un quarto di secolo prima. In Giappone l’hanno creata, non riportata. Credi di cancellare secoli di storia con un vaffanculo? Per me sei un caso clinico: fai la figura dell’imbecille ogni volta che sbatti contro un’opinione non conformista, ogni volta che le parole d’ordine manifestine vengono messe in discussione o, com’è giusto, ridicolizzate. Non riesci a restare nel solco di una discussione che sia una.

PS: E’ l’ultima volta che rispondo a un tuo insulto. C’è un limite alla tolleranza per i mocciosi.

utente anonimo (elio paoloni)

 

10 Novembre 2004 – 15:42

Moore a mio parere andrebbe ridimensionato. E’ l’inventore di un nuovo tipo di documentario che non aiuta la comprensione dei fatti, proprio perchè il cinema non è verità, mai. Semmai è manipolazione, sempre. Certo, agli americani dobbiamo molto, hanno liberato l’Europa dal giogo nazifascista. Ma l’hanno fatto al momento per loro opportuno, quando avrebbero potuto farlo molto prima. Sono stati dei liberatori ma sono ancora qui, ora, a chiederci le rate del pagamento, e continueranno. Poi: c’è molta differenza tra un sistema dittatoriale come quello nazista (o comunista) e quello dei cosiddetti neocons, mi spiace che si parli sempre di fascismo a sproposito. E’ giusto attaccarsi mani e piedi a questa schifosa democrazia come minor male, certo, ma è indubbio che l’America sta prendendo una brutta deriva. Il fatto è che questa deriva non nasce oggi. Noi europei abbiamo molte cose da farci perdonare: gli esempi francesi che fa Elio mi paiono inconfutabili. 

markelouffenwanken (franz krauspenhaar)

 

10 Novembre 2004 – 17:45

Paoloni prova un po’ a leggerti i libri di moore, magari non gradirai il suo umorismo, ma forse ti farai un’idea diversa dell’america… francamente non me ne frega un cazzo che la democrazia nasce nei paesi anglosassoni, io guardo quella americana di oggi, che è una merda, molto peggio della peggior democrazia europea occidentale (la nostra). vuoi far le pulci alla francia per il suo colonialismo in algeria, e dimentichi l’america e il suo coinvolgimento in guerre e terrorismo in tutti i continenti. E’ triste perdere il senso delle proporzioni o della storia: non siamo più ai tempi di Roosevelt.

lorenzo galbiati

 

10 Novembre 2004 – 17:45

Personalmente, sono d’accordo con Elio [a proposito del “Manifesto”]. Facile stare a scaldare una poltrona come tutti gli altri, fare titoli a effetto e anche figure di merda (vedi la preannunciata vittoria di Kerry) e prendere le notizie dall’Ansa come tutti i giornali “reazionari”. Facciamo scendere dal piedistallo anche questa gente. I radical chic ci sguazzano su queste cose. Leggono il Manifesto e, in un certo senso, si mettono la coscienza in pace. E allora vaffanculo lo dico io, se permettete.

markelouffenwanken  (franz krauspenhaar)

 

10 Novembre 2004 – 19:08

Mi sembra inammissibile accusare Moore di manipolazione. Puoi accusarlo di essere di parte, ma ciò non toglie che tutte le informazioni date nel suo film siano a prova di bomba. Norman Mailer prima delle elezioni ha detto che l’America è in una situazione prefascista. Non è l’unico intellettuale americano a parlare di fascismo. Io credo si possa parlare di fascismo estendendo il significato del termine a situazioni in cui vi sia militarismo, cultura della guerra, controllo esasperato da parte della polizia, democrazia bloccata, ecc. per questo nel caso dell’america uso il termine “parafascista”. Si possono usare parole diverse, ma bisognerà pure identificare in qualche modo gli stati degenerativi di una democrazia.

lorenzo galbiati

 

10 Novembre 2004 – 22:52

Moore fa ottima controinformazione. A volte fa anche cinema, ma principalmente fa controinformazione. Galbiati, dài non si può dire parafascista, hanno votato pochi giorni fa e si sono eletti a furore di popolo il loro presidente. Certo esistono delle tendenze a limitazioni della libertà personale da “stato di polizia”, questo lo diceva Sergio Romano pochi giorni prima che vincesse Bush e ha continuato a ripeterlo dopo la sua vittoria. Ovviamente chi tiene veramente all’America non sopporta certi provvedimenti illiberali che non trovano nessuna giustificazione. Chi è antiamericano invece queste cose le passa sotto silenzio.

andrea barbieri

 

10 Novembre 2004 – 23:06

Norman Mailer ha rotto il cazzo. Moore ha usato la macchina del cinema che stravolge qualsiasi realtà tramite il montaggio, le voci fuori campo, e mille artifizi. Se l’America è fascista (o prefascista- che vorrà dire, poi?) allora è fascista o prefascista da almeno 60 anni. Da quando, per la precisione, i “liberatori prefascisti” liberarono l’Europa dai fascisti (quelli veri, naturalmente). La democrazia americana è degenerata ultimamente, ma il processo degenerativo è iniziato quando George W.Bush portava ancora i calzoni corti, o addirittura suo padre e sua madre non avevano ancora avuto la brillante idea di congiungersi – presumo una sera di particolare tedio – per concepirlo.

markelouffenwanken  (franz krauspenhaar)

 

11 Novembre 2004 – 12:49

Da moltissimo tempo non seguo blob. So ormai tutto sulla manipolazione, non mi interessano più i montaggi proditori del genere “voce fuori campo che dice faccia di culo-primo piano di Pirrotta”. Il blob è magnifico quando è veramente cattivo, con tutto il mondo. Un blob politicamente corretto, ovvero a senso unico, è indottrinamento puro. E’ ora che qualcuno le dica queste cose.

utente anonimo  (elio paoloni ?)

 

11 Novembre 2004 – 15:54

Il cinema è menzogna sì, ma si sta parlando di documentari. Il grado di fiction è nullo, forse si può parlare di unico punto di vista ma non di finzione, o no?

gabriella fuschini

 

11 Novembre 2004 – 16:30

Che cosa significa il termine propaganda? Che relazione c’è tra propaganda e verità di fatto? Qual è la linea di confine tra blob, documentario alla M.Moore e cinema?

lorenzo galbiati

 

11 Novembre 2004 – 17:08

Per me quello non è cinema. E i documentari in genere hanno una sezione riservata. La verità non c’entra, chiaro. E non c’entra nemmeno la tesi: il film sulle Olimpiadi di Berlino è possente e oserei pure dire che è cinema.

utente anonimo (elio paoloni ?)

 

11 Novembre 2004 – 22:36

Insomma, li vogliamo piccoli piccoli i giurati, limitati limitati gli scioperanti, speriamo almeno grandi grandi le tette 🙂

andrea barbieri

 

12 Novembre 2004 – 11:16

Sempre più gigantesche.

utente anonimo (non identificato)

 

12 Novembre 2004 – 11:24

segaioli!

gianni biondillo

 

12 Novembre 2004 – 12:46

Mi è calata la vista.

andrea barbieri

 

                                Quella notte a Dolcedo

 

    Mi è costato fatica, ma sono contento di averlo letto. Perché questo non è uno dei tanti libri che escono in continuazione, quelli che si aprono, ci si affida al narratore e ci si lascia portare fino in fondo. No. Qui a ogni pagina bisogna usare la testa, domandarsi il perché di ogni cosa, soprattutto delle cose che non succedono. E non si trova, il dannato perché. Eppure si va avanti ugualmente, proprio come capita nella vita vera, perché la scrittura di Magliani contiene una promessa che non si estingue mai, e quando finisce genera rimpianto.

    Questo è un grande libro, come non se ne leggevano da decenni, e non mi sento ancora in grado di farne una recensione ma solo una breve nota. Anche questo è un sintomo del “grande libro”: ci vuole tempo per digerirlo, assimilarlo, entrargli dentro. Ma qualche cosa posso dirla sin d’ora.

    Perché mi costava fatica leggerlo? Perché il ritmo di lettura era diverso dal solito. Me lo imponeva la storia, la scrittura, l’argomento. E io faticavo ad adeguarmi. Resistevo. Avrei voluto capire subito se si trattava di un giallo, di una storia di guerra, di archeologia, di fantastoria biblica, o di altro ancora. Invece non è niente di tutto questo: è un libro che esce dagli schemi, non per il gusto di fare una cosa nuova ma perché così doveva essere, e non poteva essere che così.  

                                                            ***

    Ripensando a come è strutturata la narrazione, immagino che qualcuno troverà da ridire sulle molte pagine in cui il protagonista viene descritto nella sua vita alla giornata, apparentemente senza costrutto. E invece proprio lì è contenuto il senso del libro, non per le cose descritte, ma per il modo con cui sono narrate.  

    Non so se Magliani sarà contento di ciò che sto per dire, ma in “Quella notte a Dolcedo” ho ritrovato qualcosa di Hemingway, di “Addio alle armi” e di “Per chi suona la campana”. Non sto parlando dei temi della guerra, del dovere, del rimorso: parlo della capacità di descrivere paesaggi consueti e azioni quotidiane come se fossero eternamente nuovi, come se fossero continue scoperte, con lo spirito di un dodicenne in gita nel bosco. Quando sono descritte così le cose prendono sapore, si connettono e fanno significato. Solo raccontandola in questo modo la vita ci appare piena di sostanza.   

                                                           ***

    I banchi delle librerie rigurgitano di libri pieni di prosa autocompiaciuta, costruiti intorno a storie inverosimili e privi di una solida visione della vita, quella che dà compattezza a una storia. La scrittura di Magliani va diretta alle cose e sembra sempre sul punto di svelarne l’essenza (il che è più di quanto siano riusciti a fare la maggior parte dei filosofi). Non è un fatto di stile, ma di sostanza: per scrivere così non basta sapere di cosa si sta parlando, bisogna averlo introiettato in profondità, nel cervello, nei muscoli, nelle ossa; bisogna aver dimenticato di saperlo e riscoprirlo scrivendo; bisogna che la scrittura diventi anamnesi.

    Quanto sia vero tutto ciò risulta anche dall’impostazione generale della storia che Magliani ci racconta. C’è un mistero, e la soluzione vi sorprenderà per la sua verità, per la sua non-letterarietà. C’è un incontro importante che non avrà seguito, come capita sempre nella realtà (e quasi mai in letteratura). C’è il mistero della insondabile casualità della vita. Ma non è neanche questa la cosa principale perché, in fin dei conti, si sa: il mistero siamo noi e il modo in cui cerchiamo, senza riuscirci, di dare un senso alla nostra esistenza. Ecco, quando ho chiuso il libro dopo aver letto il secco, desolato epilogo, non ho potuto fare a meno di domandarmi come i poeti dell’Ottocento: cos’è mai la vita?

    Magliani non lo dice. E fa benissimo, perché a questa domanda ciascuno è tenuto a dare la sua risposta.

 

                                                 Asimov

 

    L’attenzione (…) di ogni lettore sarà richiamata da una storia della decadenza e caduta dell’impero romano, forse la scena più grandiosa e impressionante nella storia dell’umanità (…) Fu tra le rovine del Campidoglio che concepii l’idea di un’opera che mi ha occupato e ricreato per circa vent’anni della mia vita…

    Con queste parole, il 27 giugno del 1787 (due anni prima di un’altra storica caduta: quella della Bastiglia), Edward Gibbon licenziava le quasi tremila pagine del suo capolavoro, una cavalcata di quindici secoli da Cesare Augusto fino al vittorioso assedio di Maometto II a Costantinopoli.

    Circa centocinquant’anni più tardi, Isaac Asimov lesse la Storia del declino e caduta dell’impero romano e concepì l’idea della saga della Fondazione. Si era nel 1940 e il mondo era immerso nella seconda guerra mondiale. Ma anche più tardi, al termine del conflitto, il dopoguerra non prometteva niente di buono. La sconfitta di Hitler non aveva fatto chiudere il tempio di Giano. In Corea si combatteva ancora e il generale MacArthur chiedeva al presidente Truman di usare la bomba atomica. La liquidazione degli imperi coloniali portava guerre e guerriglie un po’ dappertutto. Cominciava una lunga guerra fredda basata sull’equilibrio del terrore.

    In queste circostanze Asimov iniziò senza rendersene conto un’avventura letteraria che lo avrebbe “occupato e ricreato” per ben più di vent’anni. I primi racconti (scritti fra il 1940 e il 1949) vennero fusi in tre romanzi: Foundation (Cronache della Galassia), Foundation and Empire (Il crollo della galassia centrale) e Second Foundation (L’altra faccia della spirale). All’autore parve che la cosa si potesse chiudere lì e avviò un’altra saga: quella dei robot. Ma la trilogia della Fondazione venne ripubblicata nel 1961 e il successo fece nascere nell’autore l’idea di collegare i robot alla storia galattica. Pur con le interruzioni imposte dal lavoro di divulgazione scientifica al quale Asimov teneva moltissimo, i quattordici romanzi in cui si articola il ciclo costituiscono un insieme abbastanza omogeneo. La saga, che parte da Io robot e termina con Fondazione e Terra, può dirsi conclusa con quest’ultimo romanzo, datato 1983.

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    Quanto a Asimov scrittore, credo che sia difficile trovare in tutta la letteratura fantascientifica (o nella letteratura per ragazzi, o nella letteratura popolare, o nella letteratura rosa, o in quella che volete) un autore più schematico nelle descrizioni, bidimensionale nei personaggi, prevedibile nelle soluzioni. Eppure è l’autore di fantascienza più venduto dopo Jules Verne.

     Qualcuno potrebbe pensare che, individuando le caratteristiche comuni a Verne e Asimov, si ottenga la ricetta per scrivere un bestseller. Ahimé, non è così. La caratteristica più evidente che Verne e Asimov hanno in comune è lo schematismo, la lingua sciatta, l’incapacità di far provare dei veri sentimenti a personaggi privi di profondità. Un’altra caratteristica di Verne è la celebrazione dei ritrovati tecnologici del suo tempo e la proiezione degli stessi in un improbabile futuro. Ma Asimov lo segue svogliatamente su questa strada e tende piuttosto a separare la saggistica di divulgazione dalla narrativa.

    Più si prosegue in questo tipo di analisi, meno se ne ricava. La verità è che il successo di Asimov dipende da un unico fattore: il respiro cosmico del suo progetto. Così come Gibbon prese in esame quindici secoli di Storia, Asimov ricostruisce la “storia” di almeno dodicimila anni durante i quali fu popolata la galassia, un impero nacque e crollò, una Fondazione lo ricostituì. Tutto questo con l’aiuto di una scienza fittizia (la psicostoria), dei robot, di esseri umani dotati di capacità mentali straordinarie, ma anche di uomini qualunque, non necessariamente eroi, anzi, spesso un po’ filibustieri.

    Qual è dunque il segreto per vendere milioni di copie? Indovinare lo spirito dei tempi con il giusto anticipo. Non troppo né troppo poco. Nel 1940 c’era la guerra e la gente aveva bisogno di sentirsi unita e compatta; non poteva mettersi a fantasticare sui meccanismi sociali che portano al crollo di un organismo complesso. Nel 1961 il neocapitalismo era in pieno boom e la gente cominciava a sospettare che prima o poi sarebbe andato a sbattere contro i suoi limiti. Ecco perché la trilogia della Fondazione ebbe successo con vent’anni di ritardo.

    Ma, come al solito, un’analisi di questo genere si può fare solo a posteriori. Nel 1940 non la fecero né l’autore né l’editore. Nel 1961 l’autore non ci pensò ed è probabile che l’editore abbia ristampato i romanzi della Fondazione solo perché nel frattempo Asimov si era fatto un nome con i romanzi sui robot.

    Indovinare lo spirito dei tempi al momento giusto è l’unica cosa che conta. In un mondo attratto da dietrologie, esoterismi e trasgressioni, Il codice da Vinci vende a carrettate anche se è scritto con i piedi. La paura e la speranza è un pessimo saggio, ma arriva quando gli italiani hanno paura e non sanno ancora di averla; Tremonti glielo spiega e vince le elezioni. Ecco tutto.

    Volete vendere un milione di copie di qualunque cosa, essere intervistati da Daria Bignardi, fidanzarvi con una velina? Provate a indovinare lo Zeitgeist. Poi scrivete pure con uno stile sciatto come Verne oppure tronfio come Umberto Eco oppure cupo e noioso come Houellebecq. Non importa. La sostanza fa premio sulla forma anche quando è illusoria: basta che sia condivisa.

 

                                            Il gioco a somma zero

 

    Si parla tanto di “emergenza sicurezza”. Un giorno si invocano leggi, espulsioni, ronde notturne, provvedimenti eccezionali; il giorno dopo gira il vento e si chiedono indulti, benefici, tolleranza. Un giorno ci si scaglia contro i rom, il giorno dopo si invoca la solidarietà. Forse mi sono perso qualcosa, ma mi rode il dubbio che questo dibattito non serva per capire qual è la cosa migliore da fare e che i clandestini, i rom, i cittadini impauriti/incazzati, siano tutti strumenti di un gioco politico.

    Sbaglierò, ma sono convinto che, prima di invocare provvedimenti severi o di assolvere a priori, sarebbe il caso di ricuperare il senso di parole come “colpa” e “responsabilità”. Ripeto: sbaglierò. Ma secondo me abbiamo finito per attribuire a queste parole un significato distorto.

    Se vi sembra che la prendo troppo alla lontana vi chiedo scusa, ma non saprei come fare diversamente. Partiamo da un caso pratico.

    A Turate, a metà strada fra Milano e Como, successe un fatto di cronaca nera: madre e figlio convinsero un dipendente della piccola impresa familiare a uccidere il rispettivo marito e padre. Ricordo che, quando sentii la notizia in televisione, provai orrore per circa dieci secondi; poi, in modo automatico, arrivò il ripensamento e mi domandai: “Cosa aveva fatto quell’uomo per spingere moglie e figlio all’assassinio?”. Infine, in modo molto meno automatico, anzi, con un certo sforzo, mi costrinsi a pensare: “Ma che ne so io che la vittima fosse più detestabile degli assassini? Da dove viene il pregiudizio per cui, più un delitto è efferato, più sono portato a pensare che la vittima se la sia voluta?”

    A furia di rifletterci sono arrivato alla conclusione che il pregiudizio nasce, in ultima analisi, dalla suggestione del “gioco a somma zero” e cioè dal meccanismo per cui, se il panettiere sotto casa si fa vedere in giro con la macchina nuova, sono portato a pensare: da dove vengono questi soldi? Dalle mie tasche! Quello si è arricchito perché ha messo le mani nel mio portafogli. E se lui guadagna vuol dire che io ci ho rimesso.

    Questa è la semplificazione. È come lanciare una moneta: testa vince, croce perde. La somma è zero. Eppure basta esaminare dei casi concreti per constatare che non è affatto così. E allora perché ci lasciamo fuorviare da un ragionamento rozzo? Perché ci ostiniamo a guardare la realtà attraverso occhiali colorati? Togliamoci gli occhiali del “gioco a somma zero” e torniamo al fatto di Turate: come mai ho almanaccato sulle presunte colpe della vittima di un omicidio più o meno disumano? Perché volevo darmene conto non solo in termini di verità (chi è stato?), ma anche di giustizia (ha fatto male o ha fatto bene?). Questo mi ha portato a pensare nei termini di un gioco a somma zero. Se uno ha ragione, l’altro deve avere torto.   

    Gli omicidi in famiglia sono antichi come il mondo e sono stati puniti in modi diversi: tortura, morte, ergastolo. Però Dio non punì Caino; anzi, proibì agli uomini di fargli del male. Romolo uccise il fratello e non solo non fu punito, ma diventò re. Lasciando perdere la mitologia e tornando alla cronaca, ricordo il caso di un certo Carretta che sterminò la famiglia e si rese latitante. Anni dopo fu rintracciato, processato e giudicato infermo di mente (nei giudici non può non aver pesato la convinzione che per commettere un delitto così atroce bisogna essere fuori di testa). Una volta ricoverato in ospedale psichiatrico, in poco tempo (troppo poco!) fu ritenuto guarito. Oggi vive in semilibertà, ho letto che vuole sposarsi e un tribunale gli ha perfino assegnato l’eredità dei genitori che ha assassinato.     

    Ora sta a noi decidere come vogliamo comportarci. Può darsi che esistano gli imperativi categorici e le leggi di natura. Può darsi di no. Da un punto di vista laico, io mi accontenterei di definire i reati come atti che la società punisce nella misura in cui ritiene pericoloso non farlo.

    Ma è proprio qui che la sensibilità collettiva presenta un problema: fino a ieri era diffusa la convinzione che basti qualche anno di galera per ricuperare alla vita civile anche gli assassini più spietati e quando i cittadini chiedevano di essere difesi dai violenti li si tacciava di intolleranza. Improvvisamente sembra che il vento sia girato, per reazione, per paura, per esasperazione.

    Siamo ancora schiavi del gioco a somma zero. Nessuno si preoccupa di far notare che è proprio per tutelare i deboli dai violenti che è nato il diritto.   

                                                             ***

    L’anno scorso una sentenza della Cassazione ha concesso le attenuanti generiche a un assassino in considerazione delle sue “disagiate condizioni sociali ed economiche”. Si trattava di un migrante clandestino e per qualche giorno la cosa ha fatto discutere. Poi, come al solito, altre notizie l’hanno obliterata. Eppure, qualche considerazione sarebbe necessaria.

    Cinquant’anni fa una sentenza di questo genere sarebbe stata impensabile. D’accordo: è normale che col trascorrere del tempo le idee cambino e di conseguenza muti la percezione della gravità dei reati e delle pene. Ma questi mutamenti dovrebbero essere sanciti dal Parlamento e non dalla communis opinio. In ultima analisi, e prescindendo dal caso specifico che ha dato origine alla sentenza della Cassazione, perché lo Stato mette in galera i responsabili di un reato? Per dargli un brutto voto in condotta o per difendere la società?

    Considerare attenuante per un omicida il fatto che si trovi in una condizione di disadattamento non significa introdurre un criterio soggettivo nella valutazione del reato? Se si decide di imboccare questa strada, bisognerebbe considerare che le cause di disadattamento non sono soltanto economiche. Disadattato è anche un trovatello, un orfano, un divorziato. E perché non un disoccupato, o chi per vivere deve ridursi a fare un mestiere che non gli piace? E cosa mi dite di un poeta sconosciuto, un romanziere che non trova editori, un pittore che non vende quadri? E voi, e io, non abbiamo motivi per lamentarci del mondo crudele? Di questo passo, disadattato è chiunque. Ma se interpretiamo la legge in questo modo diventa possibile commettere i peggiori reati e cavarsela con poco. E allora come può sentirsi sicura la società?

    Forse è il caso di ripartire da zero. Lo stato esiste per uno scopo preciso: difendere i cittadini dalle violenze interne ed esterne. Dalle violenze esterne con la diplomazia e l’esercito. Dalle violenze interne con la legge, la magistratura e la polizia. Lo stato (a differenza della Chiesa) non esiste per distribuire premi e punizioni, ma per dare protezione alle vittime di chi usa violenza. Se Tizio commette un omicidio, lo stato non lo mette in galera perché è cattivo, ma per difendere la società dal rischio che Tizio ci riprovi e per far sapere ai malintenzionati: farete la stessa fine.

    A furia di interpretare la legge con criteri soggettivi, si è finito per considerare la riabilitazione come qualcosa di scontato (perché tutti gli uomini sarebbero buoni) e non un obbiettivo difficile e spesso impossibile da conseguire (perché il male si può combattere ma non estirpare). È grazie a questi criteri sempre più soggettivi che Izzo, il massacratore del Circeo, è uscito di galera e ha ucciso ancora.

    Si obbietta: statisticamente, fra tutti coloro che usufruiscono della semilibertà sono pochi quelli che ne approfittano per commettere altri reati. Può darsi. Ma chi glielo spiega alle vittime? E se lo stato affida alla statistica la vita dei cittadini, chi potrà impedire che i cittadini comincino a circolare con la rivoltella in tasca?

    Riabilitare i delinquenti è utile e desiderabile, ma solo dopo che la società è stata messa in condizioni di sicurezza. Che senso ha promulgare leggi, mantenere polizia, magistratura e istituzioni carcerarie, se poi gli assassini tornano a uccidere?

                                                         ***

    Non si può cambiare la natura umana per legge. È più logico che la legge si adatti ai cambiamenti spontanei dell’opinione pubblica. Ma è pur vero che i cambiamenti possono essere sollecitati da un dibattito, a condizione di non volare nell’empireo dei massimi sistemi e di andare dietro alla verità effettuale della cosa. In particolare, a mio parere, abbiamo bisogno di rivalutare il concetto di responsabilità.

    Prendo ancora una volta un esempio dalla cronaca.

    A Gerenzano, un paesotto dell’alto milanese, una persona mentalmente disturbata uscì di casa con un martello, andò al bar e lo picchiò sulla testa di una ragazzina di tredici anni che stava prendendo il gelato insieme agli amici. Non so se la ragazzina se l’è cavata, perché, come al solito, i TG dimenticarono la notizia nel giro di due giorni. Ma nell’imminenza del fatto tutti i servizi mostrarono un cittadino che si domandava: non c’è nessuna autorità che si preoccupi di evitare che una persona che ha già dato segni di squilibrio faccia danno al prossimo? In sostanza, i TG diedero voce all’esasperazione popolare suggerendo che la colpa era dello stato (cioè di nessuno) ed evitando accuratamente il tema della responsabilità.

    È pacifico che uno squilibrato non sia responsabile di ciò che commette, ma per chi lo lascia libero di uccidere o di rovinare la vita degli altri un problema di responsabilità esiste eccome, e va risolto alla svelta. Invece, la procedura corrente in questi casi è: il magistrato apre un’inchiesta, vengono interrogati l’assistente sociale, il direttore dell’ASL, il maresciallo dei carabinieri, il capo dei vigili urbani, il sindaco e l’assessore alla sanità. Vengono richieste perizie e controperizie. Lo squilibrato resta a spasso o ci ritorna nel giro di poche settimane. Dopo due anni il magistrato conclude che ognuno ha fatto il suo dovere a termini di legge. Non c’è stata colpa. Chi ha preso la martellata in testa se la tenga.

    Il fatto è che la colpa è una cosa, la responsabilità è un’altra. Non basta timbrare il cartellino in entrata e in uscita per dire di aver fatto il proprio dovere: per guadagnarsi lo stipendio bisogna anche lavorare. Allo stesso modo, se qualcuno c’è andato di mezzo, non basta che nel nostro comportamento non ci sia stato dolo o colpa in senso giuridico. La colpa è qualcosa che sta innanzitutto nella coscienza di ciascuno, mentre la responsabilità è un fatto sociale e coinvolge tutti.

    Non venitemi a dire che, se non c’è colpa, non c’è neanche responsabilità. Questo vale nel diritto penale, ma i comportamenti umani vanno giudicati anche da altri punti di vista. Chi ha una autorità e permette che succedano fatti come quello di Gerenzano deve trarre le conclusioni, cioè andarsene, e qualcuno al di sopra di lui deve prendere provvedimenti. Se i cittadini non sono tutelati e, per esempio, gli squilibrati e i personaggi socialmente pericolosi girano liberi per la strada, vuol dire che qualcuno non ha fatto il suo dovere. 

    La confusione fra colpa e responsabilità avvelena molti settori della nostra vita. Oltre a essere discutibile, l’idea che gli uomini nascano buoni e vengano rovinati dalla società non spinge a considerare la società responsabile verso chi è a rischio, ma ad assolvere i rei per addossare alle vittime un generico senso di colpa. Chi soggiace al fascino del gioco a somma zero non può staccarsi dalla “mentalità della colpa” e non vuol saperne di una “mentalità della responsabilità”. Eppure, indignarsi per le colpe e trascurare le responsabilità è un comportamento suicida: la società che non sa adottare punti di vista responsabili passa bruscamente da un estremo all’altro, in preda alle passioni eccitate dai professionisti delle opposte indignazioni. Le istituzioni che non si comportano in modo responsabile cercano di compiacere le passioni del momento. Oscillando fra giustizialismo e autoritarismo, fanno apparire lo stato di volta in volta vendicativo oppure oppressore, e il loro prestigio cade sottozero. Così l’opinione pubblica si abitua a considerare le leggi come grida manzoniane e ognuno cerca il modo di proteggersi da sé. Dall’ordine si passa al marasma e poi al far west.

    Come ammoniva Platone, quando la libertà degenera in licenza apre la porta alla tirannide.

 

                                        Croce e Montanelli

 

    La più grande scoperta del ventesimo secolo forse non è la bomba atomica o la penicillina o la radio o il computer, ma il teorema di Gödel, che dimostra come un sistema logico non può contenere in se stesso il suo ubi consistam. Sarà anche la scoperta dell’acqua calda, però bisognava dimostrarla perché le migliori menti dell’umanità smettessero di avvolgersi nei circoli viziosi.

    Be’, se andate a scovare la formulazione scientifica del teorema ci rimanete male: non solo è incomprensibile, ma è anche involuta, contorta, labirintica.

    E non è mica un caso unico. La formula per cui è famoso Einstein, in realtà, non dice affatto che l’energia è pari alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce. La formula vera è (credo) un’equazione differenziale che afferma l’equivalenza, non di due termini, ma delle loro variazioni relative; e la sua espressione in termini matematici è complicata, esoterica, oscura.

    Nella realtà tutto quanto funziona a base di semplificazioni che tradiscono il senso originario delle cose. I libri di storia dicono in poche righe che un certo patto sancì la supremazia di questo o quello Stato; ma nel documento originale, mille volte più prolisso, non è detto che questa supremazia traspaia in modo evidente. A volte capita che leggendo un trattato di pace si faccia fatica a capire chi ha vinto la guerra e chi l’ha persa. La formulazione originale di una scoperta, di una legge, di un accordo, di una decisione qualsiasi, è molto più faticosa e molto meno lampante di come appare più tardi, quando la Storia ha preso un indirizzo definito.

    Quel che voglio dire è che le cose umane sono tremendamente diverse se le guardiamo a priori o a posteriori.

    Pensate: due giorni dopo aver saputo della morte di Napoleone, Manzoni si domandava (seriamente!): “fu vera gloria?” e si rispondeva altrettanto seriamente: “ai posteri l’ardua sentenza”. Ma che, scherziamo? Domandarsi se Napoleone sarebbe entrato nella Storia oppure no! E non saper rispondere! Roba da non crederci. Eppure è così che funzionano le cose, in realtà.

    Quando leggiamo che Giulio Cesare a Farsalo si trovava in una situazione di svantaggio strategico e proprio per questo cercava battaglia con Pompeo, ammiriamo il suo sangue freddo perché sappiamo com’è andata a finire. Se Cesare avesse perso, oggi diremmo che dar battaglia in condizioni di inferiorità era follia bella e buona. Allo stesso modo, quando leggiamo di Hitler che invade la Russia lo consideriamo un pazzo scatenato. Ma a Natale del ‘41 Stalin non lo considerava pazzo proprio per niente: non poteva sapere che la Wehrmacht sarebbe rimasta inchiodata a venti chilometri da Mosca e sarebbe stata sconfitta a Stalingrado.

    Questa incertezza, questa sensazione di indecidibilità, è ciò che va sempre tenuto presente quando si legge la Storia. Non si tratta semplicemente di ricordare che la Storia la scrivono i vincitori (chi dovrebbe scriverla, se no?). Bisogna anche entrare nell’ordine di idee che i giudizi a cose fatte sono fuorvianti perché finiscono per attribuire a Tizio il merito o il demerito di una combinazione di forze assolutamente imprevedibili; come se Tizio lanciasse i dadi e noi dicessimo che è merito suo se è uscito il sette. Certo, è sua la scelta di aprire il portafogli e mettersi in mano alla sorte, ma dove sta il merito in una decisione di questo tipo?

                                                              ***

    A volte mi domando se anche i presidenti e i premier eletti non dovrebbero considerarsi detentori del potere “per grazia di Dio”. È vero che il potere glielo conferisce il conteggio delle schede scrutinate, ma l’esito di una votazione a suffragio universale è così aleatorio, così soggetto a migliaia di sollecitazioni in un senso e nell’altro, da assomigliare all’esito di una battaglia: prima che inizi nessuno può dire chi vincerà, mentre, quando è finita, pare che sia andata nell’unico modo possibile.

    Fino all’ultimo momento tutto può succedere, in battaglia come in campagna elettorale. Eventi imprevedibili spostano milioni di voti. Enrico Berlinguer muore per ictus sul palco di un comizio e il PCI supera per la prima e unica volta la DC. In Olanda un certo Pym Fortuyn viene ucciso in un attentato a pochi giorni dalle elezioni, il suo partito triplica i suffragi ed entra nel governo dal quale era sempre stato escluso. In Spagna l’attentato di Madrid viene attribuito alla ETA, poi salta fuori che non è così, e Aznar viene sonoramente trombato. Al contrario, quattro anni dopo, un vero attentato della ETA aiuta Zapatero a restare al potere.

    L’aspetto curioso di questa linea di pensiero è che gli eventi suscettibili di influenzare la storia di un popolo (o anche la storia personale di ciascuno di noi) sono, di per sé, senza colore. Un ictus non è programmato per arrivare al momento giusto per favorire questo o quel partito, gli attentati terroristici non sono concepiti e messi in opera per favorire questo o quel candidato. Ciascuno può trarre profitto dagli eventi imprevisti e volgerli a suo favore. Ma a volte ci si riesce, a volte no.

    La realtà è che, quando uno prende una decisione (qualunque decisione), deve mettere nel conto che ci saranno conseguenze non previste e non volute, e che queste ultime avranno maggiore portata di quelle che l’hanno deciso a prendere l’iniziativa. La Storia ha il vizio di evolvere in modo inatteso e di far sì che i pronostici dei futurologi diventino sistematicamente carta straccia. (Quando sento dire da ministri e governatori che il PIL è previsto in discesa per poi riassestarsi dopo un anno e mettersi a galoppare dopo tre-cinque anni, mi tornano in mente i prospetti degli uffici budget nelle aziende in cui ho lavorato: primo anno in perdita, secondo in pareggio, terzo, quarto e quinto da nababbi. Un classico. Ma mai una volta che le cose siano andate così).

                                                            ***

    E allora, se la realtà ha due facce, una a priori e un’altra a posteriori, cosa dovremmo pensare di chi esalta la preveggenza di Giolitti, la volontà di Bismark, la modernità di Disraeli? Dovremmo leggere la Storia come Benedetto Croce che ci vede uno scontro di Idee, oppure come Indro Montanelli (si parva licet…) che ci vede uno scontro di Uomini?

    Personalmente mi sono fatto un criterio: Croce guarda la Storia a posteriori perché, da studioso, è abituato a considerare i documenti non per ciò che significavano quando furono scritti ma per il significato che assunsero poi, nel prosieguo degli avvenimenti. Per questo è portato a dare più importanza alla linea di sviluppo che al fatto in sé. Montanelli invece guarda la Storia a priori perché, da giornalista, è abituato a intervistare chi deve decidere quando ancora non ha deciso. Per questo conosce i dubbi e le incertezze in cui si dibatte chi deve prendersi una responsabilità, e conosce anche le miserie umane e le debolezze che influenzano certe decisioni.                   

    E allora, qual è la maniera giusta per leggere la Storia?

    Tutte e due. La Storia è sempre la stessa ed è vera tanto a priori quanto a posteriori. I fatti che la determinano nascono da combinazioni di fattori che quasi mai si rivelano governabili e possono anche contenere in sé i germi di un capovolgimento. La vittoria di Austerlitz sembrò il colpo di grazia all’assolutismo, e invece fu un grido d’allarme che fece arroccare i poteri reazionari per un secolo intero. Al contrario, il colpo di stato del 18 brumaio può apparire la meno gloriosa delle imprese napoleoniche, eppure fu la solida base su cui la Francia, dopo aver tagliato la testa al feudalesimo, ricostruì l’unità di una filosofia, di una politica e di una nazione.

    Ogni evento ha due facce e chi si illude di prevederne gli sviluppi con matematica certezza va incontro ad amare disillusioni. Perseguire con coerenza un disegno razionale è il modo migliore per andare incontro al fallimento, e i falliti non entrano nella Storia. Visti da vicino, i personaggi che “hanno fatto la Storia” sono quasi tutti avventurieri che miravano al successo personale senza fissarsi su una ideologia. Nella fase a priori, quando dovevano decidere cosa fare, da che parte schierarsi, l’unica cosa di cui si curavano era conservarsi una via d’uscita nel caso in cui le cose fossero andate a rovescio. Nella fase a posteriori, quando ormai indietro non si torna più, si affrettavano a interpretare gli eventi nel modo più proficuo per loro. In realtà non facevano la Storia: si limitavano a rincorrerla.

    Ma allora, chi fa la Storia? Nessuno. La Storia si fa da sé.

 

                                     Croce e Montanelli 2

 

    Il post precedente ha suscitato una reazione di rilievo. Il professor Antonio Sparzani, che insegna Fondamenti della Fisica all’Università di Milano, mi ha fatto avere questo commento. Lo pubblico insieme alla mia risposta.

                                      

    Molto interessante e stimolante, Riccardo, ce ne sarebbe da dire. Ecco qualche punto disordinato:
    a. nell’elenco dei fatti tipo ETA e Aznar metterei gli attentati dell’11 settembre che hanno enormemente favorito Bush, risollevandone la posizione in quel momento particolarmente debole.
    b. l’equivalenza massa energia data dalla formula E=mc^2 afferma una vera equivalenza: si dice cioè, come conseguenza della proposta di Einstein del 1905, che le due grandezze fisiche, massa ed energia, che fino ad allora si pensava si conservassero ognuna per proprio conto in qualsiasi processo fisico, invece possono non conservarsi appunto separatamente, bastando invece che si conservi, per ogni sistema fisico, la loro somma, cioè la sua massa più la sua energia; ad esempio la massa può diminuire un po’ – o anche annullarsi – purché alla fine risulti l’opportuna quantità di energia che compensi quella perdita di massa.
    c. E’ vero che la formulazione di Gödel è tecnicamente complicata, però una cosa comprensibile si può dire: Gödel dimostra che forzatamente l’aritmetica (ma non necessariamente ogni altra teoria assiomatica) contiene proposizioni delle quali all’interno dell’aritmetica stessa e della sua logica dimostrativa interna, non si sa decidere se sono vere o false (proposizioni indecidibili), cioè per le quali non esiste una dimostrazione di validità o di falsità. Involuto ma comprensibile. E deprimente per gli assertori della infinita e ineluttabile capacità della logica di decidere tutto.
    d. La cosa che mi ha più affascinato leggendo Guerra e pace, lettura che peraltro consiglio a tutti prima o poi nella vita, è la filosofia della storia di Tolstoj: che non poco assomiglia a quello che tu dici. Nel senso che dice, il Nostro, che nessun fatto importante della storia è da ascrivere a merito o demerito di qualche singolo importante Personaggio (T. parla molto di Napoleone, ovviamente) ma che è la somma di innumeri piccolissimi contributi e concause. Nessuno dei quali è da solo determinante. E a tale scopo Tolstoj tira in ballo addirittura il calcolo integrale.
    e. La cosa forse più importante che tu metti in rilievo è la differenza tra a priori e a posteriori, che almeno serva ad evitare i così diffusi e indisponenti “l’avevo detto io!” di quelli che sapevan già tutto prima.
    Aggiungo solo su questo punto che, da fisico, mi viene da dire che nessuna certezza – matematica o altro – è ovviamente possibile nelle previsioni storiche; nessuna scienza è neppure minimamente in grado di tenere conto delle troppe variabili che determinano il futuro. Ma in questo sta anche il bello della cosa, a parer mio.

 

    Anthony, grazie per le precisazioni che mi danno modo di andare un po’ più a fondo.

    a. Certamente l’attentato alle Twin Towers ha rafforzato (provvisoriamente) la posizione di Bush. Quando ho scritto il post sono stato tentato di citarlo a sostegno della mia tesi (dato che non era certo questo lo scopo primario di Bin Laden!). Ma questo esempio avrebbe dirottato una eventuale discussione su argomenti completamente OT.

    b. Grazie anche per la chiarezza con cui approfondisci il significato della relazione massa-energia nella fisica di Einstein. (Per chi non lo sapesse, Sparz è un docente universitario). Ai fini del mio discorso (riduzione a posteriori in termini semplici e comprensibili di ciò che a priori è complicato ed esoterico), e a titolo di pura e semplice curiosità, mi piacerebbe sapere se le formule originali del 1905 sono espresse in termini di algebra elementare o in termini matematici sofisticati.   

    c. Anche per quanto riguarda Gödel credo che il mio discorso stia in piedi. Paragonando la mia formulazione “letteraria” del teorema a quella – molto più corretta e aderente all’originale – che tu hai ricordato, si può osservare come la perdita di profondità sia più che compensata dall’aumento di comunicabilità. Il motivo per cui la diffusione della cultura deve sottostare a un certo grado di banalizzazione è di tipo sostanzialmente economico. Certo è che qualunque scoperta (patto, decisione, ecc.) produce sviluppi alla luce dei quali viene rivisto il giudizio complessivo. Se la diffusione della scoperta non esce dall’ambito scientifico, i corollari che se ne traggono indirizzeranno il significato in un senso piuttosto che in un altro (e non è neanche detto che sia “quello giusto”, qualunque cosa voglia dire questa espressione); se invece la scoperta ha una grande diffusione (e contestuale banalizzazione), influenzerà gli stili di vita e verrà giudicata alla luce di questi ultimi.     

    d. Qui invece non sono d’accordo. In questo senso: Tolstoj non si limita a definire la Storia come funzione di n variabili, con n così grande da renderne imprevedibili gli sviluppi; Tolstoj arriva a teorizzare la “inerzia della Storia”, sostenendo in pratica che l’invasione della Russia da parte del rivoluzionario Napoleone era impossibile perché la Storia possiede una forza passiva, una inerzia, che nessuna forza umana può smuovere. Lenin non la pensava così. Nel mio piccolo, anch’io mi permetto di avere un’opinione differente. La mia visione del mondo è sostanzialmente hegeliana e sono convinto che, per vie impossibili da definire in anticipo data l’intrinseca contraddittorietà del reale, la Storia non possa fare a meno di tendere verso lo Spirito Assoluto. Per questo sostengo che la Storia deve essere letta tanto a priori quanto a posteriori: tutte e due le letture sono vere, ma nessuna delle due è esaustiva. In ogni fatto, con le conseguenze che ne derivano, si estrinseca l’opposizione di tesi e antitesi, e per vedere la sintesi bisogna aspettare gli sviluppi. Il che, in fin dei conti significa proprio ciò che sostengo nei miei post e nei miei romanzi: la Storia si fa da sé, non per inerzia ma per entelechia (grrr! come detesto usare termini aristotelici!).  

 

 

                                     A cena con Sparz 

 

    Il fisico passa la vita a formulare e verificare ipotesi su come interagiscono corpi e corpuscoli; il narratore, lo storico, il filosofo, passano la vita a fare altrettanto con gli esseri umani. È una analogia che può sembrare calzante oppure tirata per i capelli. Fino a che punto si può spingerla? Stiamo pure attenti a non esagerare, ma forse vale la pena di portarla piuttosto a fondo. È utile. Ed è pure divertente.

    Non lasciamoci condizionare dal fatto che la fisica è parente prossima della matematica. È vero: alla base dell’analogia tra fisica e umanistica c’è il “modo di ragionare della matematica”. Ma nessuno ci chiede di dimostrare teoremi o risolvere equazioni. Per approfondire la nostra analogia basta rifarsi al modello che tutte le scienze hanno in comune. Cioè la logica. Di questo, o meglio, di tante cose scollegate che reclamavano una sintesi, ho chiacchierato con Antonio Sparzani.

    Per chi non lo sapesse, Sparz sta pubblicando a puntate (con lunghi intervalli tra una puntata e l’altra) su N.I. e su Lpels un feuilleton molto più interessante di quelli che nell’Ottocento riempivano i supplementi del sabato delle gazzette, e il mio subdolo proposito era convincerlo ad accelerare la frequenza delle puntate. Il protagonista di questo saggio-romanzo è l’etere, un concetto elusivo e fantomatico che fa capolino più nei meandri della mente umana che negli spazi vuoti dell’immensamente grande o dell’immensamente piccolo. Un concetto labirintico e rocambolesco che obbliga a prendere in esame tracce inconsistenti e a formulare teorie alle quali non è necessario credere (ma nelle quali è doveroso sperare, se non altro perché nella ricerca di improbabili conferme può sempre saltar fuori qualcosa di interessante, per magia, per serendipità).   

    Non so se il mio tentativo ha avuto successo. Il fisico è quel tipo particolare di homo sapiens che possiede una quadratura mentale infrangibile e, una volta impostata la rotta, non la cambia neanche in mezzo a un tifone. Ma è pure vero che il fisico ha una tale ampiezza di vedute da ritrovarsi spesso di fronte al medesimo problema del romanziere: avere una vaga idea di come dovrebbe andare a finire la storia, ma essere sempre in dubbio sulla strada da prendere per arrivarci. Le alternative sono troppe.

    Ed è qui che l’analogia riprende vigore perché ho scoperto che anche Sparz è interessato al curioso fenomeno per cui la stessa Storia che, vista a posteriori, appare perfettamente sensata, appare invece caotica quando la si ricostruisce a priori, dal punto di vista di chi si è trovato a dover decidere. (Caotica, e non casuale. Per quanto strano possa apparire, anche il caso obbedisce a delle leggi e, se la Storia fosse casuale, si potrebbe interpretare l’universo mondo con un sistema di equazioni).

                                                          ***

    In realtà, il paradosso della Storia caotica/sensata è noto fin dai tempi più remoti ed è stato affrontato in molti modi. Si è pensato a divinità che intervenivano nella Storia a loro capriccio, e bisognava ingraziarseli con dei sacrifici (compresi i sacrifici umani). Si è pensato a divinità più razionali, ma sempre imperscrutabili, che intervenivano secondo i disegni del Fato o di una Provvidenza. Si è pensato che certi uomini (Alessandro, Cesare, ecc.) fossero dotati di un intuito divino che li metteva in grado di pescare nel mazzo delle scelte possibili l’unica storicamente “giusta”. Poi si è cominciato a pensare che non sia vero niente di tutto ciò, e che l’universo evolva in modo casuale (o caotico?), e che lo sviluppo della Storia appaia razionale a posteriori per via di un’attitudine mentale che postula un senso anche in una mera successione di fatti scollegati. Infine si è arrivati alla conclusione che la stessa logica, di cui ci siamo illuministicamente gloriati per due secoli abbondanti, abbia in realtà dei grossi limiti. E rileggendo il nostro passato ci accorgiamo con un certo disappunto che da quando la Dea Ragione ha preso il potere si è data un gran daffare per segare il ramo su cui stava seduta: dai paralogismi kantiani alle proposizioni indecidibili gödeliane, in poco più di cent’anni la logica è stata ridimensionata e, in un certo senso, ridicolizzata.   

    A quanto pare, siamo tornati al punto di partenza e l’uomo della strada non sa più a che santo votarsi: la ragione ha vantato i suoi successi, ha promesso uno sviluppo senza fine, ha obliterato la religione; ma non appena lo sviluppo segna il passo, il fascino della ragione viene meno e senza fiducia nella scienza si ricasca nella superstizione. Il futuro fa paura.

    Come se non bastasse, nel bombardamento mediatico tutti parlano con la stessa autorevolezza e il mago Otelma ha lo stesso credito del Papa o del professor Veronesi. In questa situazione da basso impero impazza la new age, prosperano i ciarlatani. La scienza e la filosofia sono diventate troppo specialistiche, incomprensibili, autoreferenziali. L’uomo della strada si rende conto di non avere più una guida e, come sempre accade quando deve fare da sé, sacrifica la ragione alla libertà: affronta le incognite del futuro affidandosi all’intuito. 

    All’interno di ogni uomo, di ogni società, nazione, corrente di pensiero, moda, tendenza, tornano a liberarsi sentimenti e intuizioni che si coagulano in tesi opposte e si scontrano in conflitti prima di ricomporsi in provvisorie sintesi. In questo modo (apparentemente?) caotico la Storia dilaga oltre gli argini in cui la paura dell’ignoto tentava di imbrigliarla.

    Ma chi ci dice che questi sentimenti, queste intuizioni antitetiche, troveranno una composizione come hanno sempre fatto? Chi ci garantisce che la risultante di tanti vettori diversamente orientati continuerà ad apparirci a posteriori come una sintesi razionale o provvidenziale? Nessuno.

    L’unico modo per saperlo è aspettare la prossima puntata.   

   

                                Il rimbalzo del Rinascimento   

 

    I cultori di storia e di economia non dimenticano gli esili ma godibilissimi libretti di Carlo M. Cipolla. I cultori di fisica, ma soprattutto gli esseri pensanti (ci sono, ci sono ancora!), dovrebbero procurarsi una delle cinquecento copie in cui è stato tirato “Rimbalzello” di Antonio Sparzani, e magari costringere l’editore “il grillo lucente” (tel. 030.9103615) a ristamparlo.

    In questo lepidus, novus libellus non troveranno teorie rivoluzionarie ma qualcosa di molto più importante: uno stimolo a pensare senza addormentarsi nei luoghi comuni, a non usare le parole come utensili ma a indagare il loro significato. Anche a rischio di scoprire, con un certo sgomento, che il significato non c’è.

    Antonio Sparzani unisce l’età della saggezza (è nato nel 1942) a uno spirito eternamente giovane, simboleggiato da una massa di capelli che gli incornicia il volto in stile un po’ Einstein, un po’ Ringo Starr, un po’ Andy Warhol. Sospetto che la vera ragione per cui si è deciso a insegnare Fondamenti di Fisica all’Università statale di Milano sia da ricercarsi nel bisogno di dimostrare che, dopo tutto, è una persona seria. Perché il guaio è che la gente normale non può fare a meno di cadere nella trappola dei luoghi comuni, e chi vede Sparzani in fotografia può pensare che nella vita faccia il suonatore di trombone in un’orchestra jazz, il guru di una setta mistica, o magari il gigolo.

    C’è poco da fare: tutti quanti crediamo di avere sconfinate risorse di immaginazione, invece la realtà ci rinchiude in limiti molto più ristretti di quanto ci faccia piacere pensare. I salumieri che per dieci ore al giorno affettano prosciutti potranno magari spingere i loro pensieri fino a figurarsi il maiale che grufola e razzola; forse qualcuno di loro sarà curioso di conoscere l’allevamento da cui proviene la coscia che sta affettando; magari uno su mille si interesserà ai mangimi per maiali e uno su un milione si chiederà quanta percentuale di ghiande contengano. Ma ce ne sarà uno che arrivi a domandarsi come fanno i maiali a sapere che le ghiande cadono dalle querce, e quando, e perché?

    L’autore non solo se lo domanda, ma si spinge oltre. Il suo metodo consiste nell’indagare i testi originali di chi ha formulato le leggi della fisica, per soffermarsi sul significato delle parole che usano. Basta un assaggio e si resta stupefatti. È sorprendente vedere quanta approssimazione contengano i termini usati da filosofi e scienziati. Non si può fare a meno di preoccuparsi quando ci si accorge che i concetti basilari della scienza nascono da metafore quasi poetiche. Si resta delusi e sbigottiti constatando che quei concetti, se ci aiutano a capire certi meccanismi, non arrivano mai a chiarire essenza e significato. Gravità significa “peso” (e bisogna ammettere che, come definizione, è tutt’altro che precisa). Quali siano i suoi effetti lo sappiamo tutti. Come si definisca matematicamente ce l’hanno detto prima Newton e poi Einstein. Ma che cosa sia non ce l’ha mai spiegato nessuno.

    Sparzani non squarcia il velo del mistero, ma ce lo indica, anzi, ce lo sbatte sul muso. E, per colmo di ironia maieutica, lo fa ricuperando la tecnica narrativa che fu cara a Galileo e a Giordano Bruno: il dialogo. Soffuso di un nostalgico erotismo adolescenziale, assistiamo al reciproco corteggiamento di due compagni di scuola dai nomi allusivi: Fiorino e Gaia. In riva al lago di Garda, fra una nuotata e un tramonto che intenerisce il cuore, i due scoprono un comune interesse per i più semplici fenomeni della fisica. (Guardate un po’ dove va a ficcarsi l’Eros!). Per esempio: come mai, quando scaglio un sasso, il sasso va lontano invece di cadere subito a terra? Perché c’è l’inerzia. E che cos’è l’inerzia?

    Con questa domanda Sparzani ci riporta al Rinascimento, all’epoca in cui gli scienziati alchimisti si vantavano di essere uomini integrali e potevano prendere come motto homo sum: humani nihil a me alienum puto. Avranno anche sbagliato tutto, si saranno persi dietro la cabala e la teurgia, ma non si sono mai accontentati (come fa la scienza degli ultimi due secoli) di studiare come funziona questo o quel fenomeno: volevano sapere cos’è.

    D’accordo: non l’hanno scoperto. Ma non l’abbiamo scoperto neanche noi. Probabilmente non lo scopriremo mai. Pazienza. Il premio della caccia non è la selvaggina, è la caccia in se stessa.                  

 

                                        Il senso del sacrificio

 

    Per leggere i diciannove racconti di Fabrizio Centofanti (Guida pratica all’eternità – Effatà Editrice, Torino) ho impiegato il tempo che di solito si dedica a un romanzo, perché non c’è modo di leggerli senza mettersi a pensare. Basta leggere un singolo racconto per accorgersi che al di sotto sta prendendo forma qualcos’altro e che, a dispetto della sua apparenza sparpagliata, il libro ha una architettura, un senso e la giusta dose di furberia autoriale. 

    Tanto per cominciare: l’aspetto formale. Un pignolo potrebbe sostenere che non di racconti si tratta, ma di bozzetti nei quali vengono schizzate impressioni, rapidi imprinting di esseri umani che restano pur sempre impenetrabili, chiusi nella loro incomunicabilità. Qualcun altro potrebbe lamentare la quasi totale assenza di azione: qui non “succedono cose”, ci sono soltanto dei “gesti” che dovrebbero gettar luce su una personalità (e invece, più si cercano significati e più ci si addentra nell’ombra).

    Eppure queste sarebbero critiche senza senso: la verità è che ciascuno di questi brevi racconti avrebbe potuto prendere forma di poesia, ed è probabile che l’autore abbia tentato questa forma espressiva prima di decidere per la prosa. Fabrizio Centofanti è innanzitutto poeta. Letti in questa prospettiva, come se fossero una raccolta di liriche, i diciannove racconti, che pure tracciano separate immagini di esseri umani piegati dalle durezze di una vita che non regala niente, sono tenuti insieme dallo stile, essenziale, che rimanda a un elemento unificante. Quale?

    Avviciniamoci gradatamente alla sostanza: l’autore è un sacerdote che, grazie a Dio, non ci riempie le orecchie con quella oratoria melliflua e democristiana che fa venir voglia di correre a prendere la tessera del PCUS. Lui parla di Antonio, Franca, Agatino e Luigia, e mentre li racconta non si preoccupa di insegnare qualcosa, non cerca di propinare interpretazioni prefabbricate: Antonio, Franca e compagnia sono esseri umani che suscitano curiosità, sensazioni, sentimenti. Non sono pecore che il pastore si arroga il diritto di capire per poi svelarle a loro stesse. Don Fabrizio è un pastore che non cerca di intrufolarsi nel loro mistero, non pretende neanche di essere pastore, neanche di essere amico: vuole soltanto essere utile.                                                              

    Perché? Per crogiolarsi al calore di una gratitudine più o meno sollecitata? No, l’autore sa che non c’è gratitudine a questo mondo. Chi dà agli altri ciò che possiede è considerato fesso; chi dà ciò che non ha è considerato ladro. Tu fai del bene e gli altri se ne approfittano; tu non fai male a nessuno e loro ti danno fuoco.

    E allora che senso ha questa voglia di essere utile agli ingrati? Forse possiamo farcene un’idea immaginando un cataclisma. Non la fine del mondo, non il Giudizio universale, ma il più modesto giudizio personale che noi stessi prima o poi dovremo pur dare. Don Fabrizio immagina di conoscere la data precisa in cui il cataclisma avverrà, e si immagina lì, in attesa di un’onda gigantesca che lo spazzerà via. Non pensa a fiumi di pece bollente o a cori angelici: si domanda cosa farà nei pochi attimi in cui potrà ancora pensare.

 

    “Di fronte allo scatenarsi dell’evento, emergono domande prevedibili: che ho fatto nella vita?… Vengono in mente situazioni in cui avrei potuto ascoltare, intervenire, occuparmi di qualcuno o di qualcosa. Ma la pigrizia, la fretta, l’ambizione, hanno messo impedimenti invalicabili, accumulato strati su strati di opere inevase, che adesso si rovesciano sulla mia impotenza improvvisamente evidente, insuperabile.”

 

    C’è un’unica risposta, ed è la stessa scandalosa risposta che duemila anni fa portò un altro Uomo a morire come un criminale: non si ama per essere amati, si ama e basta, perché l’amore si alimenta nel dare, non nel ricevere.    

 

 

                                  Visto da destra – Visto da sinistra

 

    “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perchè
rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perchè mi
stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato
perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti ed io non
dissi niente perchè non ero comunista.

    Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare.”

    Apologo attribuito a Bertolt Brecht. In realtà è di tale Martin Niemöller

 

 

    “Gli zingari rubavano a destra e a manca, ma espellerli era razzismo. Fra gli immigrati c’erano rapinatori e assassini, ma chi lo diceva era xenofobo. Gli omosessuali ballavano nudi per le strade, ma chiedere che stessero a casa era intolleranza. I comunisti che usavano la P38 erano ”fantomatici” e “compagni che sbagliavano”.

    Un giorno un senegalese mi violentò. Chiesi la tessera del PCI, ma non c’era più. Allora cominciai a rubare anch’io e a sparare senza tante storie.”  

 

    Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno

 

 

                                    Educazione civica

 

    Nel marzo 2005, quando la tiritera delle riforme costituzionali si trascinava stancamente già da un pezzo ed era chiaro che non sarebbe approdata a niente, scrissi un post minimalista per dire che mi sarei accontentato di un paio di riformette facili facili, che non tiravano in ballo i massimi sistemi.

    Periodicamente, ad ogni svolta politica, si torna a discettare di premierato, cancellierato, presidenzialismo, i politologi affollano le colonne dei giornali, il professor Sartori bacchetta tutti (l’è tutto sbagliato! l’è tutto da rifare!), e nel frattempo il partito del “guai a chi tocca una virgola” si mette all’opera per sabotare ogni iniziativa. Con la nuova legislatura ci sarà un altro tentativo di riforma? Può darsi, ma è probabile che i sabotatori la spuntino: ce l’hanno sempre fatta.

    A tre anni di distanza, io continuo a domandarmi: se non siamo in grado di affrontare i temi di fondo, non potremmo almeno razionalizzare le piccole cose? Per esempio,  630 deputati e 315 senatori sono un’esagerazione, e questo ormai lo dicono tutti. Negli USA sono rispettivamente 300 e 100, e gli Stati Uniti hanno una popolazione sei volte superiore alla nostra. Ma non facciamo demagogia, saltano su i soliti padreterni: anche dimezzando i parlamentari non salveremmo il bilancio dello Stato.

    È vero. Però il fatto è un altro: il deputato che non conta niente, il peòn, cosa fa tutto il giorno? Si dedica a “sveltire” le pratiche di quegli elettori del suo collegio che potrebbero votare per lui alle successive elezioni. Risultato: i parlamentari non lavorano per lo Stato, ma spesso contro lo Stato, al solo scopo di rimanere lì per continuare a danneggiare lo Stato. Se fossero di meno, avrebbero cose serie di cui occuparsi e non troverebbero il tempo materiale per dedicarsi al sottogoverno. Passerebbero la giornata nelle commissioni, a lavorare, e alla sera sarebbero così stanchi da non aver voglia di andare neanche a Porta a porta o a Ballarò (e già questo sarebbe un grosso risultato).  

    Riusciremo mai a ridurre il numero dei parlamentari? Chi lo sa. Io mi limito a riproporre una supplica che ho già avanzato in tempi non sospetti, e cioè, come dicevo, nel marzo 2005: eliminiamo i senatori a vita e vedrete che la Patria ne trarrà giovamento. (Prima di scandalizzarvi, provate a immaginare se alle ultime elezioni si fosse riprodotta la situazione che ha condotto al naufragio del governo Prodi, ma a parti invertite). 

    Avanti, domandiamocelo: a che servono i senatori a vita? Sono più di sessant’anni che ne facciamo esperienza e mai una volta che siano serviti a qualcosa. Questi venerandi signori hanno illustrato la Patria con pensieri, parole e opere? Mille grazie. Restino pure a casa, amorevolmente assistiti da qualche nipote zitella, decorati con le massime onorificenze della Repubblica e magari anche locupletati da una lauta pensione. Ma stiano alla larga da Palazzo Madama.

    Quanto agli ex Presidenti della Repubblica, altro che senatori a vita! Propongo che al momento di lasciare la carica si impegnino a un silenzio trappista. E per i trasgressori propongo la reclusione (a vita, questa sì) in un carcere di massima sicurezza. Di picconatori e compagnia cantante ne abbiamo già avuto fin sopra ai capelli.

    Se poi, in particolari circostanze e su specifiche materie, si ritiene di sentire il parere di un cittadino eminente, cosa impedisce di consultarlo? Non è affatto necessario che il cittadino in questione sia senatore, e voti e sproloqui anche su materie nelle quali è manifestamente ignorante.

    Sono in pochi a vederla come la vedo io? Pazienza. A ogni cambio di maggioranza le opinioni si ribaltano? La mia no. Sono e rimango convinto che i senatori a vita siano una pessima istituzione, inutile quando non dannosa. 

                                                             ***

    C’è poi un’altra faccenda che mi sta a cuore e riguarda l’ordinamento amministrativo.

    Tutti noi abbiamo diritti e doveri nei confronti di: 1) comuni, 2) province, 3) regioni, 4) Stato e 5) Unione Europea. Già sapere cosa dipende dall’uno o dall’altro è un bel problema. A volte non lo sanno neanche loro, e ci vogliono i tribunali per dire chi ha ragione. Non si potrebbe semplificare? D’accordo, i comuni e lo Stato sono inevitabili. Sui pro e i contro della UE si possono scrivere intere biblioteche, ma ormai ci siamo e uscirne sarebbe assurdo. Anche delle regioni sembra che non si possa fare a meno. Ma le province?

    Naturalmente, esistono funzioni specifiche attribuite alle province. Ma per controllare la manutenzione delle strade provinciali e degli edifici dei licei è necessario chiamare il popolo a votare (seggi, schede, scrutatori, ecc.), eleggere un consiglio provinciale, una giunta e un presidente (macchine blu, indennità, viaggi, ecc.)? E questi consiglieri cosa dovrebbero controllare? Cos’hanno di diverso i licei della provincia di Varese rispetto a quelli della provincia di Mantova? Bari è così lontana da non assicurare il controllo democratico sull’asfaltatura delle strade provinciali di Lecce e di Foggia? Cosa aspettiamo a passare alle regioni le competenze e la burocrazia provinciale? Date retta: abolite i consigli provinciali e dopo un anno non vi ricorderete più nemmeno cosa erano e se mai sono esistiti. Se ne ricorderanno soltanto i partiti, che avranno perso una delle tante greppie alle quali attingono soldi e voti di scambio, e anche questo mi sembra un ottimo motivo a favore dell’abolizione.

    Del resto, come unità amministrativa, la provincia non sparirà. Le targhe delle auto saranno sempre su base provinciale e i Prefetti, figuriamoci, resteranno. Sparirà soltanto un’elezione della quale in realtà ai cittadini non frega niente, se non per il gusto di leggere il giornale il giorno dopo, vedere chi ha vinto e far festa per strada o chiudersi in casa. Come se fosse Milan-Inter o Roma-Lazio. 

 

                               La sindrome del palio di Siena

 

    In USA finiscono le primarie. Una volta celebrate le conventions, partirà la campagna elettorale per la presidenza. In capo a un anno e mezzo di votazioni e caucus, gli Stati Uniti decideranno chi e che cosa vogliono.

    In Italia facciamo l’esatto contrario: noi non votiamo per scegliere ciò che conviene, ma per danneggiare l’avversario. Non votiamo “per” qualcosa, ma “contro” qualcos’altro. Si dice: è colpa di chi ha personalizzato la politica. Sarà. Ma non posso fare a meno di domandarmi come mai sono sempre gli altri a prendere l’iniziativa. E chissà perché, una volta constatato il guaio, non si pensa a sanarlo ma solo a dar la colpa a qualcun altro. E del resto, se davvero è l’avversario a strumentalizzare tutto, perché scendere al suo livello? Che convenienza c’è a trasformare le elezioni in un palio di Siena e cioè in un gioco nel quale è più importante danneggiare gli altri che vincere?

    Si dirà: ultimamente si è provato a cambiare strategia, ad abbandonare la demonizzazione, ma non è stato un successo.

    Già. Perché invece la strategia precedente era stata un successo? O non era piuttosto la riedizione del fallimento di otto anni prima? Odiare l’avversario unisce solo provvisoriamente. Vincere le elezioni e poi offrire lo spettacolo di una coalizione incapace di governare è peggio di una sconfitta.

    Mi sbaglierò. Spero di sbagliarmi. Ma ho l’impressione che la “sindrome del palio di Siena” applicata alla politica, alla cultura, al cinema, allo sport, eccetera eccetera, ci abbia reso guelfi e ghibellini. Ci schieriamo pro o contro qualunque cosa unicamente in funzione della logica perversa per cui l’Oca è a prescindere amica del Bruco e nemica della Torre (se ho citato le contrade sbagliate chiedo scusa ai senesi). Ognuno sostiene la sua tesi, e questo è logico, ma rifiuta di discutere quella altrui. Che anche all’avversario capiti di proporre qualcosa di intelligente è escluso a priori: nel muro contro muro tutt’al più si contrappone qualche esempio a quelli dell’avversario, ma di solito si passa direttamente agli insulti.

    Non me ne scandalizzo, però mi dispiace. Ormai questa mentalità è arrivata alle estreme conseguenze. Sui blog capita di leggere post e commenti il cui significato, in buona sostanza, è: “ho ragione io e chiunque non la pensi come me è un fesso”, oppure: “la democrazia mi sta bene a patto che la maggioranza sia sempre d’accordo con me”. Il che, anche facendo la tara alla polemica e alla retorica, mi preoccupa. Se non si ascoltano le opinioni altrui, se l’unica cosa che conta è averla vinta, perché tenere aperto un Parlamento? Negare legittimità agli avversari, pretendere di non avere rapporti con loro, porta dritto al fascismo.

    Niente di nuovo sotto il sole. All’inizio del secolo scorso Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto criticavano la democrazia e ci hanno regalato Mussolini, Hitler, Lenin e Stalin. O, se vogliamo tenere il discorso su un piano più leggero, la politica in stile palio di Siena somiglia a una signora che intrattiene i suoi ospiti a tavola dicendo peste e corna della caccia, e intanto serve risotto alle quaglie e fagiano arrosto.  

 

                                           Era mio padre

 

    Con questo libro Franz Krauspenhaar ci parla di suo padre, è vero. E di tutta la famiglia. Ma questa è soprattutto la sua storia, l’autobiografia dell’autore.

    Dopo l’intermezzo noir di “Cattivo sangue”, Franz torna alla tematica di “Le cose come stanno”, e sceglie la strada della biografia per tornare alla domanda centrale della sua poetica: perché siamo imprigionati in situazioni più grandi di noi, che non possiamo capire fino in fondo e alle quali non riusciamo a sfuggire?

    La vita secondo Franz (e non solo lui) è un gioco dell’oca nel quale si avanza di casella in casella affidandosi ai dadi e preparandosi a fronteggiare un imprevisto in ogni sosta. Tanto che, alla fine, uno tira quattro conti e conclude che, con tutto il daffare che si è dato, non è riuscito a concludere niente di suo: tutto ciò che può dire di aver costruito (o distrutto) è stato in realtà il prodotto di qualcosa che andava al di là del suo controllo. Sorte, fato, destino, fortuna, scalogna, buona o maligna stella: chiamala come ti pare, il risultato è sempre quello.

    Franz indaga il senso, il significato della vita. Va a cercarlo nel Sudetenland, la terra di frontiera dove è nato suo padre, dove slavi e tedeschi si fronteggiano da millenni senza mischiarsi, alternandosi a posare il piede sul collo dell’altro, rovinando la vita a una generazione dopo l’altra con vittorie e sconfitte che non mettono mai fine a una guerra secolare, condotta con spirito da faida, senza mai intravedere un futuro di collaborazione. Carl Krauspenhaar è stato buttato nella fornace del fronte orientale quando la guerra era persa e strapersa. Una zia o una nonna gli scrisse a mo’ di commiato: fa’ il tuo dovere. E lui ha visto la morte in faccia. Forse l’avrà anche data (di queste cose i padri non parlano mai ai figli: non l’ha fatto neanche il mio). È quasi morto di fame: ha perso metà del suo peso, proprio come gli internati badogliani e i forzati della Todt. Ha fatto il suo dovere, come no? E a che prezzo! Ha visto andare in polvere tutte le cose con cui gli avevano riempito gli occhi e le orecchie per i diciannove anni della sua vita di allora. Ha saputo di Amburgo e Colonia e tante altre città distrutte al 95%. Ha saputo di Dresda rasa al suolo. Ha visto la Germania tagliata in due e divisa da una frontiera con reticolati, campi minati e soldati tedeschi che sparavano sui tedeschi in fuga. E ha saputo anche di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau.

    C’è un limite negli esseri umani. Da qualche parte, nel corpo o nell’anima, ci deve essere una specie di cassonetto nel quale stivare tutte le delusioni, i disinganni, le vergogne e le sconfitte. Ma la capienza del cassonetto non può essere illimitata, e chi è costretto a riempirlo fino all’orlo semplicemente non ce la fa più. Carl Krauspenhaar, che non si è arreso ai russi, ha dovuto arrendersi a una vita che l’ha saturato di problemi, guai, responsabilità. Una vita che gli ha chiesto più di quanto è umanamente sopportabile.

    E, come sempre capita, non ha potuto andarsene chiudendo tutti i conti. Ha lasciato debiti e crediti. Nessuno può dire se il bilancio è attivo, passivo o, magari, miracolosamente in pareggio. Nemmeno Franz. Certo, fra i debiti ce n’è uno che pesa più di tutto il resto: è l’insicurezza, la paura del futuro, l’incapacità di individuare un senso nella vita, la difficoltà di capire qual è “la cosa giusta”. Insomma: l’angoscia esistenziale. 

    Ne ho discusso con Franz, qualche giorno fa. Era preoccupato. “Non avrò  parlato troppo di me?”. No, non mi pare. Al contrario. Sono convinto che Franz abbia bilanciato perfettamente nel testo la sua presenza e quella del padre. E ha sostenuto tutte e due con la sua capacità (rara!) di scrivere interessando il lettore anche quando gli parla di cose così lontane da apparire un po’ ritoccate, come la Montagna incantata o un film neorealista.

    Sono stato contento di sapere che Franz e Marino Magliani hanno presentato insieme a Firenze i loro ultimi libri. Sono convinto che, in due modi diversi, ma allo stesso ottimo livello, Era mio padre e Quella notte a Dolcedo segnano una svolta qualitativa nella letteratura italiana contemporanea.                                  

 

 

                   Credere in Dio?  (Prima puntata – La prova) 

 

    Questo post e i seguenti partono dal presupposto che nessuno è tenuto ad avere l’hobby della filosofia, ma che almeno una volta nella vita tutti si trovano di fronte al problema dell’esistenza di Dio. Fra gli “intellettuali” italiani è diffusa l’idea che certi argomenti, come la storia o la filosofia, debbano essere riservati agli addetti ai lavori, e hanno sempre fatto il possibile per escludere le masse da certi discorsi. Però ultimamente sembra esserci un risveglio di interesse per Dio. Vito Mancuso con “L’anima e il destino” ha avuto un grande successo; Eugenio Scalfari, dopo aver girato a lungo intorno al tema, l’ha preso di petto nel suo ultimo libro; i pamphlets pro-ateismo di Piergiorgio Odifreddi sono diventati dei best seller; su un blog prestigioso come Nazione Indiana appaiono periodicamente post a favore dell’ateismo. Eccetera eccetera.

    Stando così le cose, e a beneficio di chi gradirebbe un po’ di divulgazione sull’argomento, credo che valga la pena di ripercorrere le “prove” a favore e contro l’esistenza di Dio, e relative critiche. Certo, una serie di post divulgativi non può avere la pretesa di passare in rivista l’intera storia della filosofia e nemmeno di esplorare ogni argomento nei particolari, ma può fornire alcune informazioni basilari, e il viaggio non dovrebbe essere poi troppo lungo. Per poco che ci si appassioni alla materia, sarà come leggere un giallo di Raymond Chandler: nelle prime pagine sembrerà che il caso sia già bell’e risolto e invece, andando avanti, si scoprirà che non soltanto il colpevole non è l’indiziato, ma che addirittura il delitto non era quello che sembrava: era tutta un’altra faccenda.

                                                         ***

    Quasi mille anni fa fu ideato un singolare ragionamento inteso a dimostrare l’esistenza di Dio. Ci pensò un certo Anselmo, nato ad Aosta nel 1033, scapestrato in gioventù e vescovo in vecchiaia, morto a Canterbury nel 1109 e proclamato santo. Il suo argomento, detto anche argomento ontologico, venne preso in esame dai più grandi filosofi, fu contestato da alcuni e accettato da altri, fu migliorato da Leibniz e perfino da Gödel. Ma è rimasto sostanzialmente lo stesso perché, qualunque cosa se ne pensi, bisogna riconoscere un fatto sorprendente: anche chi non lo considera valido non ha mai potuto dimostrare che sia sbagliato.

    Nonostante ciò, dall’argomento ontologico si può trarre una conseguenza alla quale Anselmo di sicuro non pensava e che, se qualcuno gliel’avesse anticipata, l’avrebbe fatto imbufalire. In considerazione di ciò, cercherò di comportarmi in modo cavalleresco e rispetterò la lettera del suo argomento riportandolo così com’è, nella sua intensa brevità. Tuttavia, per chi non ha voglia di leggere ventisei righe un po’ contorte, lo riassumo in poche frasi ancora più brevi.

    Se Dio c’è, dice Anselmo, è qualcosa di cui non si può pensare niente di più grande. Anche chi non crede in Dio deve convenirne, altrimenti non avrebbe l’idea di Dio e non potrebbe negarla. Ma un’idea simile non può essere soltanto un’idea. Infatti, se esistesse solo nella mente, sarebbe possibile pensare alla stessa idea esistente anche in realtà (e quindi più grande). Ergo, deve esistere anche nella realtà, altrimenti non sarebbe ciò di cui non si può pensare niente di più grande.  

    Vi puzza di circolo vizioso, vero? Però non sapreste dire esattamente dove sta l’inghippo. Beh, supponiamo che sia colpa mia. Supponiamo che io abbia riassunto male il testo. Facciamo così: provate a leggere l’originale. Lo riporto qui di seguito. Se invece vi accontentate delle mie quattro parole, saltatelo pure, ci ritroviamo più sotto.

 

1       Noi crediamo che tu, Dio, sia qualcosa di cui nulla può pensarsi piú grande. O forse non esiste una tale natura, poiché “lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste”? (Ps., 13, 1 e 52, 1). Ma quel medesimo stolto, quando sente ciò che io dico, e cioè la frase “qualcosa di cui nulla può pensarsi piú grande”, capisce quello che ode; e ciò che capisce è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti è che una cosa sia nell’intelletto, altro intendere che la cosa sia nella realtà. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto l’opera sua, ma non intende ancora che esista quell’opera che egli non ha ancora fatto. Quando invece l’ha già dipinta, non solo l’ha nell’intelletto, ma intende che l’opera fatta esiste. Ora, perfino lo stolto deve convincersi che esiste, almeno nell’intelletto, una cosa della quale nulla può pensarsi piú grande, poiché egli capisce questa frase quando la ode, e tutto ciò che si capisce è nell’intelletto.

2       Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensarlo anche esistente nella realtà, e in questo caso sarebbe piú grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, [dovremmo dire che] ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore sia nell’intelletto che nella realtà.

3       E questo ente esiste in modo cosí vero che non può neppure essere pensato non esistente. Infatti si può pensare che esista qualche cosa che non può essere pensato non esistente; e questo è maggiore di ciò che può essere pensato non esistente. Perciò, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, esso non sarà piú ciò di cui non si può pensare il maggiore, il che è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste in modo cosí vero, che non può neppure essere pensato non esistente.

4       E questo sei tu, o Signore Dio nostro.

                                                       ***

    Prima di tutto c’è da osservare il modo piuttosto curioso con cui l’argomento è costruito: invece di dimostrare direttamente le sue affermazioni, mostra che le affermazioni contrarie sarebbero contraddittorie. È un procedimento legittimo ma pericoloso: con lo stesso sistema, partendo dall’affermazione l’essere è e il non-essere non è, Parmenide aveva concluso (intorno al 500 a.C.) che tutto ciò che esiste è soltanto un’unica palla sferica, immensa, uniforme, piena e immobile. C’era voluto Platone per dimostrare che fra l’essere e il non essere ci poteva stare anche qualcos’altro, per esempio l’essere diverso. Ma nonostante ciò l’argomentazione di Parmenide rimane ancora oggi una specie di hic sunt leones: un territorio nel quale è pericoloso addentrarsi.

    Allo stesso modo, se nell’argomento ontologico fosse possibile introdurre distinzioni all’interno di ciò di cui non si può pensare niente di più grande, l’intero argomento cadrebbe. Ma resterebbe comunque una specie di “padre venerando e terribile”, come dice Platone riferendosi a Parmenide.

    Il fatto è che più le argomentazioni usano concetti presi in senso letterale, più si espongono al rischio dell’autoreferenzialità; proprio come il famoso paradosso del cretese che proclamava: “Tutti i cretesi sono bugiardi”. Se diceva il vero, non tutti i cretesi erano bugiardi perché lui era cretese e diceva il vero. Se diceva il falso, diventava falso che tutti i cretesi fossero bugiardi perché a dirlo era un bugiardo.

    Naturalmente, il senso in cui si dicono frasi come questa è chiarissimo. Eppure queste stesse frasi diventano sconcertanti se i termini usati in senso lato vengono ristretti al loro significato letterale. 

    Che io sappia, nessuno oppose ad Anselmo un’obiezione di questo tipo, nessuno lo accusò di sofisticheggiare. Gli obbiettarono soltanto questo: io posso figurarmi in mente un’isola felice dove si mangia e si beve gratis, si fa l’amore senza problemi, si è sempre giovani e non si muore mai. Ma ciò non vuol dire che un’isola simile esista davvero.

    Anselmo ebbe buon gioco a rispondere che quest’isola non era ciò di cui nulla può pensarsi più grande. A rigor di termini, aveva ragione lui.

    Eppure il suo discorso, che pure tappava la bocca ai critici, non riusciva a convincere. All’interno del ragionamento nessuno trovava errori, e per alcuni ciò era più che sufficiente. Altri invece muovevano critiche, per così dire, dal di fuori: è vero, dicevano, quel ragionamento non contiene sbagli, ma non è una vera e propria dimostrazione.

    Kant, che per riconoscere valido un ragionamento pretendeva un riscontro empirico, disse che l’esistenza è un fatto e per dimostrare un fatto non basta un nesso logico, per quanto stringente. Hegel, per il quale tutto ciò che è reale è razionale e viceversa, riformulò l’argomento in modo da incasellarlo nel suo sistema. L’uno e l’altro usarono l’argomento ontologico come una pietra di paragone delle loro convinzioni. Kant ne fece un esempio dei vicoli ciechi in cui va a cacciarsi la ragione. Hegel lo elevò a prova di come la ragione domina l’universo.

                                                             ***

    Nel 1970, pochi anni prima di morire, Kurt Gödel ripresentò l’argomento di Anselmo esprimendolo con gli strumenti della logica matematica moderna. In ventotto passaggi scritti in formule della logica simbolica, ricostruì alcuni assiomi della logica classica (per esempio, rivisitando il principio del tertium non datur), riformulò il concetto di ciò di cui non si può pensare niente di più grande, da qui dedusse dapprima che l’esistenza di Dio è possibile; poi che, se Dio esiste, è unico; e successivamente che l’esistenza di un Dio unico è o necessaria o impossibile. E, avendo già dimostrato che la sua esistenza è possibile, ne concluse che Dio esiste di necessità.

    Per chi non lo sapesse, Gödel è un tizio che Einstein, quando insegnava a Princeton, andava ad aspettare sulla porta dell’aula per avere il privilegio di accompagnarlo a casa. Non chiedetemi di dare conto di ogni singolo passaggio logico nella dimostrazione di Gödel: non saprei farlo. Le formule e i simboli della logica matematica mi sono sempre stati ostici. A chi vuole approfondire segnalo una “traduzione in italiano” dell’argomento di Gödel nel libro di un ateo dichiarato: Massimo Piattelli Palmarini – L’arte di persuadere – Oscar Mondadori. Per andare ancora più a fondo bisogna ricorrere a testi specialistici e approfondire le tecniche della logica simbolica. Per gli scopi di questo post dovrebbe essere sufficiente sapere che, come nel caso di Anselmo, la dimostrazione di Gödel è stata controllata passo passo dai migliori esperti di logica e trovata senza errori.

    E infatti anche qui le critiche non riguardano la logica, la concatenazione o la perfezione formale: il ragionamento è stringente come e più di quello di Anselmo, ma continua ad avere la stessa freddezza, la stessa incapacità di convincere. Insomma, il risultato pratico è che l’argomento ontologico persuade solo chi è predisposto ad accettarlo. Ma come è possibile che una proposizione impeccabile non sia convincente?    

 

                        Credere in Dio? (Seconda puntata – Il ribaltamento)

 

    Ed ecco il ribaltamento alla maniera di Raymond Chandler: credevamo che l’argomento di Anselmo volesse dimostrare che Dio esiste, ma in realtà dimostra tutt’altro.

    Kant era già quasi arrivato a dirlo a chiare lettere, ma se ne era trattenuto per una specie di timore reverenziale. Si era limitato a dire che l’argomento ontologico non contiene errori e dunque non è criticabile, ma che non raggiunge lo scopo per cui era stato pensato. A duecentoventisette anni di distanza, possiamo fare qualche passo avanti su questa linea di pensiero.

    L’argomento ontologico dimostra che l’esistenza di Dio è una conseguenza logica dalla sua definizione, purché il ragionamento rimanga strettamente nell’ambito della ragione. Ma il fatto che la ragione umana arrivi necessariamente a una certa conclusione (senza che la conclusione sia poi controllabile con un esperimento) fa sospettare che la ragione umana sia strutturata in modo da non poter fare a meno di arrivare proprio lì. Per dimostrare che le conclusioni del ragionamento di Anselmo-Gödel sono vere anche al di fuori della ragione, e cioè nella realtà, bisognerebbe prima dimostrare che la ragione umana è la stessa che sta alla base dell’universo, tutto quanto, Dio compreso. Il che, non soltanto non è dimostrato, ma suona anche un tantino presuntuoso e, a ben pensarci, inquietante.

    Proviamo a guardare la faccenda da un’ottica teologica. Stabilire un nesso fra la ragione umana e quella divina è rischioso assai: se la ragione di Dio è la stessa degli esseri umani, come fa Dio a essere trascendente?  

    Ma da qualunque parte lo si prenda, l’argomento ontologico è un pasticcio micidiale! Proviamo a guardarlo in ottica laica. Per quindici secoli la Chiesa lotta per affermare la sua autorità. Ci riesce alleandosi con i re e i nobili e schiacciando nell’ignoranza tutti gli altri. Chi non sopporta di “stare contento al quia” si aggrappa alla ragione, la usa per mettere in moto una rivoluzione scientifica e industriale, e infine, dopo una rivoluzione politica, la deifica in una memorabile sceneggiata in Notre Dame. Da allora, per più di due secoli, insinuare che la ragione abbia dei limiti è peggio che parlar male di Garibaldi.

    Eppure, i filosofi sanno che quei limiti esistono: erano già stati messi in luce da Kant otto anni prima della presa della Bastiglia, e lo stesso Kant se ne era accorto perché aveva usato la ragione per valutare un ragionamento di settecento anni prima. La ragione si mangiava la coda.

    Dunque gli addetti ai lavori sapevano che l’argomento ontologico non convince (e sapevano anche come mai), ma non ne parlavano ad alta voce perché altrimenti ci sarebbe andato di mezzo un tabù culturale: la fede nella Dea Ragione. Per duecento anni, di Anselmo si parlò solo tra iniziati. Anche perché nel frattempo la Dea Ragione aveva segnato un altro goal. Le scoperte di Darwin avevano prodotto un indirizzo filosofico ad hoc, il positivismo. Per la verità, fu uno strumento che si esaurì ben presto, ma gli addetti ai lavori lo rilanciarono sotto forma di fede nel linguaggio, nella sintassi, nella logica matematica. Lì dentro, dissero, nella matematica, c’è la radice della razionalità, il Graal di tutte le scienze.

    A smantellare l’illusione ci pensò proprio Gödel. Lui, che nel 1970 tornò a ripensare l’argomento ontologico, nel 1931 aveva dimostrato che perfino il sistema logico più elementare, l’aritmetica, conteneva “proposizioni indecidibili” (vulgo: affermazioni indimostrabili, come i postulati di Euclide in geometria piana).

    Il successo della Dea Ragione camminava su un doppio binario.

                                                             ***

    Forse oggi le cose cominciano a cambiare. Dopo duecento anni di sviluppo scientifico e civile prodotto dall’uso della ragione, dopo essere passati dalle carrozze a cavalli alla missione Apollo e dai salassi alla microchirurgia, per la prima volta la percezione del progresso sembra rallentare. L’esplorazione dello spazio, che fino a ieri sembrava un obbiettivo primario, perde importanza di fronte alla drammaticità delle disuguaglianze sociali. La globalizzazione mediatica e i voli low cost rimpiccioliscono il pianeta. I regimi autoritari faticano a imporre il blocco delle telecomunicazioni. Il modo in cui l’umanità guarda a se stessa è radicalmente cambiato nel giro di cinquant’anni. Nel mondo di oggi non c’è più posto per l’ignoto di Salgari o di Verne: e allora si torna a cercarlo dove lo cercava Agostino, in interiore homine

    Che sia questo il fenomeno che ha dato origine a un rinnovato interesse per il problema di Dio? Non ci siamo ancora riavuti dallo choc culturale di una ragione che prende il potere e contemporaneamente nega se stessa rifiutando l’argomento ontologico. Ma d’altra parte non sappiamo bene come maneggiare gli argomenti che, nel frattempo, sono stati escogitati per sostenere che Dio non c’è.  

   

              Credere in Dio? (terza puntata – C’è chi dice no)

 

    Nel doppio binario su cui cammina la Dea Ragione si incontra di tutto. C’è chi preconizza l’avvento dello Spirito Assoluto, ma c’è anche chi proclama: “L’uomo è ciò che mangia”. Per di più, i binari non sono paralleli: ogni tanto si intersecano, si scambiano idee, se le prestano e se le restituiscono. Marx mette insieme la dialettica di Hegel e il materialismo di Feuerbach. Spencer sostituisce la dialettica con l’evoluzione. Nietzsche aggiunge la volontà di potenza, il superuomo e l’eterno ritorno.

    Stranamente, i figli dell’illuminismo non si preoccupano di dimostrare le loro tesi con dei sillogismi: per lo più le propongono in forma di assiomi, come se fossero verità evidenti di per se stesse. Spesso si lasciano andare a vere e proprie profezie. La prova di ciò che predicano, più che da esperimenti o dimostrazioni razionali, la aspettano dalla diffusione e dal successo. E così le dottrine che procedono dalla vittoria della Dea Ragione adottano il metodo dei predicatori di religioni e di dottrine esoteriche. Il Così parlò Zarathustra è costruito anche formalmente in modo da presentarsi come un anti-Vangelo.

    Qualcuno si accorge dell’incongruenza. È necessario elaborare un vero argomento per dimostrare che Dio non può esistere. Guarda caso, l’argomento è già bell’e pronto: la Teodicea di Leibniz, opportunamente reinterpretata, offre agli atei un argomento contro l’esistenza di Dio.

    Tutti sappiamo (e chi non lo sa lo scopre sulla sua pelle) che la vita è una mescolanza di bene e di male. Anzi, l’esperienza comune a noi tutti è che spesso contiene più male che bene. Per esempio: perché qualcuno nasce bello e attraente mentre altri nascono brutti o addirittura repellenti? Perché c’è chi è destinato alla sofferenza fin dalla nascita, chi soccombe per qualche tragico incidente, chi deve vivere da storpio o da demente, chi nasce in posti desolati dove si muore di fame? Ma non solo: anche a chi cresce sano, ricco e non particolarmente sfortunato, capiterà che gli amori più sentiti non vengano corrisposti, le carriere più desiderate vadano a rotoli, gli anni siano costellati di incidenti e malattie. E anche per lui la fine sarà la peggiore delle ingiustizie: la morte. Come nel Processo di Kafka, tutti quanti siamo destinati a morire “come un cane”, senza che neanche ci venga contestato il delitto che avremmo commesso.

    Ebbene, se Dio esiste, come può permettere una cosa simile? Dobbiamo forse pensare a un Dio cattivo? Ma come può Dio essere cattivo? È impossibile.

    Dunque Dio non esiste.

                                                              ***

    L’argomento negazionista ha un grande impatto emotivo. Però, come l’argomento di Anselmo, chiude la bocca ma non convince fino in fondo. In realtà, più che un ragionamento, è un rimprovero a Dio di non aver creato il mondo come avrebbe fatto comodo a noi. Il che sembra piuttosto infantile.   

    Ma a parte ciò, l’argomento non dimostra neanche che Dio non esiste. Dimostra soltanto che Dio, se c’è, segue una logica diversa dalla nostra. E, in effetti, sarebbe strano se non fosse così. Anche qui, come nell’argomento di Anselmo, se la logica umana corrisponde alla logica divina, che fine fa la trascendenza? Perché Dio sarebbe Dio?

    Appunto, insiste il negazionista, io non credo che Dio segua un’altra logica (e se lo fa gliene faccio una colpa). Secondo la mia logica (che è l’unica che mi interessa), Dio è in contraddizione; quindi non esiste.

    Ma in questo modo il discorso diventa una petizione di principio: l’argomento si rinchiude in una logica umana, troppo umana, e si domanda come mai Dio non è lì a sua disposizione. È l’atteggiamento di Leopardi in una delle sue poesie più famose:

 

                                         O natura, o natura,
                                         perché non rendi poi

                                         quel che prometti allor? Perché di tanto
                                         inganni i figli tuoi? 

 

    Il mondo, così com’è, non ci piace; e allora stabiliamo che Dio non esiste.

    Il lamento è condivisibile, ma il rimedio a che serve? Anche quando avremo tolto di mezzo Dio, il mondo non cambierà. Continuerà a non piacerci.

    Sì vabbe’, dice il negazionista, però uccidere Dio ci farebbe sentire liberi, e se fossimo liberi potremmo anche essere felici. Quantomeno sarebbe un grosso passo avanti, no?

    E invece no. Niente da fare: le difficoltà, le impossibilità, le malattie, la morte, restano lì, intatte e insormontabili. La libertà non si conquista con un colpo di bacchetta magica. Per di più, uccidere Dio toglie anche la speranza di una vita oltre la morte. E allora, quale sarebbe il vantaggio di questa nuova libertà? Ammesso e non concesso che si diventi più liberi, non saremmo per niente felici: saremmo disperati.

                                                             ***

    Cosa rimane? Dovremmo illuderci che l’evoluzione della specie farà nascere superuomini capaci di sconfiggere ogni malattia, e magari anche la morte? Non è un sogno un po’ fumettistico? E anche se si realizzasse, il superuomo non si troverebbe a dover sopportare le inevitabili contrarietà causate, per esempio, dai suoi simili?

    Nietzsche dà una risposta illuminante: l’uomo diventerà superuomo e sarà libero imparando a volere tutto ciò che necessariamente gli accadrà.

    È una risposta logica. Infatti, quando ci sentiamo liberi? Quando facciamo ciò che vogliamo. Se rovesciamo i termini e impariamo a volere ciò che accadrà, saremo liberi.

    Dunque, il modo per essere liberi e felici è volere non soltanto ciò che ci fa piacere, ma tutto, proprio tutto. Compreso ciò che ci fa soffrire: le delusioni, le malattie, la morte.

                                                             ***

    A questo punto, però, il discorso rischia di uscire dal seminato. A parte qualche problema pratico (come si fa a volere gli imprevisti? come si fa a non volere ciò che non succederà?), non c’è bisogno di uccidere Dio per volere ciò che necessariamente accadrà.

    In realtà, uno dei motivi per cui la Dea Ragione vuole uccidere Dio è che l’esistenza di Dio è sempre stata associata a regole morali spesso moleste, spesso assurde, spesso imposte con minacce sproporzionate, torture e roghi. Regole che, per soprammercato, con l’andare del tempo si sono rivelate inconsistenti e hanno dovuto essere abrogate. L’uomo moderno non è più disposto ad accettare intromissioni nella sua coscienza. Non da parte di altri uomini (anche se pretendono di parlare a nome di Dio).

    Eppure non è onesto trasformare un motivo di legittimo risentimento in un argomento. Quando un primo ministro sbaglia, lo si cambia. Quando una forma di Stato dimostra di non funzionare più, la si cambia. Ma dello Stato non si può fare a meno. Allo stesso modo (anche se più lentamente), le Chiese cambiano: cambiano gli uomini che le dirigono, cambiano le loro leggi, cambia l’atteggiamento con cui guardano chi trasgredisce.

    Avercela con i preti che c’entra col fatto che Dio esista o no? Si può benissimo essere credenti e anticlericali. Dante, che a Dio ci credeva, mandava all’inferno perfino i papi.       

    

                 Credere in Dio (quarta puntata – Gli indizi)

 

    Torniamo al problema originale: è possibile provare se Dio esiste o no? Come si può evitare di cadere nel tranello di una logica ristretta o nei paradossi dell’autoreferenzialità?

    Si può provare a prendere una strada che non sia l’analisi di un concetto. Si possono andare a cercare dei punti di partenza nella realtà. Per esempio nella fisica, nella morale, nell’estetica. Tommaso d’Aquino individuò cinque di questi punti di partenza, Kant tre.  

    Le strade prese da Tommaso (le riporto con un po’ di editing) sono le seguenti:

 

    L’esistenza di Dio si può dimostrare per cinque vie. La prima e più evidente via è quella che si desume dal movimento.[…]è necessario giungere a un primo motore che da null’altro sia mosso: e per questo primo motore tutti intendono Dio. La seconda via è quella che si desume dalla natura della causa efficiente.[…] è necessario porre una causa efficiente prima: che tutti chiamano Dio. La terza via è desunta dal rapporto tra ciò che è possibile e ciò che è necessario.[…] è necessario porre qualcosa che sia necessario per sé, che non abbia in altro la causa della sua necessità, ma che sia la causa della necessità nelle altre cose: e questo tutti dicono che è Dio. La quarta via si desume dai gradi che si ritrovano nelle cose. […] vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell’esistenza e della bontà e di qualsiasi perfezione: e questo qualcosa è Dio. La quinta via si desume dal governo delle cose. […]vi è un essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine; e questo essere è Dio. 

 

    E qui gli atei si mettono a ridere, perché queste non sono prove. Non sono neanche ragionamenti. Sono soltanto indizi, e i primi quattro sono anche facilmente confutabili.

    1) Il movimento è energia. Energia e materia sono connesse, come ha chiarito Einstein. Passare dall’energia alla materia e viceversa non implica la necessità di un Dio che faccia da mossiere.

    2) Il concetto di causa è roba da preistoria: oggi conosciamo concause, interazioni, retroazioni, epifenomeni. In che senso può ancora sussistere il concetto di causa in un contesto di elettrodinamica quantistica? In ogni caso, niente vieta di immaginare una serie infinita di cause finite.

    3) Possibilità e necessità non sono affatto opposte. La teoria evolutiva riposa sull’insorgere casuale delle mutazioni genetiche e sul successo delle mutazioni più adatte all’ambiente circostante (il quale è a sua volta il prodotto di mutazioni). I concetti di possibilità e necessità, ammesso e non concesso che siano ancora utili, andrebbero rivisti in senso matematico-statistico.

    4) La necessità di completare la scala delle perfezioni dell’essere è semplicemente un pio desiderio.

                                                               ***

    Diverso, ma solo fino a un certo punto, è l’atteggiamento di Kant nel dedurre l’esistenza di Dio dalla legge morale, dal sentimento del bello e dal bisogno di uno scopo.

    Il nocciolo della sua argomentazione sta nella definizione di universale e necessario. Il bisogno di giustizia, di estetica e di finalità, dice Kant, lo provano tutti ed è precisamente ciò che distingue l’uomo da tutte le altre forme di vita conosciute. Quindi si può affermare che si tratti di sentimenti universali e necessari. Non è uomo chi non è attratto dal bello, chi non agisce in vista di uno scopo, chi non sente il bisogno di agire in modo giusto. Per questo Kant fece scrivere sulla sua tomba il motto: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”.

    Ora, il fatto che queste tre caratteristiche siano universali e necessarie esclude che possano essere un prodotto culturale. L’homo sapiens non ha elaborato la morale, l’estetica e la teleologia come ha invece elaborato l’arte di fondere i metalli: il giusto, il bello e lo scopo sono nati insieme a lui. E chi glieli ha messi nel cervello? Non certo le forme di vita inferiori, che queste tre caratteristiche mai le hanno viste o conosciute.

    Dunque bisogna postulare un Sommo Bene, un Sublime, un Fine Ultimo. Cioè Dio.

                                                               ***

    Sul carattere universale e necessario di qualsiasi cosa si possono scrivere intere biblioteche. Alla fine, ognuno resterà della sua idea. L’argomento kantiano del Sommo Bene e del Sublime viene da Socrate, via Platone. È una linea di pensiero molto suggestiva, ma non è un argomento. Quantomeno, la dimostrazione è molto debole: etnografia e antropologia hanno seminato fior di dubbi sull’esistenza di una legge morale naturale, e se vacilla il pilastro dell’universale e necessario, tutto il discorso vacilla. Senza contare che Kant, nella “Critica della Ragion Pratica”, più che un bisogno di giustizia sembra sottolineare un bisogno di coerenza. Ma proprio qui sta il problema, perché l’esistenza di Dio non esime nessuno dal ricercare faticosamente e dolorosamente la propria coerenza. Insomma: l’argomento del giusto e del bello è un indizio molto forte, ma non ancora una prova. 

 

                   Credere in Dio? (quinta puntata – Opinione personale)

 

    Nei post precedenti ho cercato di fare divulgazione, e cioè di dar conto degli argomenti pro o contro l’esistenza di Dio nel modo più obbiettivo possibile, cercando di dipanare i contorcimenti mentali di cui si compiacciono i filosofi professionisti. Ma ora devo affrontare il quinto argomento di Tommaso (che coincide con il terzo di Kant) e cioè la necessità di dare un senso alla vita umana e all’universo. Qui devo ammettere che faccio fatica a essere obbiettivo.

    Il senso dell’universo, lo confesso, non è cosa che mi tolga il sonno. È un problema che mi pongo, naturalmente; ma con la stessa freddezza con cui analizzo l’argomento ontologico. Ciò che invece mi tocca profondamente è il senso della vita, la mia vita. E questo, se da un lato mi fa sospettare di essere sulla strada di un argomento convincente, dall’altro mi fa temere di non saperlo valutare in modo spassionato. 

    Tanto per cominciare, ho un dubbio. Il problema di dare un senso alla mia vita non mi ha sempre angosciato. Fino ai trenta/quarant’anni credo di averlo considerato solo come un problema del tipo: “Cosa farò da grande?”. Immagino che siano in tanti a pensarla così. Forse perché, senza saperlo, si è sicuri di quale sia, questo benedetto senso, e solo più tardi bisogna ammettere che no, non era quello (ma allora qual era?). Oppure perché da giovani le energie sono così esuberanti che l’unico scopo della vita sembra quello di consumarle. Fatto sta che fino a una certa età semplicemente non ci ho pensato. Volevo affermarmi, cercavo gratificazioni professionali, avevo obbiettivi che mi sembravano ambiziosi.

    Ma il guaio degli obbiettivi è che qualche volta si riesce a ottenerli. Quando ho raggiunto i miei traguardi mi sono guardato alle spalle e ciò che avevo fatto mi è sembrato penosamente privo di scopo. Sì, mi ero affermato. Potevo cercare di affermarmi ancora di più, ma per chi? Per che cosa? Chi ha una famiglia lotta per i figli. Io, per correre dietro ai miei dannati obbiettivi, avevo rinunciato a farmi una famiglia. I miei successi erano di tipo professionale e collegare una attività economica al bene dell’umanità è un esercizio troppo astratto: il risultato è così indiretto che non dà la sensazione di aver fatto qualcosa di utile anche per gli altri.

    Certo, questo discorso lo capisce solo chi l’ha provato, e ognuno lo prova con sfumature differenti. Certo, nessuno è tenuto a pensarla come me. Ma, per quanto mi riguarda, di tristezze è pieno il mondo e non mi sembra il caso di fabbricarne delle altre. L’idea di un universo generato a caso e che evolve in modo casuale mi fa venire la depressione. So bene che questa è la teoria che oggi va per la maggiore, ma le teorie cambiano. Si sa: non c’è niente di meno definitivo della scienza.

    Ciò che sento adesso, e lo sento con una sofferenza lancinante, è che senza uno scopo la vita è una crudele presa in giro. Tanto vale non vivere. Se davvero l’universo è il regno del caso, meglio suicidarci in massa e far scomparire questa umanità inutile.

    Insomma: io non sono in grado di dare un senso all’universo. Potrebbe averglielo dato Dio, se ci fosse. Ma, nel caso, gliel’avrà dato secondo la sua logica, che io non riesco a seguire. Io posso solo (e sono costretto a) scegliere se comportarmi come se l’universo avesse un senso oppure come se non l’avesse. Un altro sceglierà l’universo caotico. Io personalmente preferisco un universo sensato, quindi mi regolo come se Dio ci fosse. Non so se c’è. Non posso neanche essere sicuro di crederci. Però ci spero.

    Visto che ognuno ha le sue certezze ma nessuno possiede la verità, preferisco vivere sperando di non essere un prodotto del caso, destinato a sparire nel nulla con la certezza che la sua vita non ha significato niente.

                                                               ***

    È un argomento questo? No, visto che convince solo me e chi ha sensazioni o esperienze analoghe alle mie. Però me ne accontento, anche perché mette in evidenza una necessità fondamentale di tutti gli esseri umani: la speranza. Nei momenti di più profonda depressione, quando mi sentivo sigillato vivo dentro una bara e non riuscivo a muovermi tanto ero impietrito dall’orrore, la speranza mi ha aiutato a resistere. In fin dei conti, alla radice del giusto, del bello e dello scopo, c’è la speranza.

    Non mi azzardo a montare sulla speranza un ragionamento come quello di Kant sulla giustizia, ma è un fatto che chi non ha uno scopo non ha nemmeno una speranza e non ha motivo di combattere. Anche senza il conforto di un sondaggio della Doxa, immagino che chi ha speranza creda in Dio, in un modo o nell’altro. Chi non spera, o deve fabbricarsi una fede nell’umanità, e cioè in un progresso indefinito e interminabile (senza uno scopo ultimo), oppure deve abbandonarsi alla disperazione.

    Un ateo coerente e disperato replicherà che queste sono tutte chiacchiere: a lui interessa la verità. Ma il fatto è che non esiste un argomento che dimostri inoppugnabilmente che Dio c’è oppure che non c’è. Esiste una ragione umana che produce gli argomenti che abbiamo visto. Esistono necessità dell’essere umano che inducono a sperare che Dio ci sia. Ma esiste anche il dolore e la morte, che conducono a pensare che Dio, se c’è, non ci vuol bene. La scelta se credere o non credere è una responsabilità personale.

    Da quando mi interesso del problema, sono sempre stato colpito da un’osservazione ben poco filosofica, ma dalla quale non riesco a liberarmi: se fosse possibile dimostrare inoppugnabilmente che Dio esiste, non ci sarebbe alcun merito a credergli.

    La conclusione che ne traggo è che la condizione umana è problematica: brancoliamo nel buio, in metafisica come in morale, e dobbiamo arrangiarci. Non illudiamoci di scaricare le nostre responsabilità su un ragionamento.

 

                                  

 

Una delle cose che non sopporto è il linguaggio “politicamente corretto”. Opinione personale: lo trovo profondamente ipocrita. L’ho scritto nel 2004, senza tanti complimenti, e guardate un po’ il risultato. L’ultimo commento, poi, è una vera chicca.

 

                                         Politicamente corretto

 

    Durante il servizio militare mi è capitato più volte di fare lo spazzino. Non è escluso che, prima di lasciare questa valle di lacrime, mi capiti di doverlo fare ancora. Avviso tutti gli interessati: se mi vedete in tuta con una scopa di saggina in mano e mi chiamate “operatore ecologico”, ve la rompo sulla testa. 

    In che cosa migliora la mia situazione se mi cambiate nome? Cambiatemi stipendio, piuttosto. Non avete i soldi per farlo? E allora state zitti. Le parole non costano niente ma non danno niente. O meglio, mi correggo: non danno niente a me. A voi invece qualcosa danno.

    Voi passate per la strada, mi vedete lavorare in mezzo alla sporcizia, e vi sentite colpevoli per il vostro vestito immacolato, per le sospensioni dell’auto che preservano il vostro deretano da urti troppo violenti, per il climatizzatore che vi tiene al caldo o al fresco, ecc. ecc. E allora, in un empito di solidarietà sociale, siete presi dalla compassione per me (così come compiangete i negri e i pellerossa – pardon: le “persone di colore”, deprecate la sorte degli animali dello zoo – pardon: del “bioparco”, vi intenerite per gli storpi e gli sciancati – pardon: le “persone diversamente abili”) e decidete: qui bisogna fare qualcosa! 

    Ma ci deve pur essere qualcuno che pulisca le strade dalle schifezze che ci lasciate cadere voi. Di questo siete vagamente consapevoli. E allora che si fa?

    Perbacco, eliminiamo almeno il fastidioso senso di colpa che ci prende quando pronunciamo la parola “spazzino”. Allo spazzino non gli cambierà la vita neanche un po’, ma vuoi mettere come staremo meglio noi? Perché dovremmo perdere tempo ed energie per fare in modo che la pulizia delle strade sia un lavoro ben remunerato e addirittura ricercato? Per quanti altri mestieri dovremmo ripetere un’operazione di questo genere? Non basterebbero le risorse della comunità! E allora salviamoci l’anima. Lo spazzino lo chiamiamo “operatore ecologico” e con un brillante esercizio di ipocrisia abbiamo soddisfatto le esigenze del nostro egoismo. Non abbiamo tirato fuori un quattrino, non ci siamo impegnati a nulla, non abbiamo migliorato la condizione di nessuno, non abbiamo cambiato neanche i nostri veri sentimenti nei confronti di Tizio o di Caio per il lavoro che fa o per la pelle che ha, ma gli abbiamo appiccicato in fronte un’etichetta diversa, e questo basta per appagare la nostra coscienza.

    Be’, io non ci sto. Avrò una coscienza fatta in un modo strano, ma voglio chiamare cose e persone con il loro nome. E se questo mi procura dei sensi di colpa vuol dire che me li gestirò. Ogni volta che ci si sente in colpa c’è qualcosa che non va e siamo noi a doverci impegnare per cambiare le cose – le cose, non le parole. Cambiar nome alle cose non è affrontare i problemi: è barare al gioco.

 

19 Ottobre 2004 – 12:33

Sono assolutamente d’accordo. (I vecchi sono vecchi, non anziani. Gli anziani sono anziani, non “non più giovani”. I “maturi” sono “maturi” – almeno dovrebbero – e non “non più giovanissimi”, ecc.)

arden

 

19 Ottobre 2004 – 13:15

giusto, quando una mia vecchia fidanzata mi disse che avevo meno dignità di un verme (non fu la prima, credo non sarà l’ultima a dirlo), non ebbi nulla da ridire.

senzaidee

 

19 Ottobre 2004 – 13:38

…e gli onorevoli sono onorevoli. allora sì che ci dovremmo sentire in colpa, e armarci di panclastite e balistite per espiarla…

alderano

 

19 Ottobre 2004 – 15:37

Non si può non essere d’accordo. Però al posto di ‘Storpio’ e ‘sciancato’, che hanno una connotazione dispregiativa (diversamente da ‘spazzino’, che è uno che spazza), userei di volta in volta parole come paralitico, zoppo, monco, ecc.

giowanni

 

19 Ottobre 2004 – 18:42

Segnalo una canzone di un cantautore tedesco, Fanny van Danne: “Anche le negre lesbiche paralitiche possono essere stronze”. Ma se è giusto smascherare la realtà definendola per ciò che è, non è leale peggiorarla. Non posso dire che un omosessuale è un frocio o un ricchione o un finocchio, perché così non descrivo la sua sessualità, bensì getto uno sguardo censorio, moralista, discriminatorio rispetto alle sue esigenze. Non sai quanto spesso ho sentito dire che gente avara fosse ebrea. No, su certi punti il Pol.Cor. rimane fondamentale, perché (su questo siamo senz’altro d’accordo) parlare meglio aiuta a pensare meglio.

vins gallico

 

19 Ottobre 2004 – 19:06

Quando facevo il servizio civile in un centro socioeducativo, si parlava di come chiamare gli handicappati. Disabili? Mancavano di una o più abilità, capacità? Portatore di handicap va bene se uno ha UN SOLO handicap, ad es. un cieco.

lorenzo galbiati

 

19 Ottobre 2004 – 20:38

Il termine handicappato è il più logico e per nulla offensivo. E a volte anche gli handiccapati sono stronzi come tutte le persone. Ce n’era uno che girava per Milano in tram, toccando il culo alle fanciulle e alle rimostranze delle più indignate rispondeva con aria innocente: ma io sono handicappato. Ma per tornare alla discussione iniziale, definire un omosessuale “culattone” significa offenderlo e denigrarlo.

gabriella fuschini

 

19 Ottobre 2004 – 20:55

Le parole possono essere corpi contundenti. Handicappato è tutt’altro che una parolaccia. Descrive lo stato delle cose. Ma Riccardo si riferiva, credo, a quegli eufemismi francamente squallidi e rivelatori di un classismo strisciante come “operatore ecologico”. Aggiungo una vecchia parola, da Pol.Cor. d’antan: rovinafamiglie. Traduzione: troia. L’ipocrisia c’è sempre stata.

markelouffenwanken

 

19 Ottobre 2004 – 22:48

Ma c’è di peggio. Adesso si nobilita un lavoro chiamandolo in inglese. “Operatore ecologico”, almeno, era in bell’italiano. La commessa del negozio di scarpe è una “shoes costumer care”. Figo, no? Forse ancora più bello di “web engineering”. (e “junior account”? Qualcuno di voi ha mai capito cos’è VERAMENTE un “Junior account”?)

gianni biondillo

 

20 Ottobre 2004 – 19:36

Allora: il profilo professionale di Operatore ecologico dovrebbe essere regolato dal C.C.N.L. siglato il 14.09.2000 (Cat B con ingresso in B1). Gli aumenti della retribuzione esistono e sono gli stessi della categoria B, oltre a una indennità per rischio e lavoro notturno, e alle varie progressioni perlomeno orizzontali: sono informazioni approssimate, non ho tempo di fare di meglio ma bastano a far cascare l’impianto del pezzo di Ferrazzi: NON E’ CAMBIATA SOLO LA DEFINIZIONE DEL PROFILO PROFESSIONALE MA ANCHE LA RETRIBUZIONE. Ferrazzi scrive: “Non abbiamo tirato fuori un quattrino, non ci siamo impegnati a nulla, non abbiamo migliorato la condizione di nessuno” “Perché dovremmo perdere tempo ed energie per fare in modo che la pulizia delle strade sia un lavoro ben remunerato e addirittura ricercato?” E’ realtà questa? No, è un suo sospetto fatto realtà. Gli operatori ecologici sono parificati ad altri lavoratori in una categoria, e i Comuni prevedono delle indennità proprio per elevarne la retribuzione rispetto ad altre occupazioni di livello analogo. Dunque come sintetizzare in termini tecnici il pezzo sull’operatore ecologico, i pezzi analoghi, costruiti allo stesso modo: delle cazzate. Ma il problema rimane, queste cazzate sono il prodotto di qualcuno che dovrebbe per il talento che possiede scovare le cazzate, non produrne. Alla fine ci rimane (ci = quelli che si aspetterebbero da chi scrive una produzione di senso) una conclusione banale ma sempre un po’ amarognola: leggere una vagonata di libri non serve a produrre un pensiero utile al mondo.

andrea barbieri

 

        Nel centenario della nascita di Giovannino Guareschi 

 

  Pio Pis, dopo aver attentamente letto gli appunti sugli omnibus, si recò al meeting e prese posto nella sua poltrona. Parlarono, o, più che altro, balbettarono alcuni cocchieri vestiti a festa, poi Bettel cominciò a dire parole di fuoco sull’organizzazione della società moderna e fece qualche sballato raffronto di indole storica. 

  Pio a un tratto chiese urbanamente la parola e sollevò una facile obiezione, tanto per saggiare il terreno. 

  Bettel diventò rosso e se la cavò con visibile fatica. Pio non insistette ma ringraziò e si rimise a sedere. 

  Immediatamente il signore di sinistra si chinò verso di lui. 

  “Cinquanta dollari se ve ne andate.” 

  Il signore di destra aveva udito e passò al contrattacco. 

  “Cento dollari se rimanete e insistete.” 

  “Centocinquanta” sussurrò il signore di sinistra. 

  “Duecento” replicò il signore di destra. 

  “Duecentocinquanta !” 

  “Trecento !” 

  “Trecentocinquanta !” 

  “Quattrocento !” 

  Pio Pis preso fra i due fuochi, era rimasto sbalordito. I due antagonisti, rossi in viso, facevano la loro offerta a denti stretti. Pio volgeva la testa a destra e a sinistra a scatti, come le galline.     

  “Ventiseimilatrecentocinquanta !” disse alla fine il signore di sinistra. 

  “Ventisett…” cominciò il signore di destra. Ma si interruppe: un applauso faceva rintronare le volte della maestosa sala e trovava eco fragorosa nella piazza. Bettel aveva finito la sua esposizione e stava inchinandosi. 

  Il signore di destra scoppiò in una grossa risata cui fece eco la grossa risata del signore di sinistra. 

  Pio sudò freddo: era stato giocato. Con lo scherzetto dell’asta l’avevano immobilizzato e ora gli sghignazzavano in faccia. 

  Pio si sentì come un leone ferito e, facendosi faticosamente largo tra la gente che si alzava per uscire, si piantò a gambe larghe davanti a Bettel che stava raccogliendo le cartelle di appunti dal tavolo. Lo aggredì con eloquenza mirabile, lo inchiodò, lo fulminò. Parlò per mezz’ora consecutiva guardando Bettel fisso negli occhi, gli demolì parola per parola la sua tesi, la polverizzò, l’annientò. 

  Alla fine Bettel gli strinse con calore le mani. 

  “Signore” esclamò Bettel, “la vostra argomentazione è formidabile, tanto che siete riuscito a convincere anche me. Se mi aveste detto tutto questo quando c’era la gente mi avreste distrutto.” 

  Pio si volse. 

  La enorme sala era vuota: già da mezz’ora la gente se ne era andata per i fatti suoi. 

  Il nostro infelice gentiluomo scosse il capo. 

  “Ecco quindici dollari andati in fumo” sospirò Pio. 

  “Lavorate per una agenzia ?” 

  “Sì, e voi ?” 

  “Io no: io lavoro per la gloria” rispose Bettel. “È una cosa meno seria ma si guadagna di più”.

 

(da “Il destino si chiama Clotilde” – Rizzoli, 1942)

 

                    

                          Qualche oziosa considerazione sull’arte                                                      

 

    Quando capita di conoscere un artista, è meglio non intervistarlo. Se proprio non si può fare a meno di avviare una conversazione, meglio farlo parlare di donne, di cibo, di sport, di qualunque cosa ma, per amor di Dio, non di arte. Almeno, non della sua.

    Quando era già vecchio e piuttosto suonato, Manzù presentò al pubblico la sua ultima scultura. Era una maternità, e bastava darle un’occhiata per sentirsi trasportare in un mondo di idee platoniche. C’era anche la tv: il solito imbecille schiaffò il microfono sotto il naso dello scultore e gli chiese quale fosse il significato della sua opera. Manzù, serio serio, rispose che si trattava di una donna che teneva in braccio un bambino.

    Mai chiedere a un artista di svelare il segreto della sua arte. Come potrebbe rispondere? Non lo sa neanche lui.

    Chi va in Spagna capita almeno una volta in un tablao flamenco. Nella maggior parte dei casi lo spettacolo è una porcheria e conferma il turista nell’idea che esistano arti maggiori e minori, e che le cosiddette arti minori siano puro e semplice intrattenimento. Però qualche volta accade che i gitani sul palco siano davvero gitani e che una strana mescolanza di umori ed elettricità statica faccia scattare il duende, il folletto che li spinge a suonare, cantare e ballare per se stessi e non per il pubblico. Allora chi sta in sala prova qualcosa che ha provato solo in rare e scelte occasioni. Quella sera e poi ancora altre volte nel ricordo, cercherà di capire cosa c’era in quella danza. Ripenserà al brivido che provò quella volta che Pavarotti fece tremare il lampadario della Scala; o quella volta che, rileggendo l’ultimo canto della Divina Commedia, si è sentito strano. E si domanderà cosa c’era di simile e cosa c’era di diverso in ciascuno di quei brividi.

    Non riuscirà a rispondere. Avrà la sensazione di essere lì lì per afferrarla, la dannata differenza, e di avere soltanto un piccolo problema nella scelta delle parole adatte per definirla. E invece l’afasia continuerà a perseguitarlo, lo lascerà affannato e scornato come se avesse corso la maratona convinto di essere in testa per poi scoprire, al traguardo, che qualcun altro l’aveva preceduto. E allora tornerà da quei gitani e cercherà di farli parlare. Con pessimi risultati.

    In materia di estetica, è difficile (ed è pure arbitrario) tracciare delle linee fisse, razionali e inderogabili, per poi ficcarci dentro il fenomeno “arte”. Ho letto da qualche parte che, secondo Baricco, l’Inno alla Gioia della nona sinfonia di Beethoven sarebbe una banalità. Nel mio piccolo, anche senza la fama e la chioma ricciuta di Baricco, potrei elencare un certo numero di “venerati maestri” che non mi hanno mai provocato neanche l’ombra di un brivido artistico, e sono sicuro che altrettanto potrebbe fare chiunque. Ma chi ci dice che non si tratti di insofferenze personali? Sarebbe bello trovare un criterio oggettivo, universale e necessario. Insomma, parliamoci chiaro: siamo proprio sicuri che Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé, non sia stato un artista più grande di Rudolf Nureyev? Dove sta scritto che Gargantua e Pantagruel sono arte e Stanlio e Ollio no? Eccetera eccetera.

    Può darsi che questo approccio non vi convinca. Può darsi che abbiate passato gli ultimi quarant’anni a elaborare una teoria estetica tetragona e inconcussa. Ma se non avete pregiudizi, almeno in campo artistico, dovreste essere disposti a considerare il fatto estetico più per il piacere che produce che per i modi usati nel suscitarlo. E se è così, converrete che esistono edifici, quadri, testi, musiche, situazioni, fatti, che si staccano dalla media non per quantità o qualità ma per intensità. È l’intensità che provoca la “sindrome di Stendhal”. È l’intensità che fa vibrare in consonanza la folla in un teatro, in un comizio, in uno stadio, in una plaza de toros.

    Non saranno in molti a pensarla come me, ma io non arriccerei il naso all’idea di considerare potenziale generatore di arte tutto ciò che cade sotto i nostri sensi. Proprio tutto, compresi i concerti rock, l’oratoria dei grandi demagoghi, lo sport. Perché si sono sempre costruiti stadi giganteschi? Perché la folla vuole emozioni. Come mai Demostene e Savonarola trascinavano le folle? Perché le emozionavano.

    Si dirà: l’arte è emozione, ma non tutte le emozioni sono arte. Ah sì? E dove sta il discrimine? Una pessima interpretazione di una sinfonia sarebbe arte, e un emozionante fandango non lo sarebbe? Non sono d’accordo. Secondo me, il discrimine sta nell’intensità e, se l’arte è emozione intensa, si può farla con qualunque cosa. Lo sport non presenta spesso situazioni da risolvere con un lampo di genio, e cioè con l’intensità di una improvvisazione? Be’, improvvisare era una specialità sia di Chopin che di Louis Armstrong. Solo che Chopin prendeva nota sul pentagramma mentre Satchmo bisognava registrarlo. Allo stesso modo Maurice Béjart annotava le sue intuizioni coreografiche, Antonio Gades già lo faceva molto meno, uno sconosciuto gitano non ci pensa neanche. Eppure può capitare la sera in cui lo sconosciuto emozionerà il pubblico come Gades e Béjart (e qualche volta anche meglio di loro).

    Da questo punto di vista, ciò che si verifica in uno stadio di football o in una plaza de toros è molto simile a ciò che avviene in un tablao flamenco. In un caso e nell’altro la prima manifestazione della consonanza fra artisti e pubblico è la stessa: olé! Il grido esce dalla bocca senza dar modo di rendersene conto. Lo dite e vi stupite di averlo detto.

    Provate a domandare al tizio che sta seduto di fianco a voi nel tendido 8 della Plaza Monumental di Las Ventas: in che consiste l’arte di un torero? Vi risponderà: nel trasmettere l’emozione. Nessun artista potrà mai contestare questa risposta. Eppure qualunque artista, dentro di sé, sa che le cose non sono così semplici. Perché, delle due l’una: o esistono mezzi codificati per trasmettere l’emozione, nel qual caso sarebbe questione di tecnica e non di arte; oppure la trasmissione avviene in un modo sconosciuto, e allora dire che l’arte consiste nel trasmettere l’emozione è come dire che la pioggia è acqua bagnata.

    Forse è più interessante osservare il fenomeno dell’innovazione tecnica che diventa arte. Belmonte scopre che è possibile entrare nel terreno del toro (e uscirne vivi) e la gente prova il famoso brivido. Caruso abolisce il falsetto, canta a voce spiegata e la gente va in visibilio. Bernini e Borromini creano strutture di una complicazione sovrumana e la gente le rimira a bocca aperta.  

    Eppure non manca chi storce il naso davanti al barocco, chi mette Rossini avanti a Puccini, chi accusa Belmonte di “tremendismo”. E non solo: c’è chi riconosce l’arte nel teatro ma la nega nel cinema; chi la riconosce nel cinema ma non nella televisione, negli spot, nei videogiochi. Chi parla di “arti minori”, però, di solito balbetta al momento di definire in che cosa differiscano dalle “arti maggiori”. Insomma: che cos’è l’arte? Perché un’innovazione tecnica produce arte e un’altra no?

    Mi permetto di insistere: alla base del fatto estetico c’è il piacere che genera, non i mezzi usati per generarlo. Il piacere estetico lo provoca anche la natura. Ognuno di noi ha visto paesaggi pieni di mistero, di pace o di infinito. Ognuno di noi, quando ci ripensa, ne ritrova l’emozione. E se la natura si è evoluta a caso, bisogna almeno riconoscere che il Caso è un grande artista.

    Ciò che contraddistingue certe opere, fatti o situazioni, e li fa definire come opere d’arte è la forma. Non basta che l’artista conosca approfonditamente tutto ciò che si riferisce alla materia con cui opera; non basta che da questa conoscenza ricavi la strategia più adatta a raggiungere il suo scopo. Tutto questo è niente più che buon artigianato e la sua massima espressione è lo stile. La forma è qualcos’altro, che può essere ottenuto anche dalla casualità della natura, e che ha a che fare con la trasmissione dell’intensità. Se fosse un fatto tecnico potrei tentare di descriverlo. Se fosse un fatto medianico potrei farci sopra della (pessima) retorica. La verità è che non so darne una definizione.  

    Ci sono attimi nei quali ci sembra di superare noi stessi per attingere l’infinito. Lo sappiamo. Di solito, il lettore (lo spettatore, l’ascoltatore) raggiunge questi vertici quando fruisce dell’opera d’arte, l’interprete quando la esegue, l’artista quando la concepisce. Ma a volte artista e interprete sono la stessa persona, che crea e esegue sotto gli occhi di un pubblico partecipe: è il caso di Chopin che improvvisa, di Van Gogh che dipinge en plein air, di Maradona che infila cinque dribbling consecutivi e va in porta col pallone. Ed è anche il caso del flamenco e della tauromachia: la consonanza col pubblico è il sintomo più sicuro dell’apparire della forma.

    Per spiegare la comunione di tanti nell’emozione di uno si usano termini come empatia, suggestione, magnetismo, e altri ancora. Questi brancolamenti terminologici sembrano giustificati dall’idea che, se si riuscisse a definire cos’è l’emozione, si potrebbe risalire all’intensità e al modo di trasmetterla. Ma l’emozione è un fenomeno troppo personale e multiforme. Sappiamo solo che c’è. Milioni di persone, uomini e donne, hanno assistito a un “Romeo e Giulietta”, eppure non ce ne sono due che siano “entrati” nell’animo dei protagonisti nello stesso modo, nella stessa scena. L’opera d’arte è sempre quella e a tutti trasmette emozione, ma l’emozione è diversa per ciascun individuo.

    Ciò che consente di trasmettere l’emozione è la forma. Ma come si fa a prendere in esame un fenomeno così volatile? E se fosse possibile studiare la trasmissione dell’emozione fino a dare una definizione matematica della forma, siamo sicuri che l’emozione sarebbe ancora la stessa? Forse anche in campo estetico esiste un principio di indeterminazione.

    Decisamente, è meglio cercare altri metodi di indagine: la ragione ha i suoi limiti e non può darci conto di tutto ciò che “sta fra cielo e terra”. Essere uomini significa possedere la razionalità, ma anche i sentimenti, le speranze, l’amore. Tutte cose che vanno al di là della ragione e che da un’indagine razionale escono svilite.

 

 

                                           Viva i bestseller !

 

    Ogni tanto riparte il revival della solita, eterna, immutabile discussione su “letteratura popolare” e ruolo della critica, con l’inevitabile codicillo della solita, immutabile, eterna “questione della lingua”.  Ho una certa età, e questa manfrina l’ho già vista ripetersi non so più quante volte. Sarà un mio limite, ma faccio fatica a convincermi di una cosa: che prima si debba scegliere una idea e poi si debba interpretare la realtà alla luce di quella. Scusate tanto, ma io resto attaccato al vecchio metodo: prima cerco di conoscere i fatti, poi, se proprio non se ne può fare a meno, ci elaboro sopra una teoria.

    Allora guardiamola un po’, questa letteratura popolare. Tra le grandi opere della narrativa di tutti i tempi, di best seller immediati non ce ne sono stati molti. Se lasciamo da parte i romanzi pubblicati a puntate, forse restano solo il “Don Chisciotte” e “I dolori del giovane Werther”. Addirittura, il Chisciotte è il primo caso di un best seller che ha richiesto un sequel.

    Ma che dire di tutti gli altri best seller? Seriamente, vogliamo sostenere che “Il monaco”, “Il boia di Béthune”, “Ettore Fieramosca” siano cose di alto livello? Per chi l’avesse dimenticato, i successi di fine ottocento si intitolavano “I misteri di Parigi”, “L’ebreo errante”, “Sepolta viva”, e compagnia bella. Negli stessi anni c’erano fior di scrittori che scrivevano fior di capolavori, eppure anche allora dovevano pubblicarli a proprie spese, quando non uscivano postumi a cura degli amici. E allora perché ci meravigliamo o ci scandalizziamo per il successo di un Faletti, di una Tamaro, di un Giordano, ecc.? Oppure, a rovescio, perché dovremmo prendere lucciole per lanterne e celebrarli come “i più grandi scrittori italiani viventi”?

    Faletti, per esempio, è un onesto scrittore di gialli che ha avuto successo. Ne sono contento per lui (che mi è simpatico fin dal suo primo apparire a Drive in), ma ne sono contento anche per la letteratura: non riesco a togliermi dalla testa l’idea che, fra i due milioni di lettori che si è accaparrato, ce ne sarà qualcuno che insisterà a leggere, ci prenderà gusto e un giorno arriverà ad apprezzare anche Faulkner e Musil. Però ogni cosa va collocata nel giusto contesto. E a questo punto bisogna guardare i fatti in prospettiva storica.

    Dubito che esistano statistiche in merito, ma quanti erano, all’inizio del seicento, gli spagnoli che sapevano leggere e scrivere? Quando parliamo del Chisciotte best seller di quale pubblico stiamo parlando?  

    E ancora: alla fine del diciottesimo secolo, per quanto fossero progredite la cultura, la stampa e la pratica della traduzione, quanti erano in tutta Europa a leggere il best seller del signor Goethe? E soprattutto chi erano?

    Be’, anche senza statistiche, qualche risposta possiamo darla. Nella Spagna del seicento leggevano i nobili, i preti e pochi altri. In Europa, alla vigilia della rivoluzione francese, leggevano i nobili, i preti e i borghesi. Ma i borghesi erano dieci volte più dei nobili e dei preti messi assieme. La loro cultura era più d’accatto, i loro gusti erano più terra terra, il loro pane quotidiano era il feuilleton. Scrivevano a puntate Balzac, Dickens e tanti altri. Ma per ogni Dickens, per ogni Balzac, c’erano centinaia di scribacchini pagati un tanto a colonna per riempire il supplemento del sabato delle gazzette, e molto spesso questi pennaioli avevano più successo degli scrittori le cui opere hanno retto al vaglio dei secoli.

    Sul finire dell’ottocento il movimento socialista portò all’alfabetizzazione le masse operaie che, fino a quel momento, si erano formate una cultura solo fischiettando le arie di Verdi. La letteratura rispose a colpi di Carolina Invernizio e Guido da Verona. Ai primi del novecento arrivò il cinema, altri clienti furono conquistati alla narrativa e per la letteratura fu crisi, ma anche superamento e rilancio. A metà del secolo arrivò la televisione. Altra espansione del mercato, altra crisi. Ma la letteratura non è morta.

    Ogni progresso porta un allargamento della platea dei lettori, ma non si può chiedere agli ultimi arrivati di essere smaliziati lettori di Joyce o di T.S. Eliot, di averli assimilati e digeriti, di aver gustato e superato il postmoderno. Non si può chiedere al salumiere (o perlomeno non a tutti i salumieri) di lavorare dieci ore al giorno per poi vegliare meditando sui versi di Neruda o di Kavafis. 

    D’altra parte, se la cosiddetta “letteratura popolare” ha dilatato i suoi numeri, perché dovremmo temere per la letteratura con la Elle maiuscola? Certo, sono esistiti, esistono anche scrittori di valore che vendono centinaia di migliaia di copie, ma sono casi rari: di solito, chi vive di diritti d’autore è schiavo di un cliché e raramente entra nella storia della letteratura. Si può scrivere per fare soldi, diventare famosi e scopare le veline; oppure si può scrivere per dire qualcosa. In quest’ultimo caso sarà meglio non farsi illusioni, elaborare una strategia di nicchia e rivolgersi a una fetta di pubblico bene individuata. Che c’è di male? È poi così desiderabile che milioni di (rispettabilissimi) salumieri acquistino e leggano (magari in lingua originale) Der Mann ohne Eigenschaften? Oppure è indispensabile che gli scrittori leggano ogni anno l’ultimo Faletti o l’ultima Cornwell per “documentarsi”?

    Forse, invece di ergersi a legislatori su come dovrebbe essere il mondo della letteratura, bisognerebbe capire come è (e comportarsi di conseguenza).  

 

                           Mahler e il “cattivo gusto”

 

    È sempre possibile parlare di stile, ma è praticamente impossibile parlare di forma. Pensavo a questo quando sono arrivato a domandarmi se esista per caso un principio di indeterminazione anche in campo estetico. Continuo a credere che non esista una definizione della forma, così come non esiste una definizione dell’amore. Però è sempre possibile interessarsi dell’argomento, magari non attaccandolo frontalmente ma adottando una strategia corsara.

    Potrebbe essere interessante, per esempio, ragionare sulla notizia che sconvolse il globo terracqueo il 26 agosto 2008, quando la prestigiosa rivista “Grazia” ospitò Alessandro Baricco offrendogli il destro di rivelare all’universo mondo che, a suo parere, la nona sinfonia di Beethoven era banalotta anzichenò.

    Su cose del genere si potrebbe fare ironia per decine di pagine. Ma anche dalle boutades più mediocri, con un po’ di buona volontà, si può trarre spunto per un discorso serio.

    E allora proviamo a prenderlo sul serio, il Baricco. Proviamo a cantare Freude schöner Götterfunken Tochter aus Elysium senza l’accompagnamento di un’orchestra di un centinaio di elementi, senza un coro a più voci che canti insieme a noi. QQQQuelle quattordici sillabe ci appariranno davvero banali. Eppure ricordiamo perfettamente di avere ascoltato la stessa musica nel CD con l’esecuzione dei Wiener Philharmoniker diretti da Tizio o da Caio, e l’ultima cosa che ci passava per la testa era che si trattasse di una banalità. Magari, quando ha cominciato a cantare il baritono, il motivo ci è sembrato un po’ “troppo” semplice, “troppo” popolare, una specie di inno nazionale (come l’inno di Mameli o la Marsigliese). E forse i più avvertiti hanno immediatamente replicato che “Una furtiva lacrima” o “Il balen del suo sorriso” sono anche più semplici e popolari (per non dir di peggio), e che, quanto a inni nazionali, i cori del Nabucco o dell’Ernani fanno una bella lotta con “God save the King”.

    Fermiamoci qui. Stiamo parlando di musicisti che generazioni di critici hanno collocato nel gotha dell’arte. Non avremo mica sbagliato tutto?

    Forse sì, ma in un altro senso. Forse avevamo una nube davanti agli occhi, un velo davanti alle orecchie, quando abbiamo ascoltato la Nona insieme a Baricco e non abbiamo riconosciuto la forma, ce la siamo lasciata sfuggire sotto il naso.

 

                              Sanremo come chiave della democrazia

 

    Questo blog, che pure si disinteressa programmaticamente di politica, qualche volta si è occupato di architettura costituzionale. In questi giorni sono stato colpito da una constatazione.

    Da alcune legislature, indipendentemente da chi è al governo, l’opposizione organizza manifestazioni di piazza nelle quali espone il suo rifiuto radicale di tutto ciò che viene dalla parte avversa. Al contempo, la discussione in parlamento non verte più sul merito dei problemi.

    In altri paesi l’opposizione esamina in parlamento i provvedimenti del governo, ne mette in risalto le insufficienze, le incoerenze, le eventuali assurdità, e propone qualcosa di diverso. A volte riesce a convincere la maggioranza delle sue buone ragioni. Quando non ci riesce, sa che l’opinione pubblica segue il dibattito (perché è interessata ai problemi concreti) e se ne ricorderà alle prossime elezioni.

    Da noi si è arrivati al punto che il parlamento non serve più a niente. Quando un governo (qualunque governo) fa un provvedimento, non lo si esamina per ciò che comporta in concreto: lo si contesta in radice. Non in parlamento, ma in piazza.

    Come giustamente fa osservare il PD, Berlusconi fece così con Prodi. Il PDL risponde che Cofferati aveva portato i suoi tre, quattro, dieci milioni al Circo Massimo. Eccetera eccetera, seguendo la logica (matura e virile) del “Ha cominciato prima lui!”.

    Io mi domando che senso ha parlare ancora di democrazia rappresentativa. Perché mantenere un parlamento? Con gli stessi soldi possiamo mantenere seggi e scrutatori a tempo pieno. Sottoponiamo ogni provvedimento del governo a referendum. In fin dei conti, questo non è il paese del festival di Sanremo? 

 

                                   Curriculum scolastico

 

    Chi leggerà questo post avrà l’impressione di sentirsi raccontare una sceneggiatura per l’ennesimo remake del libro Cuore. Invece è tutto vero.

Ho fatto le scuole elementari negli anni ’50 a Busto Arsizio, in provincia di Varese. Si portava il grembiule nero, si scriveva usando penna, pennini e calamaio (ogni tanto veniva il bidello a riempirlo d’inchiostro: i calamai erano incassati nei banchi), c’era il voto di condotta, si studiavano a memoria le poesie, la disciplina non arrivava al punto da essere militaresca ma era una cosa piuttosto seria. In classe eravamo più di quaranta e la maestra era una sola. Non posso dire di ricordarla con particolare simpatia, ma in fin dei conti neanche con astio. Tutto sommato, faceva il suo mestiere.

    Il preside si vedeva solo in rare occasioni ed era un tizio pieno di sussiego, neanche fosse stato un generale dei carabinieri. In classe c’erano i figli degli industriali e degli operai, del farmacista e del fruttivendolo. C’erano esami anche in seconda elementare. L’analisi logica faceva la sua prima comparsa in quarta, e in quinta era pane quotidiano. Maestri e preside mostravano di considerare gli esami di quinta elementare come una tappa fondamentale nella vita di un essere umano.

    Alle medie la materia più importante era il latino. In ginnasio era il greco. Agli esami di maturità si portavano otto materie: quattro scritti e otto orali diversi. La commissione era formata solo da professori mai visti né conosciuti. Per ciascuna materia si portava il programma degli ultimi tre anni. C’era da sgobbare, eppure siamo sopravvissuti tutti: figli di industriali e di operai, di impiegati, artigiani e commercianti. Oggi, fra i miei compagni di liceo ci sono medici, impiegati, piccoli imprenditori, un preside, un professore di matematica, un infermiere, un architetto. C’è di tutto. 

    Io non ho scelto una facoltà umanistica (come avrei voluto). Per motivi pratici, mi sono iscritto alla Bocconi. Ho avuto i miei problemi con la matematica, ma sono riuscito a laurearmi. 

    Gli insegnanti che mi hanno accompagnato dal primo giorno di scuola alla maturità non avevano niente di straordinario e non erano pagati meglio degli attuali, eppure né io né i miei compagni abbiamo avuto bisogno di ripetizioni, doposcuola, Cepu o simili. Merito degli insegnanti, ma un po’ anche merito nostro. Chi era rimandato a settembre studiava e si metteva in pari. Quando arrivai all’università chiesi al professore di matematica del liceo se poteva darmi una mano per le derivate e gli integrali: me la diede e non volle neanche un quattrino.

    Non ricordo che mia madre abbia mai parlato con i professori. Mio padre firmava i compiti in classe con un grugnito e non ricordo che mi abbia mai detto bravo. Il loro principio era che io venivo alloggiato, nutrito e vestito gratis, quindi andare bene a scuola non era soltanto un dovere: era il minimo che potessi fare.

    La soddisfazione più grande l’ho avuta agli esami di maturità: con quattro otto e quattro sette ero risultato fra i migliori dell’istituto. Me la rovinarono i giornali, che all’epoca pubblicavano i risultati degli esami di maturità in tutta Italia. A sud del Volturno i nove, e addirittura i dieci, si sprecavano. Tutti futuri premi Nobel.

    Se ho combinato qualcosa nella vita lo devo alla curiosità intellettuale, allo sforzo di capire il significato di ciò che dicono gli altri. E questo l’ho imparato assimilando l’organizzazione mentale di una lingua come il latino.

    Oggi sarò anche diventato un vecchio rinco, ma ogni anno tv e giornali mi mostrano cosa sono diventati gli esami di maturità e mi piange il cuore a pensare che, in quarant’anni di esperimenti (uno più fallimentare dell’altro), la scuola italiana è ridotta a campare sull’abnegazione degli insegnanti che hanno una vera vocazione pedagogica (ma quanti saranno?). Via il latino, l’analisi logica e l’analisi del periodo; abolito l’esercizio mnemonico; le nozioni di base indispensabili rese optional; niente disciplina mentale e formale; in queste condizioni, c’è da stupirsi se al concorso per l’ingresso in magistratura il 90% dei candidati (tutti laureati in giurisprudenza) sono stati scartati per manifesta ignoranza?

    Lo so: questo discorso presta il fianco a molte critiche. È poco significativo, perché riguarda solo la mia esperienza personale. È arretrato, perché il mondo cambia e la scuola deve cambiare con lui. È poco informato, perché ignora i criteri della riforma Pinco e del libro bianco Pallino, del DPR tale e della legge talaltra. Insomma: ha tutti i difetti del mondo.

    Eppure, se non lo si guarda dall’alto in basso, è un discorso che potrebbe aiutarci a evitare qualche inconveniente.   

 

                                          È questione di logica

 

    Uno dei motivi per cui mi interesso di storia è il divertimento che mi procurano domande come questa: prima del 1807 il cervello della gente era diverso? Oppure i cervelli erano gli stessi, ma erano diversi gli occhi con cui la gente guardava la realtà?

    Se questo esordio vi fa commentare: “Non me ne può fregare di meno!”, avete tutta la mia comprensione, ma niente di più. Invece ai pochi eletti, capaci di sopravvivere a un incipit così disastroso, dirò quanto segue.

    Nel 1807, in una cittadina chiamata Bamberg, l’editore Goebhardt pubblicò l’opera fondamentale di Hegel. All’epoca, il libro era intitolato “Sistema della scienza” ed era corredato da un sottotitolo pressocché incomprensibile. Come capita spesso nella storia dell’editoria, la pubblicazione ebbe un avvio travagliato: l’autore si decise a cambiare il sottotitolo quando una parte della tiratura era già stata stampata e distribuita alle librerie. Ma anche il nuovo sottotitolo, “Fenomenologia dello spirito”, non era tale da invogliare il pubblico a fare a pugni per acquistarlo.

    Nonostante ciò, quel libro assicurò a Hegel una baronia universitaria e la fama nei secoli a venire perché rivoluzionava il modo di guardare la realtà che ci circonda. Per più di due millenni il mondo era stato interpretato in termini di “causa e effetto”: ogni cosa ne causa un’altra, e quest’altra ne causa un’altra ancora, e via di questo passo fino a spiegare l’universo mondo. Hegel, invece, rovescia i termini del problema: ogni cosa è contemporaneamente se stessa e il suo contrario. Il mondo non è fatto di cose univoche ma, al contrario, è perennemente contraddittorio. Proprio per questo è in continua evoluzione: se ogni cosa fosse esattamente ciò che è, non cambierebbe mai. Se il mondo è in perpetuo mutamento – e lo è – questo può accadere solo perché ogni cosa è in contraddizione con se stessa.

    Detto così, può sembrare l’arrampicata sugli specchi di uno che vuole stupire a ogni costo. In realtà, basta frugare nella nostra esperienza personale per trovare migliaia di esempi pratici.

    La gentile signora che incontriamo a cena da amici e fa onore al prosciutto di cinghiale e alla lepre in salmì già all’antipasto dice peste e corna della caccia e dei cacciatori. Nella foga del discorso arriva a dichiarare che ci vorrebbe la pena di morte per chi uccide gli animali. Credete che stia scherzando? Credete che sia vegetariana di stretta osservanza e che abbia mangiato la selvaggina per distrazione? Niente affatto: semplicemente non si rende conto di essere contraddittoria. Sarà magari schizofrenica, ma è in perfetta buona fede. 

    Volete altri esempi? Cosa mi dite delle “convergenze parallele”, dei “partiti di lotta e di governo”, dei “ma anche…”? C’è chi reclama contemporaneamente la messa al bando del tabacco e la liberalizzazione di marijuana e hascisc. C’è chi rifiuta gli inceneritori perché inquinano e lascia che la spazzatura si ammucchi nelle strade. C’è chi esalta la libertà d’impresa e difende a spada tratta il duopolio mediatico. C’è chi proclama che il suo verbo è la tolleranza e contemporaneamente si dichiara impegnato in una guerra senza quartiere contro il Male.

    Come sia possibile pensare che il male stia tutto da una parte senza essere intolleranti, io proprio non lo so. Ciononostante, mi sento di spezzare una lancia in favore di queste schizofrenie. È vero: sono incoerenti e contengono almeno un pizzico di ipocrisia, ma è raro che si tratti di vera e propria malafede. Il più delle volte si tratta di irrazionalità inconsapevoli. Chi si comporta in modo diverso da ciò che dichiara non avverte le sue contraddizioni, ma avverte quelle che lo circondano. Certo, è irritante: le sue pretese sono in contrasto con i suoi comportamenti perché è più facile pretendere dagli altri che da se stessi. Ma anche queste contraddizioni servono a mantenere in movimento la realtà. Personalmente non apprezzo gli incoerenti e non li giustifico (neanche quando l’incoerente sono io), ma devo ammettere che senza incoerenze la vita sarebbe una catena di montaggio.

    L’insegnamento più profondo di Hegel è che nessuna teoria (neanche la sua), per quanto logica e coerente, può rendere esatto conto della vita, del mondo, di tutto quanto.

   

                                              Nella città del Condor   

     

    Ho appena finito di leggere un libro pericoloso, che mi ha quasi convinto a smettere di scrivere perché tutto quel che c’era di intelligente da dire è già scritto lì. Si intitola Eumeswil e l’ha scritto Ernst Jünger.

    Dopo essermi ripreso dal colpo e aver ricuperato qualche motivo per continuare a picchiare sui tasti del computer, mi sono reso conto che non potevo passare la cosa sotto silenzio e almeno quattro parole sull’autore e sul libro dovevo pure spenderle.

    Eumeswil uscì nel 1977 in Germania e fu pubblicato in Italia nel 1981 da Rusconi. Non deve essere stato un successo di vendite. Attualmente è in catalogo da Guanda, ma in libreria non si trova: bisogna ordinarlo e non è detto che riusciate a procurarvelo. Di Jünger, sugli scaffali troverete forse Nelle tempeste d’acciaio o Sulle scogliere di marmo (libri sui quali non ho niente da dire perché non li ho ancora letti e non so neanche se li leggerò).      

    L’autore, nato nel 1895 e morto nel 1998 alla tenera età di centotre anni, ha attraversato in piena consapevolezza tutto il “secolo breve”. A diciannove anni si è ritrovato nel calderone della prima guerra mondiale, è tornato a casa vivo e decorato, è sopravvissuto alla depressione, al nazismo, a un’altra guerra mondiale, alla guerra fredda, al comunismo e al consumismo. L’esito di tutte queste esperienze fu che Jünger venne di volta in volta considerato revanscista, filonazista sotto la repubblica di Weimar, antinazista durante il nazismo, anarchico in tempi di democrazia, nonché ribelle e asociale. Per questo, in ogni tempo gli furono lanciate tutte le contumelie che si riservano a chi pensa con la propria testa e non si lascia incasellare sotto un’etichetta.

    Eumeswil, uscito quando l’autore aveva ottantadue anni, dà la versione più compiuta del suo punto di vista. 

    Non si tratta di un romanzo filosofico come Candido o Jacques il fatalista, non è una parabola fantascientifica come Micromega, non è un trattato in forma rapsodica come gli Essais di Montaigne. Eumeswil si aggrappa a un tenuissimo filo narrativo per sviluppare considerazioni sull’esercizio del potere e sulla misura in cui un singolo può sperare di salvaguardare con successo qualche spazio di libertà. Dal punto di vista della trama, il libro è volutamente inconsistente. Eppure è una delle cose migliori che io abbia letto negli ultimi sessantun anni.

    Voglio mettere in chiaro che non accetterò rimostranze da parte di chi, per via di questa recensione, lo leggesse e lo trovasse noioso, dispersivo, insensato e quant’altro. Ho divorato in quattro giorni le trecentosettanta pagine di Eumeswil, e ne avrei volute almeno il doppio, ma chi in un libro cerca altre cose (evasione, avventura, sentimento, azione, ecc. ecc.) qui dentro non le troverà, in capo a una trentina di pagine si sentirà deluso, penserà di aver buttato via tempo e soldi, e darà la colpa a me.

    Be’, se è così, non compratelo.

    Qual è il rimedio suggerito da Jünger a chi non accetta intromissioni da parte del potere? Non il ribellismo senza capo né coda dell’anarchico, ma la gelosa salvaguardia della propria libertà interiore. L’autore sa di cosa parla: ha sperimentato sulla sua pelle ogni genere di sopraffazione politica, dall’impero guglielmino alla tirannia hitleriana, alla democrazia granitica e consociativa del secondo dopoguerra. Senza contare la quotidiana osservazione del regime dirimpettaio, nella DDR.

    In Eumeswil Jünger definisce l’anarca, il tipo umano che resiste alla violenza del potere. Anarca non è il banale anarchico che tenta di far cadere un regime e finisce per cadere in braccio a un altro regime. Anarca è chi scorge la libertà vera al di là delle forme esteriori di uno stato. L’anarca coltiva la libertà dello spirito del singolo individuo e non si ribella a nessun regime perché sa che, tanto quanto, tutti i regimi si equivalgono. Quando la tirannia si sclerotizza viene soppiantata da demagoghi che sostituiscono il governo di uno con quello di alcuni. Quando la democrazia cade nell’impotenza, il governo di alcuni viene sostituito dal governo di uno solo. Per il singolo cittadino non cambia niente. Tutt’al più deve stare attento a non rischiare la pelle durante gli inevitabili disordini dell’interregno.

    Dove l’anarca è inflessibile e non cede neanche di un millimetro è nella sua libertà di giudizio, nella presa di distanza che gli consente di studiare ciascun regime nei suoi pregi e nei suoi difetti, ponendolo per così dire su un tavolo operatorio e dissezionandone scopi, trucchi, severità e arrendevolezze.

    Il prezzo di questa libertà è la dissimulazione: arte che l’anarca (a differenza dell’anarchico) deve rassegnarsi a esercitare sotto qualunque regime, perché è altrettanto necessaria in democrazia come sotto una dittatura.  

    Si tratta di un punto di vista affascinante, anche perché Jünger lo espone con grande abilità, con sfoggio di cultura e di erudizione, e soprattutto con quella chiarezza di idee che sembra un patrimonio esclusivo di greci e tedeschi.

    Ma è un punto di vista che conduce a uno scettico fatalismo, come succede ogni volta che una civiltà imbocca la parabola discendente, si volta indietro e si accorge di non avere più niente da dire: allora comincia a ragionare su se stessa e sviscera tutte le sue contraddizioni, ma non trova rimedi. Ed è logico che sia così, perché l’errore non sta nell’analisi ma nell’abitudine a considerare se stessa come un mondo, mentre i rimedi alla sua decadenza (se esistono) stanno al di fuori di lei.

    Un ultimo appunto. La traduzione, purtroppo, non è all’altezza del testo. È vero che tradurre Eumeswil è un impegno da far tremare le vene ai polsi, ma chi ci si mette deve pure accettare il giudizio del lettore. Il mio giudizio non è favorevole.

    Tradurre Jünger è senz’altro complicato, ma un’eccessiva aderenza all’originale finisce per nuocere. Certe frasi risultano troppo esoteriche. Certe scelte lessicali sono quantomeno discutibili. E poi, accidenti, un traduttore sa che in tedesco le virgole hanno una funzione sintattica; perché diavolo le mantiene tali e quali nella traduzione? Perché non fa la fatica di tradurre anche la punteggiatura?   

    Detto questo, per me il 2008 è stato l’anno di una grande scoperta. Meno male: cominciavo a temere che non ce ne fossero più. Era tanto tempo che non mi capitava di leggere qualcosa di alto, così alto da farmi volare per qualche ora fra aquile e condor (tanto per riprendere una delle molte metafore del libro).

    D’ora in avanti e, temo, per un bel po’, non mi resterà che tornare ai classici: Omero, Dante, Shakespeare.  

 

                                          Ancora sulla Storia (1) 

 

    Martin Heidegger basa la sua visione della vita su una osservazione che, in soldoni, si potrebbe riassumere così: la caratteristica che distingue l’essere umano è la progettualità, e cioè la capacità di proiettarsi nell’avvenire, di vedere se stesso in una condizione futura. L’uomo si proietta in avanti finché incontra un limite insormontabile: la morte. Quando arriva a vedersi, per così dire, seduto a cavalcioni sul limite estremo di ogni possibile esperienza, guarda indietro e riprogetta il suo passato.  

    Questa strana espressione – riprogettare il passato – non è che un modo di esporre un fenomeno che tutti conosciamo bene: quando ci tocca prendere una decisione è praticamente impossibile considerare a priori tutti gli elementi del problema e dare a ciascuno il suo giusto peso; ma quando poi la decisione è presa e ne esaminiamo gli effetti a posteriori, l’elemento che aveva un peso preponderante diventa subito evidente e solo a quel punto possiamo parlare di errori o di scelte azzeccate. Riprogettare il passato significa individuare, in una massa di fatti che a priori appariva caotica, quelli che a posteriori ci appaiono determinanti in un processo logico e consequenziale. Cioè fare lo storico.

    Ora, l’essere umano ha il limite invalicabile della morte, ma l’umanità nel suo complesso può avere qualcosa di simile? Di primo acchito verrebbe da rispondere di no. Eppure, anche se l’umanità non muore, sembra procedere con lo stesso meccanismo: quando un uomo politico prende una decisione non può sapere se avrà effetto, se sortirà l’effetto contrario, o se cadrà nel vuoto. Normalmente, quando la Storia è da fare, la realtà ha l’aspetto del caos. Al contrario, quando la decisione è presa, quando la Storia è fatta e non si può più tornare indietro, allora e solo allora ci pare di scorgere una linea di sviluppo. Se chi doveva decidere l’avesse individuata prima, avrebbe potuto inserirsi facilmente nella corrente della Storia e trarne profitto. Ma pochi uomini sono riusciti in questa impresa, i loro successi sono durati poco, ed è probabile che non derivassero tanto da superiori capacità di analisi quanto da una specie di “fiuto”, che dura finché dura, come capita al giocatore che azzecca una “serie” alla roulette.

    A questo proposito si può dire di sicuro soltanto questo: nessuno può fare la Storia. Tutt’al più, a qualcuno capita di diventarne strumento. Alessandro Magno concepì e mise in atto il suo progetto nell’unico momento in cui la Storia, componendo miliardi di variabili, lo rese possibile. Certo, argomentando a rovescio, si potrebbe anche dire che, senza Alessandro, la Grecia non avrebbe mai conquistato l’Oriente. Ma la Storia non si fa con i “se”.

    Dal 1796 al 1815 Napoleone credette di essere lui a fare la Storia e questa convinzione lo portò alla rovina. A posteriori, prendendo in esame la sua avventura, sembra più plausibile che sia stata la Storia a servirsi di lui.  

    Esempi di questo genere, anche se non così macroscopici, se ne possono trovare a centinaia. Gli eventi della nostra vita privata, piccoli e grandi, possono servirci da esempio come e più di Napoleone. Ognuno di noi, se fruga nel suo passato, trova fatti e situazioni in cui agì nell’intento di ottenere qualcosa e ottenne invece qualcos’altro, e ci si adattò, e finì per considerarlo la cosa migliore. È il fenomeno che, con un parolone inutilmente complicato, si definisce eterogenesi dei fini.

    Andando a ricostruire la Storia come appariva a priori, si possono collocare decisioni imprese e teorie nel loro ambito culturale, si possono ricostruire le intenzioni dei protagonisti, ma non si ricavano indizi di visioni politiche che vadano oltre le immediate contingenze. Quando se ne incontrano sono inevitabilmente destinate al fallimento, come il sogno napoleonico di invadere l’India o i propositi hitleriani di dominio del mondo. Più si scava nelle biografie e negli archivi, più si scopre che le decisioni prese dagli uomini politici sono il prodotto di orizzonti limitati o velleitari, più spesso meschinerie, quasi sempre desiderio di “coprirsi le spalle”. La cosa più sconcertante degli uomini politici visti a priori è la mancanza di una prospettiva storica. Il corso degli eventi è quasi sempre determinato da circostanze impreviste (ma non necessariamente imprevedibili) che danno a certe decisioni un peso che gli uomini politici non avevano inteso dare e forse, anche se avessero saputo prevedere le conseguenze, non avrebbero avuto il coraggio di affrontarle. 

    Ci troviamo di fronte alla classica domanda: se non sono gli uomini a fare la Storia, cosa dobbiamo pensare? Che si riduca a una sequenza di fatti, casuale o caotica, e quindi non esista in quanto Storia? Oppure dobbiamo pensare che la Storia esista e sia fatta dal Caso? Oppure che esista e si autogoverni secondo una sua logica?

 

                                           Ancora sulla Storia (2) 

 

    Visti a priori, tutti gli accadimenti umani sembrano caotici. Ma le cose cambiano se si prende in esame la Storia a posteriori?

    Dipende da come si raccontano i fatti. Gli antichi li raccontavano in modo annalistico: aprivano il capitolo “anno XYZ” ed elencavano tutto ciò che di memorabile era successo in quell’anno a partire dalla primavera. Quando arrivavano all’inverno, chiudevano il capitolo e ne aprivano un altro ricominciando di bel nuovo.

    È vero che la Storia viene per forza di cose narrata a posteriori, ma quando è narrata in modo annalistico risulta più simile a quella a priori: le guerre di Roma contro Osci e Sanniti, così come le racconta Tito Livio, o la guerra del Peloponneso rievocata da Tucidide non hanno l’aria di campagne strategicamente organizzate: sembrano piuttosto una serie di scaramucce all’insegna del “tu mi dài un pugno? e io ti do un calcio!”.

    Perfino le imprese più importanti procedono giorno per giorno con una grossa dose di improvvisazione. Napoleone aveva per motto Je m’engage et puis je vois (che, giudicato a lume di ragione, si direbbe il modo di fare di un pazzo). Beninteso: ciascuna delle parti in causa ha una strategia, nel senso che ha degli obbiettivi e pensa di conseguirli con certi mezzi, ma l’andamento quotidiano di un conflitto (armato o ideologico) è condizionato dagli imprevisti, che sono infiniti e hanno un peso preponderante. Un conflitto è una situazione in cui ciascuna parte controlla sì e no un 10% della sfera degli eventi, si oppone razionalmente al 10% controllato dall’avversario, e reagisce come può all’80% generato dal mondo circostante.

    Stando così le cose, è normale che gli obbiettivi strategici per cui ci si è messi in conflitto vadano ben presto a farsi friggere. Prendiamo il caso di una guerra in cui una delle parti in causa riesca a sgominare le armate avversarie e a occupare interamente il paese: cosa ha risolto se la popolazione resta ostile? Niente. Anzi, si ritrova nelle peste più di prima. Napoleone lo imparò a sue spese in Spagna. Non gli bastò: ci riprovò in Russia, e fu la sua rovina. 

    Generalmente, gli uomini politici sono meno cocciuti di Napoleone: ai primi sintomi di mala parata cercano il compromesso, e cioè si affrettano ad abbandonare gli obbiettivi sui quali si fondava la loro strategia. Visto che è impossibile conseguirli, ripiegano su altri obbiettivi, meno ambiziosi, ma che hanno il pregio di essere realizzabili.

    Questa disponibilità a rivedere le strategie può essere variamente interpretata. Vista a priori, appare come il mero intento di “salvare il salvabile”. A posteriori sembra qualcosa di più lungimirante. Dopo tutto, se la partita è persa, nel momento in cui cerchi di salvare il salvabile non hai la più pallida idea di quali possibilità ti offrirà il futuro. Probabilmente non ne offrirà affatto. Ma la speranza è l’ultima a morire. Quando l’esercito romano fu distrutto a Canne, il console responsabile del disastro rientrò a Roma convinto di andare al patibolo, invece il senato gli andò incontro e lo elogiò “per non aver dubitato del destino della patria”. Nessuno sapeva cosa fare per sconfiggere Annibale, ma tutti erano convinti che bisognava resistere e sperare nel futuro.

    Nel corso della Storia tante cause, buone e cattive, hanno ricevuto feroci bastonate. Nessuna si è rassegnata subito alla sconfitta, tutte hanno cercato di reagire o almeno di sopravvivere in attesa di tempi migliori. La maggior parte ha dovuto soccombere, qualcuna è riuscita a risorgere. Perché qualcuna sì e tutte le altre no? Forse gli uomini che in quelle cause credevano si sono dimostrati più abili degli altri? Niente affatto. Quinto Fabio Massimo riuscì a tenere Annibale lontano da Roma, ma non capì niente della strategia di Scipione e fece di tutto per mettergli i bastoni nelle ruote. Napoleone III, che riuscì a scalzare una repubblica e restaurare un impero, si fece fregare come un pollo da Bismarck. Eccetera eccetera. La realtà è funzione di infinite variabili e non è mai esistito un essere umano capace di tenerle tutte sotto controllo. Per questo, agire nella Storia è come giocare alla roulette. Non si può mai illudersi che, dopo tanto perdere, la fortuna tornerà a sorriderci. Non è detto, non è probabile, non c’è da contarci. Però qualche volta succede.

    Eppure, guardando la Storia a posteriori, sembra inevitabile individuare delle linee di sviluppo. Che sia una illusione? Queste linee di sviluppo le vediamo perché vogliamo vederle? Oppure esistono davvero?

    In ultima analisi, c’è poi una gran differenza fra l’ipotesi “la Storia si sviluppa secondo una sua logica interna” e l’ipotesi “noi ci illudiamo di individuare una linea di sviluppo”? La prima ipotesi, che nasce dalla Storia vista a posteriori, e la seconda, che sottintende la Storia a priori, dicono tutte e due che non siamo noi a fare la Storia. E se teniamo presente che la Storia, a priori o a posteriori, è sempre la stessa, risulta del tutto inutile stare a domandarsi in che misura la fanno gli uomini e in che misura si fa da sé. Quando dobbiamo decidere del nostro destino andiamo a tentoni, quando cerchiamo di interpretare il nostro passato, più che capire, progettiamo.

    In conclusione, dire che cos’è la Storia è altrettanto illusorio che dare  definizioni del Bello e del Bene. Gli uomini partecipano alla Storia, ne vengono trascinati da una parte o dall’altra, tentano di condizionarla assecondandola o contrastandola, ma un singolo (si chiami pure Alessandro, Cesare o Napoleone) ci può riuscire solo per un breve periodo ed è come se tendesse un elastico che prima o poi tornerà alle sue dimensioni normali. Certo, l’umanità mostra in poche migliaia di anni un progresso che non è possibile rintracciare fra le api o gli elefanti, e nemmeno fra gli scimpanzé che pure hanno un DNA che al 98% è identico al nostro, ma per pronunciarsi sulla natura della Storia bisognerebbe poter spiegare more matematico le relazioni che intercorrono fra i singoli e le masse. Un’impresa impossibile. 

 

                                    Coscienza e galera  

 

    Mi dispiace chiudere l’anno in questo modo, ma l’attualità lo pretende e Natale non è soltanto gioia e zucchero filato. Lo stupratore che assassinò Giovanna Reggiani ha avuto le attenuanti perché 1) la vittima si è difesa “troppo”, 2) lui era ubriaco e 3) proveniva da un ambiente degradato. “Queste circostanze” dice la sentenza, ”assieme al dettato costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione, inducono la Corte a risparmiare l’ergastolo”.

    Il fatto è stato riportato da tutte le tv, ma l’ipocrisia del Corriere fa sì che la notizia compaia a pagina 25, senza alcun richiamo in prima pagina. Vergogna!

Questo post è già comparso, su Lipperatura il 27/3/07 e anche su Merlincocai, ma lo ripropongo con gran parte della discussione che ne seguì perché mi sembra quantomeno profetico. Facile profezia, purtroppo. Spero di non doverlo ripetere mai più (ma temo che accadrà ancora).

 

    Tempo fa una sentenza della Cassazione ha riconosciuto le attenuanti generiche a un assassino in considerazione delle sue disagiate condizioni sociali ed economiche (si trattava di un migrante clandestino). Per qualche giorno la cosa ha fatto discutere. Poi, come al solito, altre notizie l’hanno obliterata. Eppure, qualche ulteriore considerazione sarebbe necessaria.

    Per entrare nel merito del fatto specifico bisognerebbe avere studiato giurisprudenza, conoscere le carte processuali, aver letto almeno la sentenza della Cassazione. Personalmente sono certo che i magistrati avranno giudicato correttamente sulla base delle leggi vigenti. Però ho l’impressione che, da quarant’anni a questa parte, sia in atto una deriva che porta a interpretare le leggi in modo da stravolgerne l’impianto.

    Intendiamoci: è normale che, col trascorrere del tempo, le idee cambino e con loro l’idem sentire della pubblica opinione e, di conseguenza, anche la percezione della gravità dei reati e delle pene. Però sarebbe bene che questi cambiamenti venissero trasfusi nelle leggi dall’attività del Parlamento, non dall’interpretazione (o dallo stravolgimento?) della legge.

    In ultima analisi, e prescindendo dal caso specifico che ha dato origine alla sentenza della Cassazione, perché lo Stato mette in galera i responsabili di un reato? Per dargli un brutto voto in condotta o per difendere la società?

    Se si concedono attenuanti a chi uccide in seguito a una provocazione è perché si ritiene che non si tratti di una persona pericolosa: se non verrà provocato non reagirà. Certo, deve capire che ha sbagliato a reagire in modo sproporzionato, e la punizione lo convincerà (si spera) a starci attento. Ma la società può sentirsi ragionevolmente al sicuro.

    Invece considerare attenuante per un assassino il fatto di trovarsi in una condizione di disadattamento significa giudicare la sua coscienza, significa cioè introdurre un criterio soggettivo, se non addirittura paternalistico, nella valutazione del reato. A questa stregua, se Bill Gates attraversasse fuori dalle strisce bisognerebbe mandarlo in galera. Non solo, ma una volta imboccata questa strada, bisognerebbe considerare che le possibili cause di disadattamento non sono soltanto economiche. In fin dei conti, è disadattato anche un trovatello, un orfano, un divorziato. E perché non un poeta, un artista? E voi, e io, non abbiamo motivi per lamentarci del mondo crudele? Di questo passo, disadattato è chiunque. Ma se interpretiamo la legge in modo da autorizzare i “disadattati” a uccidere e cavarsela con poco, come può sentirsi sicura la società?

    Insomma: questo modo di amministrare la giustizia sa un po’ di stato etico. Come se lo scopo del codice penale fosse compilare pagelle. Come se i cittadini fossero fanciulli da educare a forza di premi e punizioni, e ai quali si può perdonare qualche scappatella a condizione che siano puri di cuore (a giudizio del papà o di chi ne fa le veci). Ma così si comportano le Chiese e le teocrazie, che non sono tanto interessate a giudicare i fatti quanto a formare le coscienze. Lo stato non può e non deve mettersi su questo piano.

    Lo stato esiste per difendere la generalità dei suoi membri dalle violenze interne ed esterne. Dalle violenze esterne con la diplomazia e con l’esercito. Dalle violenze interne con la legge, la polizia e la magistratura. E ciò che conta non è la disposizione d’animo di chi usa violenza. Ciò che conta è il fatto in sé. Se Tizio commette un omicidio, la società non lo mette in galera perché è brutto e cattivo, ma per difendersi da uno che potrebbe uccidere ancora.

    Vorrei citare un caso esemplare. Interpretando la legge con criteri sempre più soggettivi, si è arrivati a considerare la pena in funzione della riabilitazione come se quest’ultima fosse qualcosa di scontato (perché tutti gli uomini sono buoni) e non un obbiettivo difficile e spesso impossibile da conseguire (perché il male si può combattere ma non si può estirpare). Grazie ai criteri sempre più soggettivi con cui si valuta la riabilitazione dei delinquenti, un mostro come Izzo, il massacratore del Circeo, ha potuto uscire di galera e uccidere ancora.

Si risponde: statisticamente, fra tutti coloro che usufruiscono della semilibertà sono relativamente pochi quelli che ne approfittano per commettere altri reati. Sarà anche vero. Ma chi glielo spiega alle due donne uccise da Izzo?

    Riabilitare gli assassini è utile e desiderabile soltanto dopo che la società è stata messa in condizioni di sicurezza. E questa è una condizione inderogabile che sta a fondamento dell’esistenza stessa della legge. Che senso ha costituire uno stato, promulgare leggi, mantenere polizia, magistratura e istituzioni carcerarie, se poi si lascia che Izzo torni a uccidere? La costituzione non può imporre la riabilitazione del reo anche a costo della vita dei cittadini. Cos’è prioritario, la vita degli innocenti o l’ipotetica riabilitazione dei colpevoli?

 

E questa è la discussione che ne seguì su Lipperatura.

    Interpretando la legge con criteri sempre più soggettivi, si è arrivati a considerare la pena in funzione della riabilitazione come se quest’ultima fosse qualcosa di scontato (perché tutti gli uomini sono buoni) e non un obbiettivo difficile e spesso impossibile da conseguire (perché il male si può combattere ma non si può estirpare)

    Che la pena sia funzionale alla riabilitazione non è il risultato di un’interpretazione soggettiva, è scritto nella Costituzione, e più in generale nella storia del diritto. Il diritto non prevede, neanche implicitamente, che gli uomini siano buoni in natura: se così fosse, per inciso, sarebbe legittimo eliminare le “mele guaste” che infettano quelle buone. L’alternativa è la legge del taglione. Rovesciando la domanda: la pena come restituzione della sofferenza accresciuta di un surplus di dolore ha ottenuto, in passato, qualche risultato nell’estirpare il male?

    La costituzione impone forse la riabilitazione del reo anche a costo della vita dei cittadini? Cos’è prioritario, la vita degli innocenti o l’ipotetica riabilitazione dei colpevoli?

    Questa è una vera sciocchezza. L’eventuale danno per gli innocenti non è contemporaneo, ma successivo alla scarcerazione: dunque l’alternativa non sussiste, a meno che il giudice non possegga la sfera di cristallo. Izzo ha commesso un crimine efferato tanto quanto quello degli incensurati condomini di Erba, mentre efferati ex-assassini a distanza di vent’anni sono completamente diversi da quello che erano “allora”. Francamente il livello mi sembra quello del Sindacato Autonomo di Polizia che accusa “il killer” Sergio D’Elia (che non ha mai ucciso nessuno) di essere libero (perché ha scontato l’intera pena) e reinserito. Ma tutto questo è, scusate, mera accademia. Come se i lavori sul rapporto pena/giustizia di Pasukanis e Foucault non fossero mai stati scritti. Come se nulla fosse stato scritto sull’assoggettamento, sul potere produttivo e non repressivo, sulla difesa della società atraverso la creazione di soggetti/assoggettati, sul potere pastorale che disciplina il soggetto “per il suo bene”, sulle società disciplinari e sulle società di controllo. Come se, per fare un esempio, una coscienza di massa forcaiola come quella che ha sfilato ieri a Milano non sia l’esito di un processo di costruzione di una soggetività dominata da passioni tristi e rancorose, e per questo “spontaneamente” indirizzata e orientata: al cui orientamento contribuiscono anche vicende come quella di Izzo, dallo svolgesi dei fatti al battage giornalistico, ecc. ecc.

Scritto da: girolamo | 27/03/07 a 23:35

 

    Girolamo, forse nello sviluppare il tuo ragionamento hai dimenticato parte di ciò che avevo scritto. Mi guardo bene dall’indicare la pena come restituzione della sofferenza: si tratta al contrario di una misura preventiva che la società adotta contro il rischio di reiterazione del reato (che poi venga commesso anche da incensurati non c’è dubbio, ma questo non significa che la società non debba prendere precauzioni).
Quanto alla tua seconda osservazione, permettimi di rilevare che non dai una risposta alla mia domanda. Fino a che punto la società deve mettere a rischio la pelle dei cittadini onesti inseguendo lo scopo (o a volte il miraggio) della riabilitazione?
Quanto al resto del tuo discorso, credimi: i paragoni con le marce e i pressapochismi lasciali perdere, sono proprio sballati.

Scritto da: riccardo ferrazzi | 28/03/07 a 10:14

 

Girolamo, nun ce so ‘ccazzi. La certezza della pena deve progressivamente sostituire la certezza dell’impunità. E te lo dico dalla TUA sinistra:- /

Scritto da: Lucio Angelini | 28/03/07 a 10:53

 

No Lucio, con la “mia sinistra” un’affermazione che mette in relazione certezza della pena e certezza dell’impunità non c’entra proprio niente. Il solo fatto di mettere in relazione i due termini comporta un’opzione politica chiara, di cui forse tu non ti rendi conto, e neanche Riccardo. Permettimi una premessa di carattere personale, tanto per capire che non sto parlando solo di libri: io in carcere ci ho insegnato, ho lavorato per due anni con una cooperativa che si occupava di creare posti di lavoro per il reinserimento dei detenuti. Io credo di avere una vaga idea di quel che sto dicendo: spero vivamente di non star discutendo, piuttosto, con gente che crede che le celle siano monolocali con la televisione a colori, come una vulgata fascista ripete ossesivamente. Ciò premesso, il fine della pena è il recupero del reo, non la sua punizione. Ripeto, lo dice la Costituzione: puoi non essere d’accordo, in questo caso sposi un’altra idea di giustizia, che è un’idea di destra, che banalizzando (ma lo dice persino Hegel, che con la “mia sinistra” poco c’entra, ma almeno sapeva ragionare) è la legge del taglione (non senti il disagio di pensare una cosa che pensano Borghezio o Calderoli?). La pena ha senso finché il reo è pericoloso per la società. Come si fa a calcolarlo, come si fa a calcolare due, tre, dieci, vent’anni di galera? Trasformando un’esistenza concreta in misura astratta: non a caso questo calcolo esiste da quando si è affermata la società capitalistica, che ha trovato il modo di tradurre in una misura astratta (il tempo di lavoro) un’esistenza concreta, per retribuirne le prestazioni. La certezza della pena è, nel migliore dei casi, un’illusione, e nel peggiore una stronzata ideologica, perché vent’anni piuttosto che due o dieci è una misura astratta tanto quanto il rapporto tra un salario e il valore reale di una prestazione lavorativa: la sua unica giustificazione è la calcolabilità. Diciamo che io tengo Tizio in galera sino a un massimo di vent’anni, perché penso che tanto serva per cambiare uno che ha fatto una certa cosa. Tutte le misure alternative alla detenzione hanno senso nel momento in cui il detenuto comincia a diventare diverso da quello che era: se non è più un pericolo per gli altri, che senso ha tenerlo dentro? È come credere nella legge del Karma ed imprigionare qualcuno per quello che ha fatto in una vita precedente. Se invece la vedi dal punto di vista della società che “dev’essere difesa” (bella frase fascista, scusami ma è così), allora, molto cinicamente e utilitaristicamente, sappi (sono dati ufficiali, ministeriali, e gli ultimi che ho consultato risalgono al ministero Castelli, quindi non c’è rischio che siano falsificati a favore della “mia parte”) dicono che non solo la quasi totalità dei detenuti in permesso rientrano tranquillamente all’ora prestabilita (ma tu hai mai sentito un telegiornale dirti che «anche oggi 9.999 detenuti sono rientrati in cella alle 20 di sera»? No, però se uno non rientra fa subito notizia), ma, soprattutto, che il numero di detenuti che attraverso un complesso di leggi (dal lavoro interno a quello esterno, dai corsi di studio in carcere ai permessi, ecc.) si reinseriscono e non delinquono più una volta scontata la pena è molto più alto di quelli che non delinquevano più quando c’era la certezza della pena. Come mai? Perché la galera senza alternative sarà certa, ma ti rilascia in uscita lo stesso delinquente che ha preso in consegna, ed anzi se qualcosa quel delinquente non sapeva, stai pur certo che lo imparava in galera. Inutile riempirsi la bocca con Izzo: senza la legge-Gozzini di Izzo che, scontata la pena per intero andava a stuprare ed uccidere ce ne sarebbero molti di più. E tanto per concludere: perché si parla sempre di un ex-detenuto come Sergio D’Elia per dire “che vergogna che sia deputato”, e non si fa mai notare che, a partire da un percorso iniziato all’interno della pena (che ha scontato per intero), è diventato, negli ultimi 15 anni, uno degli italiani che più ha fatto contro la pena di morte con l’associazione (conosciuta in tutto il mondo) “Nessuno tocchi Caino”? Cosa tutela più la società, un regime carcerario che permette una simile trasformazione, o uno che lo getta in cella e caccia via la chiave, per restituircelo pari pari come era entrato, magari pronto a fare una rapina in banca non avendo alcuna possibilità di trovare un lavoro ed avendo come unica competenza l’uso delle armi? Eppure di fascisti, dichiarati e mascherati, che urlano al killer all’interno delle istituzioni ce ne sono sin troppi, non ti pare? Non è certo il caso di aggiungere alle affermazioni consapevolmente fasciste anche quelle poco avvedute o dette con poca riflessione.

Scritto da: girolamo | 28/03/07 a 18:20

 

Girolamo. D’accordissimo sul concetto di riabilitazione, ma se qualcuno uccide, stupra, organizza la tratta delle bianche e delle nere, magari minorenni, è bene che abbia modo di riflettere ***almeno per un po’*** sul proprio operato in condizioni di restrizione della libertà, anziché sul divano di casa sua. Tempo fa il Gazzettino intervistò uno dei borseggiatori abituali di piazza San Marco che dichiarò testualmente: “Italiani stupidi, ti prendono e ti rilasciano immediatamente. Con le carte di credito rubate noi mettiamo insieme circa cinquecentomila euro l’anno”. Non trovi sarebbe il caso che questi giovanotti, almeno quando recidivi, stessero qualche mese in galera? Se si sa in partenza che, anche quando colti in flagrante, vi è l’immediato rilascio dopo le solite formalità in questura, è ovvio che la tentazione di approfittare di tanta larghezza di vedute si fa cogente. Detto ciò, va benissimo ogni discorso sulla finalità ANCHE rieducativa, anziché solo afflittiva, del carcere, senza però dimenticare che, come per l’opera educativa, anche quella rieducativa ha bisogno di tempi lenti, per essere efficace. Ammetterai che il pentitismo del giorno dopo è un’autentica presa per i fondelli di chi nutre le più vive speranze nella costante migliorabilità dell’uomo.

Scritto da: Lucio Angelini | 28/03/07 a 20:40

 

Lucio, non ti viene in mente che uno dei discrimini del diritto è: o è meglio un innocente dentro piuttosto che un colpevole fuori, o è meglio un colpevole fuori piuttosto che un innocente dentro? Nel primo caso il diritto si basa sulla presunzione di colpevolezza (io ti accuso, se non puoi dimostrare il contrario resti dentro), nel secondo sulla presunzione di innocenza (sta a me dimostrare che sei colpevole esibendo una prova). Sono discorsi generali, ma il diritto è generale o non è. Che poi ci siano casi particolari che aggirano la norma è un fatto inevitabile: talmente inevitabile che (scusa se ripeto l’ennesima banalità) la vera causa del progresso del diritto è il crimine. Però, tanto per scendere dalle stelle alle strade: perché certi reati creano allarme? Una banda di tagliagole è infinitamente meno pericolosa per la mia vita delle polveri non dico sottili, ma ultasottili che respiro, perché non esiste neanche una norma che imponga non dico di filtrarle, ma addirittura di monitorarle. Un rapinatore a mano armata è molto meno pericoloso di determinati posti di lavoro, ad esempio un cantiere edile: quanti muoiono perché si trovano nel mezzo di una rapina, e quanti muoiono cadendo da un’impalcatura? Eppure il tagliagole e il rapinatore creano allarme. Lo stupro crea panico, e la visione di un extracomunitario viene immediatamente associata alla possibilità di uno stupro; eppure il 90% degli stupratori sono italiani, e il 75% delle donne stuprate sono extracomunitarie: perché le donne italiane non si sentono rassicurate dall’aumento degli extracomunitari, dal momento che vengono sospinte sempre più ai margini dell’area di rischio-stupro, focalizzandosi la violenza maschile sulle donne straniere? Non ti viene in mente che ci sia una palese forbice fra lo stato reale – ma non visibile – delle cose e la capacità di indurre panico sociale? E non sarebbe meglio (come fa Bifo da vent’anni) concentrare le nostre energie sulla produzione di allarme, di panico sociale, di passioni tristi, piuttosto che prendere per oro colato la descrizione mediatica del mondo?

Scritto da: girolamo | 29/03/07 a 00:13

 

Girolamo. Stavolta sei tu a menare il can per l’aia. E’ vero che non esistono i Buoni e i Cattivi in assoluto, che Nessun Uomo è un rottame eccetera, in compenso esistono fior di mascalzoni pronti a commettere ogni tipo di reato pur di aumentare la propria libertà a spese di quella degli altri. Tali individui vanno puniti con appropriate pene detentive, associate fin che vuoi a programmi di recupero. Il che non significa affatto che auspico attutire l’allarme sulle polveri sottili e sulle morti bianche. Anzi, auspico il contrario.

Scritto da: Lucio Angelini | 29/03/07 a 07:02

 

Non è bello ripetere il già detto, ma a volte non si può farne a meno. Il post parte dalla constatazione degli elementi soggettivi via via introdotti nell’interpretazione della legge e mette in guardia dal possibile stravolgimento degli obbiettivi stessi del contratto sociale. E conclude con una domanda alla quale non so dare una risposta (non l’ho trovata neanche nei commenti): se lo scopo dello stato è la sicurezza dei cittadini, fino a che punto lo stato può mettere a rischio la loro vita? Il doveroso tentativo di rieducare i rei può essere considerato prevalente sulla tutela dell’incolumità dei cittadini? E se sì, perché? La risposta, trattandosi di un principio, addirittura un principio fondativo dello stato, non può venire dalle statistiche (anche questo era già detto nel post).

La giusta osservazione che è meglio un delinquente in libertà che un innocente in galera si riferisce a come deve comportarsi il giudice in presenza non di valutazioni soggettive, ma di dubbi fattuali. In dubio pro reo. Ma non stiamo parlando di questo.

Hegel lo lascerei stare. Visto come la pensava sullo Stato, temo che risponderebbe alla mia domanda qualcosa del tipo: lo stato può pretendere la vita dei cittadini solo per difendere se stesso.

In conclusione, non ho risposte. Ma resto del parere che l’esistenza stessa dello stato richieda la certezza del diritto, e che la certezza del diritto debba essere fondata su elementi oggettivi.

 

Tiziana Cera Rosco

da Gli Argonauti – antologia edita da Archivi del ‘900 – Milano 2001

 

[Cammini con un coro in bocca.

Dei tuoi vestiti dispari e senza armadio

hai scelto, sinfonica, il nono

il solo che non dia l’assenso

all’angelo bollito.]

 

Presto non vorrai più ali.

 

Da ciò che è sempre tuo

scrosterai le seconde volte

il chinare in pieno seno sulla lancia

– l’aceto è da evitare

              lo sai

l’aceto che scorre torrenziale dal costato

l’aceto del non aver amato –

Ritorni alla bussola vergine del primo grido.

 

Presto annullerai il mondano.

 

Fare un salto

come Dio un comandamento

e il tuo Sinai è precorrere la morte.

L’estasi è ciò che sai e attendi.

L’estasi, l’estasi è prima.

 

Presto sarai tra gli uomini

la sola esistenza del canto.

 

 

 

Tiziana Cera Rosco

Da Il Compito, Niebo, La Vita Felice 2007

 

Voglio sbatterti il viso sulla pagina
il tuo viso arrivato in picchiata in mezzo ai rami.
Voglio bloccartelo in apnea
nella garza sterile di questa carta H2O.
Come se il tuo grido da schiantato
fosse tutta l’armatura del tuo corpo
la pelle tesa di desideri tirati ad osso.

Voglio che tu stia stordito nella conca
nel cavo agro della bocca
come la tua parola che scava e scava
coi suoi speroni di stelle
il mio palato di seppia
il mio palato di uva buia.

Voglio premerti con un colpo e una spinta
farti vedere dove vivo
dove sono i miei sigilli
tutti i bulbi dell’orto.
E dopo averti sbattuto alla campana
ritornarti la tua parola illesa
quella che non valeva un assassinio
che non era abbastanza in vita.
Dirti con voce di torcia, la nera
che devi temere le capsule da scoppio
che porto in pieno petto.
Non sono la regina di nessun oro di bologna.
Sono la torre da cui stai per cadere
la torre spinata
sopra un castello di 33 vertebre roventi.

 

 

                               La scoperta dell’acqua calda

 

    In questi giorni di feste ho letto il saggio di Bryan Ward-Perkins La caduta di Roma e la fine della civiltà – Ed. Laterza. Il 6 gennaio il Corriere l’ha recensito a tutta pagina.

    Sono rimasto sorpreso nel leggere (e la recensione lo conferma) che da venti o trent’anni, soprattutto in America (ma, ahimé, non solo), è in atto una revisione della storia: sarebbe ormai comunemente accettato che dalla caduta dell’impero romano fino all’incoronazione di Carlomagno non ci fu decadenza, ma solo un pacifico trapasso da una forma di società a un’altra. Le invasioni barbariche non sarebbero state aggressioni armate, devastanti e sanguinose, ma pacifiche migrazioni di brava gente accolta a pacche sulle spalle e subito integrata.

    Non so chi abbia dato la cattedra universitaria a persone capaci di sostenere idee così stravaganti ma, a quanto pare, la madre dei cretini è sempre incinta. Siamo arrivati al punto che un archeologo serio è costretto a scrivere un libro per spiegare che dall’anno 500 in poi spariscono i reperti di vasi e tegole, mentre fino a pochi decenni prima ce ne sono così tanti da non poterli classificare tutti (e da innalzare il Monte Testaccio). I pochi manufatti databili in epoche posteriori al 500 sono scarsi e di infima qualità, ma soprattutto si tratta di roba prodotta sul posto, il che significa che non esistono più le manifatture specializzate né tantomeno il commercio. Fino al IV secolo è normale trovare in Francia, Spagna e Inghilterra manufatti provenienti dalla Tunisia o dall’Egitto. A partire dalla fine del V secolo non si trovano più vasi di coccio e resti di tegole, non si edificano più costruzioni degne del nome di architettura, con muri e tetti in laterizio, le terme vanno in disuso, i solai crollano, le condutture degli acquedotti si intasano, le miniere sono abbandonate, i pochi manufatti in ferro e piombo provengono chiaramente dalle armature di edifici antichi smantellati. 

    Ma c’era bisogno di campagne di scavi per avere queste conferme? È proprio nei tre secoli dal 500 all’800 che il latino si frantuma nei diversi volgari e nascono l’italiano, la langue d’oc e langue d’oil. E perché diavolo si sarebbe verificato un simile fenomeno? Se le invasioni barbariche fossero state solo dei pacifici stanziamenti, i commerci sarebbero continuati, la civiltà romana avrebbe integrato visigoti, ostrogoti e longobardi, e la lingua si sarebbe evoluta ma non corrotta.

    Una lingua si frantuma quando le comunicazioni si rarefanno, quando viaggiare diventa impossibile. Le strade romane, che esistono ancora oggi, erano transitabili anche nell’alto medioevo, ma ad ogni miglio c’era un brigante che pretendeva il pedaggio (se addirittura non ti sgozzava). Esercito e polizia non esistevano più. L’organizzazione statale dei regni barbari non era in grado di garantire l’ordine pubblico. Le città si spopolarono perché non esistevano più i servizi minimi. La gente andò a vivere nelle campagne per procurarsi da mangiare e per sfuggire agli assedii, ai saccheggi e alle pestilenze.

    Per decine di generazioni questi contadini improvvisati rimasero ai margini della civiltà, cibandosi di ciò che producevano i campi e morendo di fame durante le carestie. Tornarono all’età della pietra. Si vestirono di pelli perché non conoscevano l’arte di filare e tessere, chi la conosceva non disponeva della materia prima e comunque non avrebbe potuto vendere i suoi prodotti a una clientela distante e dispersa. Complessivamente, la popolazione (forse) diminuì per le guerre, le razzie, le pestilenze, la malnutrizione e la più totale inosservanza dell’igiene, ma certo si redistribuì dalle città alle campagne. Senza contatti con le città (che si spopolavano sempre più), i superstiti dimenticarono la tecnologia e la geografia. I pastori del Poitou, della Castiglia e del Kent, ma forse anche quelli degli Abruzzi, persero il ricordo persino del nome di Roma.

    La fine dei commerci ebbe luogo nel giro di una cinquantina d’anni tra il 450 e il 500, e provocò fallimenti a catena nelle fabbriche di vasi e di tegole, nelle filature, tessiture e tintorie, nelle fabbriche d’armi, nelle concerie. Tutto questo ebbe un’unica causa: l’insicurezza e lo stato di guerra continua. Da quando i Vandali si impadronirono della Tunisia anche i commerci fra l’Italia e l’Africa cessarono. Il crollo dei commerci via terra fu così drammatico e irreversibile che non è un caso se le prime a uscire dal baratro del medio evo furono le repubbliche marinare, utilizzando un’altra via di comunicazione.

    Una tradizione amministrativa che, malgrado il crollo dell’impero, avesse continuato bene o male a funzionare, seppur sotto diversi regimi, avrebbe consentito la continuazione dei commerci. I contatti fra Italia, Francia, Spagna e Inghilterra non si sarebbero interrotti e il latino sarebbe rimasto la lingua franca dell’Europa occidentale; si sarebbe evoluto, certo; avrebbe dato origine a dialetti così come accade oggi all’inglese e allo spagnolo; ma sarebbe rimasto sostanzialmente integro, con punti di riferimento certi come Oxford e Salamanca. Se ciò non è successo è perché la guerra si protrasse per secoli, con successive invasioni devastanti. Solo uno stato di guerra totale poteva distruggere la struttura produttiva e distributiva dell’impero romano.

    Bisogna essere americani, e anche un po’ fessi, per non capirlo. 

 

 

                                                 Bestsellerologia             

                                                     

    Il consenso del pubblico non garantisce la qualità di un libro, ma come si fa a farne a meno? Deve essere per questo che gli “intellettuali” storcono il naso davanti ai bestseller: per un complesso di inferiorità, perché è fastidioso apparire meno capaci di un onesto artigiano che ha imbroccato la storia giusta.

    In ordine di tempo, l’ultimo “scandalo” è La solitudine dei numeri primi, che sta per tagliare il traguardo del milione di copie con grande giubilo del suo editor Antonio Franchini e altrettanto disdoro di mille aspiranti scrittori che fanno fatica a pubblicare (e quando pubblicano non vendono).

    Il problema, nella sua intrinseca comicità, presenta anche qualche aspetto serio. Non ho letto La solitudine ecc. e non so che cosa dirne, ma è verissimo che la maggior parte dei best seller non sono capolavori, così come è un fatto che fior di autori di livello non hanno mai avuto tirature proporzionate ai loro meriti. Eppure, che senso ha un’opera d’arte che parli solo a quattro gatti? Le tragedie greche erano seguite da un’intera città che ne discuteva per anni e andava al mercato fischiettando le melodie dei cori. Oggi, se in ufficio, intorno alla macchina del caffè, capita di fare quattro chiacchere sull’argomento libri, sarà soltanto a proposito di Wilbur Smith o di Clive Cussler (onesti mestieranti che brillano per una totale assenza di talento). Come mai?

    Fra gli intellettuali circolano spiegazioni di questo genere: i lettori sono scemi e/o gli editori sono briganti. La tesi si sviluppa più o meno così: “(Cara signorina Cuorinfranti,) i miei amici (= io) scrivono dei capolavori; se nessuno li legge, chi l’ha detto che il problema stia nei libri? Non potrebbe essere colpa dei lettori o degli editori?”

    Questa tesi raccoglie facilmente un certo numero di consensi. E si capisce perché: se “gli altri” sono scemi, vuol dire che “noi” siamo intelligenti. Gli “intelligenti” condividono, approvano, si autocommiserano e tutt’al più si dividono sui dettagli: qualcuno subodora congiure politico-finanziario-editoriali (tese a pubblicare soltanto porcherie con il dichiarato scopo di rincoglionire il pubblico); qualcun altro accusa i lettori di essere costituzionalmente pochi e ignoranti (e giù analisi sociologiche: è colpa della scuola, del ’68, del ministro Tizio, della riforma Caio).

    Nell’abisso della mia pochezza, io resto convinto 1) che fra gli editori, i critici, gli scrittori e i lettori italiani contemporanei ci siano gente in gamba e gente che vale poco, nella stessa proporzione di sempre; e 2) che nei suoi otto secoli di storia la letteratura italiana ha avuto periodi durante i quali non ha prodotto niente di importante e potrebbe benissimo averne altri.

    Queste mie convinzioni devono essere particolarmente difficili da analizzare/confutare, perché altre volte le ho esposte su blog e forum e, pur tra parecchi commenti, non ho mai ricevuto contributi specifici su questo punto. Forse sono stato considerato troppo cinico per meritare una critica.

    Ebbene, solo e cinico come sono, quando leggo i best seller cercando di capire se il giudizio del pubblico presenta qualche costante, mi convinco se non altro di una cosa: il successo di un libro non ha niente a che fare con il “messaggio” che l’autore tenta disperatamente di far passare. I libri – udite, udite – vengono letti se promettono di svelare un mistero. E il mistero va collocato in luoghi fascinosi, in epoche più o meno storiche, oppure in una vicenda di sentimenti trasgressivi. Ma le scene d’azione, le ambientazioni esotiche nel tempo e nello spazio, le spiegazioni storiche o scientifiche, servono solo di contorno: sono accessori il cui scopo è mantenere vivo un interesse superficiale da parte del lettore (cioè: fargli passare il tempo, fare in modo che vada avanti a leggere).

    Del cosiddetto “messaggio” ai lettori non gliene può importare di meno. Nel Nome della Rosa chi se ne frega della filosofia di Guglielmo da Baskerville? Il lettore vuole vedere il cattivone smascherato e messo alle strette, punto e basta. In Va’ dove ti porta il cuore il sentimentalismo programmatico della nonna della Tamaro scorre sulla pelle come l’acqua della doccia: si legge per sapere chi è figlio di chi, e come ci si è aggiustati in famiglia.

    In Q il protagonista cerca la rivoluzione e colleziona un insuccesso dietro l’altro finché, sentendosi braccato, si imbarca per Costantinopoli (dove la rivoluzione se la potrà scordare in saecula saeculorum). È stato il messaggio rivoluzionario a far vendere duecentomila copie? Neanche per sogno. Si legge per sapere chi è Q (ricavandone scarsa soddisfazione perché Q è Q, e stop). Il mistero si stiracchia per 600 pagine, ravvivate di tanto in tanto da intrighi e massacri, ma noiosette negli intermezzi tra una disavventura e l’altra. Dal punto di vista narrativo, la rivoluzione è quasi controproducente: ciò che fa leggere fino in fondo non è il “messaggio”, è soltanto la voglia di vedere “come va a finire”. 

 

                                      Il romanzo è morto!

 

    Più leggo romanzi e più mi convinco che, oggi come oggi, non ha senso parlare di narrativa di genere perché i generi letterari si sono ridotti a due: il mistery e il viaggio iniziatico/caccia al tesoro. E se questo è vero c’è da domandarsi come mai.

    Qualcuno si attarda ancora a filosofeggiare sul ruolo delle correnti letterarie, o a lanciare manifesti di questo e di quello, o a teorizzare gli intellettuali alla guida della pubblica opinione. Io no. Potrò apparire sacrilego ma sono e resto convinto che, per quanto ci si affanni a pontificare, sperimentare, provocare, gli indirizzi della narrativa sono determinati dai lettori per il semplice motivo che, se un libro non piace, non si vende.

    Grazie al cielo, non siamo ancora arrivati agli intellettuali stipendiati dallo stato (anche se la tentazione è latente) e l’editoria cartacea è impostata come quella cinematografica: se certe tematiche non interessano al pubblico, editori e produttori ne stanno alla larga. Viceversa, se una certa tematica incontra il favore del pubblico, editori e produttori ci insistono sopra fino alla nausea. (Ricordo l’indigestione di commedie sexy degli anni ’70: riuscì a farmi venire a noia perfino una gnocca come Edwige Fenech!). Così vanno le cose, e il risultato è che per ora “tirano” il giallo e il noir. Poi si vedrà.

    Dunque, piaccia o non piaccia, quel che oggi i lettori pretendono da un libro è la presentazione di un mistero con relativa soluzione. Può essere una soluzione positiva, del tipo “il colpevole è il maggiordomo!” – e allora siamo nel giallo; oppure una soluzione del tipo “il bello della caccia non è la preda ma la caccia in se stessa” – e allora siamo nel viaggio iniziatico.

    Quello che latita è il romanzo ottocentesco, basato sui grovigli di sentimenti e articolato sul modello della tragedia. Come mai è quasi sparito? Chissà. Può darsi che tutti i meccanismi dei sentimenti siano stati ormai sviscerati e non sia rimasto più niente da frugare. O forse i contemporanei, invece di leggere storie di corna, preferiscono viverle. Oppure, visto che certe trasgressioni non sfociano più in duelli, omicidi e suicidi, gli scrittori hanno il dubbio che il puro e semplice racconto dei tradimenti di marito e moglie rischi di risultare squallido (o magari involontariamente comico). Sia come sia, il romanzo tipo Madame Bovary o Anna Karenina è morto e sepolto. Riposi in pace.

    Quel che non è morto affatto è il desiderio di spiegazioni, per così dire, metafisiche. Per esempio, spiegazioni di questo tipo: i romanzi di Emma Bovary e di Anna Karenina si chiudono con un suicidio, ma perchè? I tradimenti di Emma traggono origine solo dalla sua stupidità (e dalla mediocrità di suo marito)? E la vita di Levin (bravo giovine che si macera nelle domande esistenziali) ha davvero più senso di quella di Vronski (rubacuori che si redime con un mal di denti e una spedizione militare)?

    Ormai, anche se non se ne rendono conti, i lettori di narrativa si aspettano risposte a domande di questo tipo. Ebbene: c’è modo di coniugare il giallo, il noir, il viaggio iniziatico, con la domanda inespressa dei lettori?

    Il giallo classico, sia quello di Sherlock Holmes che quello dell’87° distretto, è diventato un sottogenere ad uso ferroviario. E si capisce perché: il resoconto di un’indagine si presta poco e male alla metafisica, visto che le domande sottostanti sono di una banalità sconfinata. Tizio ha ucciso Caio? Come mai? Per fregargli un milione di dollari. Stop. Cos’altro volete domandarvi?

    Probabilmente questo è il motivo per cui il noir ha avuto una stagione di gloria: ha illuso i lettori di andare alla ricerca di spiegazioni più profonde. Ma non pare che ne abbia trovate e sospetto che anche il noir, uscito dalle edicole delle stazioni, presto o tardi ci tornerà. 

    Invece il viaggio iniziatico, che spazia dai vertici di Wilhelm Meister fino alle paludi del Codice da Vinci, funziona sempre. Si può ammantare da romanzo rosa, da romanzo storico, o da quel che vi pare. Funziona. Il suo unico limite è che quando ne hai scritto uno non puoi più scriverne un altro: o ti smentisci o ti ripeti.

    La strada battuta dai migliori è la fusione di viaggio iniziatico e noir. In fondo, un’indagine è una specie di viaggio (e viceversa). Ma, come sempre, in cauda venenum. Se scopriamo chi è il cattivone e facciamo in modo che l’eroe lo uccida in uno scontro a fuoco nelle ultime pagine, diciamo ai lettori che non esiste il delitto perfetto, che la giustizia trionfa sempre, ecc. ecc. Invece lo sappiamo tutti come stanno le cose nella realtà: nessuno sa chi ha ucciso Simonetta Cesaroni né Alberica Filo della Torre; i prossimi processi sugli omicidi di Perugia e di Garlasco promettono di non soddisfare mai del tutto. Guardiamoci negli occhi: scrivere romanzi in cui si scopre il colpevole e la giustizia trionfa significa dare una risposta ipocrita alla domanda di rassicurazione dei lettori.

    E allora come si fa? Siamo in un bel guaio. O ci dedichiamo a scrivere favole o rinunciamo a essere pubblicati.

    Ma è poi così necessario che l’indagine/caccia al tesoro si concluda in modo vittorioso e consolatorio? A rigor di termini, direi di no. Nel contratto che stipulo con i lettori è inteso che io debba interessarli, non che gli debba dare anche lo zuccherino del lieto fine.

    Eppure gli esempi a sostegno della mia tesi sono veramente pochi. A tutt’oggi, Il falco maltese di Dashiell Hammett è (credo) l’unico caso di noir-viaggio iniziatico che si concluda facendo scoppiare la bolla di sapone e lasciando i lettori senza eroi e senza tesoro. Può darsi che ci sia stato qualche altro tentativo in questo senso, ma non mi pare che abbia riscosso un particolare successo. Come mai?

    Può darsi che dopo aver letto Il falco maltese tutti gli scrittori di livello abbiano pensato che meglio di così non si poteva fare e abbiano rinunciato a usare lo schema dell’intrigo che scoppia come una bolla di sapone. Ma può anche darsi che ci abbiano rinunciato perché si tratta di uno schema troppo difficile: il solo fatto che un libro si presenti come romanzo, e cioè come una storia inventata, fa sì che il lettore si prefiguri uno svolgimento di tipo favolistico, tutto buoni sentimenti, morale e consolazione.

    Purtroppo la realtà non ha mai un lieto fine (e quando ne ha uno, è effimero). Scrivere in modo realistico significa deludere il grande pubblico e puntare a vendere non tante copie tutte in una volta, ma un certo numero per tanti anni. Insomma, significa puntare non al bestseller, ma al longseller. Scrivere un romanzo senza lieto fine significa avere una fede smisurata nella possibilità di essere riletti e rivisitati a venti, trenta, cinquant’anni di distanza, dato che solo una giusta distanza temporale permette di valutare un libro per ciò che c’è scritto (e non per quante copie ha venduto). Ma questo agli editori interessa poco (e riconosco che, se fossi editore, interesserebbe poco anche me).

    Intendiamoci: questa è la mia opinione, ma non posso giurare che le cose stiano esattamente così. Non ho prove. Tutt’al più posso attirare la vostra attenzione su un dato di fatto: gli autori di gialli e noir sono migliaia, ma solo pochissimi (meno di una decina) vengono ristampati a venti, trenta, cinquant’anni di distanza. E dovrà pure esserci un motivo.

 

                                 Viva le scuole di scrittura!

 

    Un vento rabbioso sibilava tra i rami nudi delle querce centenarie strappando loro a ogni folata le ultime foglie secche e portandole lontano a turbinare in fondo alla valle scura.

 

    Questa frase l’ho trovata a pagina 89 di un libro pubblicato da Mondadori nell’ottobre 2008: l’ho acquistato due settimane fa, quando era già all’ottava ristampa. Non dirò il titolo e non svelerò l’autore (perché, tutto sommato, mi è simpatico e mi è dispiaciuto vedere che scrive così male): dirò soltanto che non si tratta di Eugène Sue né di Carolina Invernizio, ma di un nostro contemporaneo specializzato nel filone della storia romanzata.  

    È l’invidia patologica nei confronti dell’autore di successo che mi fa affermare che il libro vende bene grazie all’argomento e nonostante il modo in cui è scritto? Mah. Non so. Dite voi. Ma, abbiate pazienza, come si fa a scrivere che il vento è “rabbioso” e che “sibila”, che le querce sono “centenarie”, che le foglie sono “ultime” e “secche”? E dove vanno a finire queste foglie? “Lontano”, “in fondo alla valle”. E com’è la valle? È “scura”. Lo ammetto: già non sopporto i sostantivi obbligatoriamente seguiti da un aggettivo, quando poi l’aggettivo è banale vengo preso dalle convulsioni.

    Questo sfogo ha lo scopo di ribadire la mia convinzione che i libri si vendono perché tutto quel che i lettori vogliono sapere è “come va a finire”, e se ne fregano se il “messaggio” è inesistente, se lo stile fa pena, se il testo contiene svarioni o vere e proprie cazzate. (Non posso fare a meno di ricordare un romanzo di Dickens – mi pare che sia Casa desolata – in cui un personaggio muore per autocombustione!). Commercialmente parlando, il libro dal quale ho tratto l’infelice esempio citato va benissimo. Ma è lecito domandarsi se uno stile così sbrindellato non danneggi, se non altro, il buon nome dell’autore e dell’editore?  

    Quanto all’editore, immagino che il dattiloscritto non sia neanche stato letto: il nome dell’autore garantiva da solo un certo numero di copie, e di cos’altro c’era da preoccuparsi? Me le immagino le riunioni in casa editrice, le mail scambiate, le telefonate: si sarà discusso dell’argomento, dell’intreccio, di quali figure storiche mantenere e di quali personaggi fittizi introdurre. Poi, il testo, sì vabbe’, sarà la solita broda, chi se ne frega.

    Quanto all’autore, non riesco a concepire come e perché un essere umano dotato di rispetto per se stesso possa scrivere frasi come quella; ma posso almeno consigliargli una scuola di scrittura? Sarebbero soldi ben spesi, se non altro per sentirsi esortare con qualche autorevolezza a stare alla larga da avverbi e aggettivi. Vorrei davvero, per la simpatia che mi ispira chiunque si interessi all’antichità classica, rivolgergli queste accorate parole:

    Creda, gentile dottore, non perderebbe neanche una copia venduta se, prima di inviare i suoi testi alle stampe, li rileggesse provando a:

    1) Cancellare senza pietà tutti gli avverbi e tutti gli aggettivi.

    2) Se, così mutilata, la frase non sta in piedi, sostituire i verbi e i sostantivi con altri più specifici.

    3) Solo a questo punto, se proprio non se ne può fare a meno, reintrodurre l’aggettivo o l’avverbio. Ma sempre a malincuore e avendo cura di sceglierne uno non banale.  

    Le garantisco che il risultato sarà più che proporzionale al tempo dedicato al lavoro di rifinitura. Può darsi che questa fatica non le procuri neanche una copia in più di quante ne venderebbe con un testo sciatto (e un bel po’ di lavoro in meno), ma in compenso – incredibile dictu! – potrebbe perfino capitare che i suoi libri vengano ristampati per anni e anni fino a costituire una forma di previdenza integrativa. 

    Certo, non vale la prova contraria. Uno può scrivere curando il modo di esprimersi e non trovare un editore perché gli argomenti di cui si occupa non sono abbastanza commerciali. Pazienza: a questo non c’è rimedio. Ma lei, grazie al cielo, non corre questo rischio; lei ha trovato un filone che riscuote l’interesse del pubblico. So che mi perdonerà se mi sono permesso di criticare il suo modo di raccontare. Cosa vuole, la mia anima di ex imprenditore ex bocconiano subisce travasi di bile quando vede sfruttare malamente una miniera d’oro.                                              

 

                                           Medio Oriente

 

    E per l’ennesima volta ci risiamo. Stavolta è Israele che ha scatenato una repressione a Gaza. Ma è sempre la stessa storia: uno provoca, l’altro risponde, il mondo si allarma, l’intellighenzia nazionale si indigna. Eccetera, eccetera, eccetera. Dopo un paio di settimane nessuno ci pensa più: c’è il Festival di Sanremo.

    Quattro anni fa mi ero permesso di scrivere: Per quel poco che conosco arabi e israeliani, non posso essere ottimista. Finché vivrò, e ancora per chissà quanto tempo dopo la mia morte, non ci sarà pace in Medio Oriente. Potranno esserci tregue, ma la pace no. Tanto vale saperlo e attrezzarsi.

    Vedere periodicamente nei fatti la conferma della mia previsione non mi rallegra neanche un po’. Avrei preferito sbagliarmi. Però la situazione è quella che abbiamo davanti e tutto ciò che si può fare è ragionarci sopra, non per proclamare come le cose dovrebbero essere, ma per vedere come stanno

    Inviare ragazzi in missione suicida a farsi esplodere fra i civili avversari o nascondere le rampe di lancio dei missili fra le case dei civili propri va sotto il nome di terrorismo, ma è la stessa cosa che scatenare una rappresaglia indiscriminata. Si tratta sempre di strategie intese a seminare la paura, a intaccare il morale del nemico o a provocare reazioni che possono essere sfruttate per mettere l’avversario dalla parte del torto. La guerra fra israeliani e palestinesi si combatte su molti fronti, comprese le opinioni pubbliche di Tel Aviv e Gaza, ma anche di Teheran, Riyad, Mosca e Washington. 

    E noi? Faziosi e distratti come siamo, ci rifiutiamo di riconoscere che il Medio Oriente è in stato di guerra ininterrotta dal 1946. Giornali e televisioni hanno spacciato per paci quelle che erano soltanto tregue e noi ci abbiamo creduto perché ci faceva comodo.

                                                                ***

    La Palestina è un territorio conteso fin dalla notte dei tempi e affermare il diritto degli uni non significa negare il diritto degli altri.

    Ebrei e arabi sono di origine nomade e pare che provengano dalla Mesopotamia meridionale. Il progenitore comune fu Abramo, che ebbe Isacco da Sara (e da lui vengono gli ebrei) e Ismaele da Agar (e da lui vengono gli arabi). La Bibbia non dice come fu che gli ebrei diventarono schiavi in Egitto. Certo è che, se passarono per la valle del Giordano prima di finire in Egitto, lo fecero sempre come nomadi. Mosé li guidò a occupare la Palestina togliendola ai Cananei (è curioso notare come la storia si ripeta a distanza di millenni). Gli ebrei rimasero in Palestina per alcuni secoli, mai in pace. Furono deportati a Babilonia dagli Assiri. Rientrarono, ma poi arrivò Pompeo a sottomettere la regione. Gli ebrei continuarono a rivoltarsi finché nel 71 d.C. l’imperatore decise di cacciarli dalla Palestina e sparpagliarli per l’impero.

    Queste vicende dovrebbero essere arcinote, ma in realtà non lo sono affatto. Sembra incredibile, ma fra i tanti che strillano c’è chi crede che gli ebrei siano sempre stati in Israele, chi è convinto che non ci siano stati mai, e chi non ne sa un accidente ma strepita lo stesso.

    Partiti gli ebrei, le tribù arabe ripopolarono la regione. Nel settimo secolo, organizzati dai successori di Maometto, gli arabi scacciarono i bizantini e per la prima e unica volta furono padroni della Palestina. Le crociate non cambiarono le cose: gli europei andavano e venivano, i califfi erano sempre là. L’invasione decisiva fu quella dei turchi che nel 1453 occuparono anche Costantinopoli e per cinque secoli sottomisero gli arabi, tutti quanti, dal Marocco all’Eufrate. 

    Probabilmente Inghilterra e Francia non avrebbero colonizzato la Palestina se il Sultano non fosse entrato in guerra insieme agli Imperi Centrali. Fu per creare grane ai turchi che Lawrence d’Arabia svegliò il nazionalismo arabo. Ma a guerra finita gli arabi si dedicarono al loro sport nazionale, che consiste nel litigare dalla mattina alla sera, e così Inghilterra e Francia decisero che tanto valeva colonizzare la regione.

    Intanto gli ebrei sparsi in Europa, erano periodicamente perseguitati e mai visti di buon occhio. I re di Spagna li espulsero. L’imperatore d’Austria li confinò nelle zone di frontiera con la Russia e lo zar fece altrettanto. Solo alla fine del diciannovesimo secolo un certo Herzl lanciò l’idea del sionismo, cioè del ritorno degli ebrei nella terra promessa. Sembrava un povero illuso. Ma quando finì la seconda guerra mondiale e si scoprì la vergogna dei campi di concentramento, gli ebrei cominciarono a emigrare con ogni mezzo. Per convincere gli inglesi a mollare la Palestina dovettero combattere (INSIEME agli arabi) una guerriglia che ebbe molti aspetti terroristici. Però gli ebrei erano ben messi dal punto di vista diplomatico e si sentivano moralmente in credito nei confronti del mondo intero; gli arabi invece non se li filava nessuno.

    Nel 1948 l’ONU sancì la nascita dello stato di Israele. I proprietari terrieri arabi furono sloggiati con le buone o con le cattive. Alla diaspora ebrea si aggiunse una diaspora palestinese. Trent’anni fa, a Madrid, un medico originario della zona di Haifa mi raccontò che la sua famiglia aveva dovuto lasciare casa e terre sotto la minaccia dei cannoni. Gli espropri forzati furono la goccia che fece traboccare il vaso. I palestinesi rifiutarono gli indennizzi e, da allora, tutti gli stati arabi circostanti hanno strumentalizzato la causa palestinese con l’idea di far fuori Israele e spartirsi il bottino. Questo era il piano di Nasser e di Assad le due o tre volte che provarono a combattere contro gli ebrei, ma gli andò male: ne presero tante che ancora adesso gli scricchiolano le ossa. Alla fine dovettero dire ai palestinesi: arrangiatevi. E i palestinesi, senza stato e senza esercito, organizzarono il terrorismo.

                                                         ***

    In conclusione, il conflitto mediorientale viene di lontano: è la creatura del razzismo nazista e del colonialismo inglese. Ma il guaio più grosso è che Israele e la costituenda Palestina sono stati etnici nei quali non è neanche concepibile una convivenza di etnie diverse su basi paritarie. Provate a immaginare una Knesset con un 50% di deputati arabi o un parlamento di Hebron con un 50% di deputati dei coloni ebrei. Non se ne parla nemmeno. 

    In realtà, l’unico modo per far convivere popoli diversi sullo stesso territorio è l’integrazione. Ma il presupposto dell’integrazione è la tolleranza, una merce che in Medio Oriente è drammaticamente scarsa, dall’una e dall’altra parte. Gridare “È colpa degli ebrei!” oppure “È colpa degli arabi!” non serve a niente. Organizzare marce, veglie e quant’altro non farà tornare la pace nell’area. Non c’è una parte “giusta” e una “sbagliata”: tutte e due le parti hanno un po’ ragione e un po’ torto, ma sono culturalmente intolleranti e incapaci di mettere una pietra sul passato. È una maledetta situazione dalla quale non c’è modo di venir fuori.

    È spiacevole dirlo, ma siamo seduti su una bomba che non si può disinnescare. Cerchiamo almeno di non dimenticarlo.

 

 

                                  Ancora sul romanzo

 

    Chi si dedica esclusivamente alla letteratura non smette mai di ragionarci sopra e rischia di perdere i contatti con la realtà.  

    Ultimamente un’amica che lavora otto ore al giorno e quando torna a casa ha una famiglia di cui occuparsi, e nonostante ciò ogni tanto trova il tempo per leggere, mi ha aiutato a chiarirmi le idee su cosa si aspetta un lettore da un romanzo. Secondo me, la sua è una testimonianza preziosissima per i tanti che leggono, scrivono e criticano come se vivessero nell’iperuranio. Per conto mio non rinuncio a scrivere come mi pare, ma voglio usare certe osservazioni, solo apparentemente candide, per farci una specie di esercizi spirituali.

    La mail che ho ricevuto dice:

 

    Come prima cosa, credo che dovremmo definire cosa sia il ROMANZO e quale sia la sua FUNZIONE. Diversamente dal saggio, dal manuale, dalla poesia o da altre forme letterarie, il romanzo ha secondo me, una struttura più “amena”, se mi passi il termine. Di conseguenza la sua è una funzione più “ricreativa” e di “divertissement”, oltre a fornire un ottimo spunto per non pensare alla quotidianità o alla routine (noiosa/ spiacevole/ frustrante/ ecc.)  Partendo da questo presupposto…ognuno è libero di divertirsi come crede.

 

    Molti scrittori e molti critici di fronte a definizioni come questa inorridiscono, si ribellano, lanciano strida e anatemi. Io, dopo matura riflessione, sono del parere che la mia amica non faccia altro che indicare il re, come il bambino della favola, e gridare che è nudo. Ma scusate: perché mai un galantuomo che lavora per tutto il giorno, cinque giorni alla settimana, dovrebbe passare le sue serate o i suoi weekend leggendo una cosa che non lo diverte? Su una popolazione di 60 milioni di esseri umani (dei quali quasi tutti guardano la tv, chi è giovane va in discoteca, qualcuno va ancora al cinema, a teatro o a giocare a carte) secondo voi i pochi che trovano tempo per la lettura cosa cercheranno?

    Chi ha un interesse specifico leggerà un saggio sull’argomento. Chi vuole passare un’ora astraendosi dal quotidiano leggerà un romanzo. Ebbene, tenendo conto di quanto sopra (otto ore al giorno di noia/grane/fatica per cinque giorni su sette): quanti vorranno essere divertiti e quanti invece saranno disposti a immergersi in problematiche quintessenziali raccontate in modo inverosimile e con una scrittura illeggibile?

    Corollario: dopo aver risposto alla domanda precedente, sapreste dire come mai il 99% dei poeti deve pubblicare a proprie spese?

    Naturalmente nessuna legge proibisce di comporre poesie, così come non è vietato scrivere romanzi su problematiche quintessenziali. Ma è bene essere consapevoli del fatto che a comprare questi libri saranno, nel migliore dei casi, due o trecento amici. Il che, dal punto di vista di un editore, non è precisamente il massimo; e questo spiega la maggior parte dei rifiuti editoriali.  

    La conclusione sembrerebbe quanto mai desolante: esiste un futuro (oltre che un presente) solo per i romanzi di Ken Follett?

    No. Non è proprio così: la mia amica prosegue la sua mail.   

 

    come seconda cosa, ora è in voga il genere “sangue e violenza”…brrrrr! Anche io leggo soprattutto gialli e polizieschi (meglio però se non trasudano sangue), soprattutto d’estate o quando non ho molta voglia di “impegnare” il cervello. Diversa soddisfazione ho, ovviamente, leggendo altri romanzi.

 

    Dunque, anche il lettore che chiede innanzitutto di essere ricreato/divertito avverte ogni tanto il desiderio di altri soggetti, altre problematiche. Ma è inutile nascondersi che si tratta di un bisogno minoritario all’interno di una frazione minoritaria della popolazione.

    Sempre cercando di tenere i piedi per terra, si impongono due considerazioni: 1) i lettori ai quali si rivolge il romanzo “di qualità” sono, in linea di principio, pochissimi, 2) perché il romanzo “di qualità” sia venduto in un numero decente di copie si richiede un mix vario e imprevedibile: non basta che la problematica trattata sia coinvolgente, è anche necessario che la vicenda e l’ambientazione si intonino ai gusti correnti.

    Esiste una bussola per orientare gli scrittori in questo senso? No (purtroppo o per fortuna). Le analisi del mercato sono poco indicative: ogni lettore fa storia a sé. La mia amica, per esempio, cita fra le sue letture Asimov e Camilleri da un lato, Lawrence, Verga, Tomasi di Lampedusa e Fallaci dall’altro. Non c’è da meravigliarsi se è un elenco di autori disparati. La mia amica ha letto anche molto altro, ma questi sono gli autori che le sono rimasti impressi. Cosa importa se non hanno niente da spartire uno con l’altro? La quasi totalità dei lettori non ha il tempo di selezionare le sue letture in funzione di questo o quell’indirizzo di critica letteraria: ha altro da fare nella vita. Dalla letteratura cerca uno svago, meglio se intelligente, ma sempre svago. E poi bisogna anche tenersi aggiornati: se un certo romanzo lo leggono in tanti, meglio farlo anche noi. Meglio non vivere nella luna. 

    Del resto, accetto scommesse: andate a curiosare sui comodini di cento lettori scelti a caso e otterrete cento diversi elenchi di autori disparati. Altrimenti spiegatemi chi sono e che fine hanno fatto i lettori dei libri di Bruno Vespa, Sveva Casati Modignani, Wilbur Smith e Dan Brown (libri dei quali si può pensare di tutto e di più, ma che hanno come unità di conto le centinaia di migliaia di copie e con i quali gli editori sono costretti a paragonare ogni manoscritto che capita in lettura). 

    Tirando le somme: probabilmente l’unica cosa che i libri venduti hanno in comune è il divertimento del lettore, qualunque cosa si intenda per “divertimento”. E questo mi porta alla domanda conclusiva: perché diavolo sarebbe obbligatorio concludere una storia con un lieto fine?

    Ecco la risposta della mia amica:

 

    Come terza e ultima cosa, in effetti il lettore “desidera” una “conclusione” del romanzo…e se questa conclusione è felice, meglio ancora. Psicologicamente è abbastanza frustrante leggere 200 o 400 pagine di un romanzo – anche se intrigante – per poi arrivare ad una fine…che non c’è…che lascia cioè la conclusione alla fantasia del lettore. Il lettore ha bisogno di certezze! Scherzo (ma non troppo). 

 

    Insomma: per dire la tua verità, non pretendere che siano i lettori a trarre la conclusione. Digliela chiara e tonda! Se vuoi chiudere una storia con un finale “aperto” devi trovare il modo di presentarlo come una “soluzione”. I lettori non vogliono far fatica e da un libro stampato non si aspettano domande. Solo risposte.  

    Ma è proprio vero? Rhett Butler che prende la porta e manda a quel paese Rossella O’Hara che soluzione è? Il sarcasmo di Tomasi di Lampedusa nel descrivere la famiglia Salina che si disfa tra ipocrisie e bigottismi è una soluzione? E quali liete soluzioni ci propongono i massimi narratori del Novecento (Kafka, Mann, Musil, Pirandello, Gadda, Borges, ecc. ecc.)?

    Secondo me la spiegazione è un’altra e il lieto fine c’entra poco. I libri che hanno successo commerciale sono di due tipi: quelli che si inseriscono nel filone delle mode e quelli che (incidentalmente) ne creano una. I primi vendono milioni di copie in pochi mesi, fanno felici gli editori e dopo un anno nessuno li ricorda più. I secondi sono ogni anno migliaia in manoscritto, un centinaio pubblicati, quasi tutti restano senza seguito. Ma uno ogni trent’anni fa centro.

    Insomma: c’è da vergognarsi ad ammetterlo, ma scrivere con l’idea di comunicare al pubblico qualcosa che ci urge dentro è un po’ come giocare al Superenalotto. Tanto vale saperlo e rassegnarsi a dipendere dalla fortuna. Se scrivere ci piace davvero, non ci fermeremo per questo.  

 

                                        Il caso Wagner

 

    Fra i tanti danni collaterali provocati dal nazismo ce n’è uno al quale, a più di sessant’anni dalla fine della guerra, sarebbe ora di mettere rimedio.

    Il nazismo si appropriò di molti miti, filosofie, estetiche, personaggi. Tra i viventi reclutò filosofi e artisti, come Martin Heidegger e Richard Strauss. Nel pantheon dei defunti (che non potevano certo ribellarsi) scelse Nietzsche e Wagner. Dopo lo sfacelo, tutti subirono la denazificazione ma ognuno ebbe un destino diverso. I filosofi si accorsero che da Nietzsche non si poteva prescindere e, dopo un decennio di damnatio memoriae, tornarono a studiarlo. Heidegger, padre nobile dell’esistenzialismo, passò quasi indenne il dopoguerra e i suoi trascorsi furono messi in questione solo dopo la sua morte. Strauss venne salvato dalla comunità mondiale dei musicisti. Invece per Wagner le cose hanno preso una via traversa e navigano tuttora nell’ambiguità.

    Wagner precursore del nazismo? Mah. Fra tutti i personaggi delle sue opere ce n’è uno solo che si sia prestato alla strumentalizzazione: Sigfrido. E fu una strumentalizzazione piuttosto rozza, circoscritta ai lati più antipatici del personaggio: il suo modo di fare da teppista, la sua assenza di scrupoli, la sua irriverenza gratuita. E per non rischiare di smentirsi il nazismo dovette mettere l’accento sul Sigfrido dell’opera omonima, lasciando in ombra il “Crepuscolo degli dei”, dove il personaggio si umanizza e acquista una dimensione completamente diversa.

    Tra l’altro, strumentalizzare Wagner presentava anche un bel rischio. Tutta la tragedia della Tetralogia nasce dalla maledizione che il nibelungo Alberich scaglia sull’amore, per avere in cambio il potere. So verfluch’ich die Liebe grida Alberich impadronendosi dell’oro del Reno. Non fa venire in mente per associazione automatica un certo Adolf, predicatore di odio e vendetta?    

    Più che di un Wagner precursore del nazismo bisognerebbe parlare di un Wagner preso a prestito da Goebbels e ritagliato secondo le sue necessità propagandistiche. Negli altri personaggi wagneriani, dall’Olandese volante a Parsifal passando per Tristano, Tannhäuser, Lohengrin e Hans Sachs, per vedere qualcosa di nazista bisogna fare esercizi di acrobazia.

    Certo, una colpa Wagner ce l’ha: è l’antisemitismo, e su questo non c’è dubbio perché lui stesso lo mise per iscritto, nero su bianco. Ma per non cadere in una strumentalizzazione a rovescio bisogna inquadrare ogni cosa nel suo contesto. Nella seconda metà dell’Ottocento nessuno pensava a “soluzioni finali”, nessuno parlava di “problema ebraico”. Gli ebrei erano in tutta Europa come cittadini di serie B, ma con un certo numero di diritti. Meno degli altri, di fatto, e qualche volta anche di diritto. Mai visti di buon occhio. Chiusi nei ghetti, sempre sotto l’incubo di essere scacciati o di incappare in un pogrom. Ma non era mai stata affacciata l’idea di uno sterminio. I pregiudizi sul loro conto erano, né più né meno, quelli che Shakespeare mette in scena nel Mercante di Venezia. Ciò che, più di ogni altra cosa, pesava da secoli sulla loro testa era quel terribile versetto del Vangelo in cui la folla grida a Pilato: Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli!

    Wagner assimilò i pregiudizi del suo tempo. Eppure, si dirà, un intellettuale, un artista come lui, non avrebbe dovuto rendersene conto? Probabilmente sì (ammesso e non concesso che noi sappiamo di quali miopie saremo accusati dai nostri posteri). Ma c’era qualcosa, una cosa molto umana, che gli impediva di liberarsi dai pregiudizi: Wagner aveva le mani bucate. E non solo si indebitava con gli usurai ebrei, ma non riusciva a capire perché mai questi noiosissimi gnomi pretendessero la restituzione di capitale e interessi, e arrivassero a pignorargli i mobili, costringendolo a vagare per Germania, Austria e Svizzera alla ricerca di mecenati disposti a saldare i suoi debiti.

    La triste verità è che Wagner era capace di creare capolavori immortali, ma era così innamorato di se stesso da diventare infantile e meschino. Approfittò delle debolezze caratteriali di Ludwig di Baviera fino a rovinarlo. E contro gli usurai ebrei strillava “brutti cattivi!” come i bambini che si vedono negare le caramelle.

    Questo era Wagner: un grande artista e un uomo discutibile. Ma noi, davanti alle opere del suo genio come dovremmo comportarci? Chi se ne frega se era un egoista e un insolente megalomane? La sua musica e il suo teatro sono di un livello straordinario. L’Anello del Nibelungo è un trattato di filosofia in metafora. Tristano e Isotta è la più alta espressione dell’opera lirica, in assoluto. Rifiutarci di ascoltare Wagner non lo diminuisce neanche un po’: penalizza soltanto noi. Non gli facciamo del male: lo facciamo a noi stessi.

    E allora, di cosa ci preoccupiamo? Non andremo mai a pranzo con Wagner. Non saremo obbligati a stringergli la mano. Perché dovremmo rinunciare ad arricchire il nostro spirito ascoltando la sua musica, gustando il suo teatro?

      

                                   Lohengrin, antesignano del “noir”

 

    Uno dice “Lohengrin” e chi l’ha ascoltato anche solo una volta pensa alla musica, così sublime da mettere in ombra il libretto. Eppure è un peccato, perché l’intreccio ha momenti di grande arte drammaturgica e, in più, fornisce lo spunto per riflettere sui rapporti fra “noir” e tragedia.

    Ascoltando il preludio tutto ci si può aspettare tranne che la vicenda si sviluppi con la trama di un “noir”, ma quando si alza il sipario eccoci in piena tragedia: in riva alla Schelda, davanti a due popoli in armi, il conte Telramund accusa Elsa di Brabante di fratricidio. L’imperatore Enrico ordina il giudizio di Dio. Elsa, che nessuno difende, invoca un cavaliere misterioso che ha visto in sogno. Tutti si domandano se non è il caso di chiamare la neurodeliri per ricoverarla d’urgenza in clinica psichiatrica, quando Lohengrin compare su una barca trainata da un cigno e, in cambio del giuramento di Elsa di non chiedergli mai chi è e da dove viene, si dichiara pronto a combattere per lei.

    Si tratta chiaramente di un miracolo, ma Telramund ormai si è impegnato e non arretra: “Meglio morto che vigliacco!” grida, con la mano sull’elsa della spada. È duello. Lohengrin vince facilmente, ma è troppo di buon cuore e risparmia la vita a Telramund. Lo spettatore rimugina che l’ispettore Callaghan non avrebbe mai commesso una simile stupidaggine e già si immagina un secondo round.

    Sorpresa! Le cose non sono così scontate. Non è Telramund il vilain della storia. Anzi, a modo suo, il signor conte è un eroe. Dopo la sconfitta e la perdita dell’onore Telramund vorrebbe sparire, andarsene lontano. Ma la moglie Ortrud, la stessa che l’aveva spinto a denunciare Elsa, lo convince che Elsa ha evocato Lohengrin con un incantesimo. Osservate la finezza psicologica: insinuando che l’avversario ha vinto col doping, Ortrud lusinga l’orgoglio cavalleresco del marito. Telramund può pensare di non aver perduto il duello, ma di essere stato sconfitto slealmente e sarà quindi giustificato se cercherà di riottenere il suo onore con qualunque mezzo.

    Il dialogo Telramund-Ortrud è uno dei capolavori drammaturgici di Wagner. Il conte, ancora sotto lo choc di una sconfitta che credeva impossibile e che gli costa la perdita del suo status, è ridotto a dubitare di se stesso. Proprio facendo leva sui suoi dubbi Ortrud riesce a convincerlo di essere stato truffato e lo spinge a cercare vendetta. In realtà, chi pratica la magia nera è lei, Ortrud, e lo spettatore se ne rende ben conto, mentre Telramund, vittima del suo senso dell’onore, casca nell’inganno come una pera cotta. In ogni modo, anche chi non è incline a magie e sortilegi deve riconoscere la vera natura di Ortrud quando la maga inizia a circuire anche Elsa e, prima di avvicinarla, invoca l’aiuto delle potenze infernali.

    Ormai la tragedia è diventata un “noir”. Suggestionato da Ortrud, Telramund scende tutti i gradini dell’abiezione. Ogni insuccesso lo induce a tentare mezzi sempre più disperati pur di ottenere la sua impossibile rivincita. Cercherà di screditare Lohengrin, e non ci riuscirà. Poi proverà a ucciderlo a tradimento, o almeno a ferirlo (“Se fossi un vero uomo” lo aizza Ortrud, “potresti almeno ferirlo e con un po’ del suo sangue io saprei annullare il suo incantesimo!”).

    Alla fine, quando Telramund lo assale alle spalle, Lohengrin deve ucciderlo, ma la morte del conte non mette fine al conflitto. Ortrud ha avvelenato la vittoria di Lohengrin seminando la gelosia nel cuore di Elsa, che insiste per conoscere il suo mistero, rompe il giuramento e lo costringe a partire. Non si può certo dire che la tragedia abbia un lieto fine: le forze del Bene vincono sì, ma a carissimo prezzo.  

                                                        ***

    Lo schema di questo libretto esce da tutti i canoni.

    È una storia tragica, ma non si può chiamare una tragedia vera e propria: il Bene vince, ma non trionfa; e non vince per l’intervento di un deus ex machina, ma di un personaggio – miracoloso, questo sì – che entra in scena fin dal primo atto.

    È una vicenda consolatoria solo a metà perché è vero che alla fine viene ristabilita la giustizia, ma chi ci è andato di mezzo sono i deboli, mentre la vera carogna, Ortrud, ottiene buona parte del suo scopo.

    È un “noir” perché dice chiaramente che nel mondo reale chi non ha un aiuto soprannaturale deve arrangiarsi alla maniera di Machiavelli: occorre sapere intrare nel male, necessitato.  

    Ma, se pure è un “noir”, manca il solito cliché del “cattivo” che si redime nelle ultime pagine con un gesto eroico; al contrario, qui c’è un “buono” che viene gradualmente pervertito facendo leva sulla sua debolezza (l’orgoglio di essere uomo d’onore), fino a trasformarlo da prode cavaliere a calunniatore, ribelle e assassino a tradimento. E c’è una “buona” che, per debolezza, per gelosia, e in fin dei conti per troppo amore, teme di essere abbandonata e, rompendo il giuramento, costringe Lohengrin a lasciarla davvero.

    La morale di questa favola è che gli esseri umani sono troppo umani e non sanno essere dèi o demoni. Il Bene e il Male sono così esigenti che non c’è modo di soddisfarli del tutto.

    Questo significa andare al di là del “noir”. La vicenda non si limita a narrare il male insito in ogni essere umano (anche nell’uomo retto o nella donna di nobili sentimenti), ma denuncia l’irrimediabile mediocrità degli uomini, inevitabilmente destinati a fallire quando si votano a una causa più grande di loro, tanto nel Bene come nel Male.

    Ai due poli estremi della disumanità, Lohengrin e Ortrud non si combattono direttamente: muovono i loro pupazzi, ciascuno a modo suo, con analoghi risultati. Il Bene avrà motivo di lamentare la debolezza di Elsa nel mantenere i giuramenti, il Male accuserà Telramund di non aver saputo ferire Lohengrin. Il risultato è che la vittoria del Bene è costosa e momentanea: un grande soldato e una donna innamorata devono soccombere, Lohengrin si ritira nel castello del Graal, Ortrud tornerà a tessere le sue trame.

    Anche se è farcita di cavalieri e di cigni, quella che ci racconta Wagner non è una favola: è una dura, fastidiosa verità.

   

                                         Ma cos’è questa crisi?

 

    Nel settembre del 1939, quando la Wehrmacht invase la Polonia, il petrolio era niente più che una materia prima, una delle tante. All’Agip si sapeva che in Libia (e a Cortemaggiore) il petrolio c’era, ma l’investimento necessario per estrarlo, attrezzare terminal portuali e pipelines, raffinarlo e distribuirlo, era ritenuto antieconomico. Perché? Perché la domanda era poca.

    Fino alla fine degli anni 40 la domanda di energia era coperta dalle centrali idroelettriche. Il riscaldamento pubblico e privato, così come la maggior parte dei grandi impianti industriali, funzionava a carbone. Nei primi anni ’50 gli emigranti italiani andavano a morire in Belgio, a Marcinelle, nelle miniere di carbone; negli stessi anni la Comunità Europea nasceva come CECA, Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Il traffico su rotaia era elettrificato per meno di metà e il traffico su gomma era meno di un centesimo dell’attuale (autostrade ne esistevano quasi solo in Germania e percorrerle metteva malinconia: quando incontravi qualcuno ti veniva voglia di salutarlo e fargli festa). Non stiamo parlando dell’Alto Medioevo, ma dell’Europa di cinquant’anni fa.

    Chi è nato negli anni sessanta, settanta, ottanta, non ha mai visto una casa senza frigorifero e caloriferi, non riesce a credere che fossero tutte così fino a poco tempo fa e che le cose siano cambiate improvvisamente nel giro di dieci-quindici anni. Eppure è proprio vero. La ricostruzione postbellica, l’apertura dei mercati, un diverso sistema finanziario internazionale e l’incremento delle vendite a rate misero in moto il boom economico europeo. La domanda di energia esplose.

    Quando il primo ministro iraniano Mossadeq tentò di nazionalizzare l’estrazione del petrolio persiano (era il 1952), parve un sopruso ai danni di chi era andato laggiù a portare capitali, tecnologia e progresso. Ma già nel ‘56, quando Nasser nazionalizzò il canale di Suez e gli anglo-francesi tentarono di riprenderselo con le armi, gli USA li obbligarono a fare marcia indietro: in quattro anni la domanda di petrolio era aumentata al punto che garantire l’approvvigionamento era più importante che tutelare i profitti delle “sette sorelle”. Meglio cedere a Nasser piuttosto che rischiare di alienarsi il mondo arabo (e soprattutto l’Arabia Saudita).

    Alla fine degli anni ‘50 i costi di estrazione del petrolio nell’area del Golfo Persico si aggiravano fra i dieci e i venti centesimi al barile, mentre il prezzo di vendita all’ingrosso era intorno ai tre dollari  (di cui metà era costituito dalle royalties). Negli anni seguenti le royalties salirono dal 50% al 75%, poi gli stati produttori acquistarono gli impianti di estrazione e fecero da sé.

    All’inizio degli anni ‘70 il prezzo del barile salì prima a nove, poi a venti dollari, poi oltre quaranta.

    Cos’era successo? I maggiori paesi produttori di petrolio avevano costituito un cartello (l’OPEC) dando l’avvio a una delle più inquietanti previsioni della futurologia marxista classica: il monopolio mondiale. Le conseguenze, però, non furono marxiste ma keynesiane. L’aumento del prezzo del petrolio provocò, da un lato, l’inflazione e, dall’altro, la scoperta di giacimenti fuori dall’area OPEC.

    L’inflazione soffocò l’economia mondiale e la mandò in recessione per una decina di anni. La scoperta dei giacimenti nel Mare del Nord, nel Golfo del Messico e in Alaska allentò la dipendenza dai paesi arabi. L’OPEC, che alla sua nascita rappresentava quasi il 70% dell’offerta mondiale di petrolio, scese sotto il 40% e dovette fronteggiare il calo della domanda. Il prezzo calò da quaranta dollari (buoni) a poco più di venti (inflazionati).  

    Per quanti complotti siano stati orditi intorno al petrolio, prezzi e quantità sono sempre stati governati dalle due forze che dominano qualunque mercato e che si chiamano domanda e offerta. La storia ci dice che i complotti coronati da successo sono stati quelli intesi a ripristinare condizioni di mercato, mentre i complotti per costituire un monopolio hanno avuto vita breve. Il recente rialzo fino a centoquaranta dollari al barile non è derivato da manovre occulte ma dal decollo economico della Cina, che ha provocato un colossale aumento della domanda, e dalla speculazione sui futures che scommetteva su anni di sviluppo cinese a due cifre. La recessione del 2008 ha sgonfiato la bolla dei futures e ha riportato il prezzo del barile tra i 40 e i 50 dollari.

    L’andamento storico dei prezzi dovrebbe farci riflettere: smettiamola di immaginare complotti più o meno romanzeschi e cerchiamo di prefigurarci i futuri sviluppi sul mercato dell’energia.

    Il frutto sano della globalizzazione dovrebbe consistere nell’estendere lo sviluppo economico alle aree più depresse del mondo: dopo la Cina, l’India e il Sudamerica. Se Dio vorrà, un giorno anche l’Africa uscirà dal circuito della fame. Ma questo non avverrà nell’era del petrolio. Le riserve conosciute dureranno ancora venti o trent’anni. Nel frattempo si scopriranno altri giacimenti: potremmo contare forse su cinquant’anni di autonomia se restassimo fermi sugli attuali livelli di sviluppo. Ma le economie che decollano hanno fabbisogni energetici in crescita esponenziale. Dunque il problema non è tanto il prezzo del petrolio (che, in prospettiva, può solo salire), ma la disponibilità di energia.

    Sarà bene pensare a riscaldare le case, a muovere le automobili e a produrre elettricità in modi alternativi e in quantità sufficiente, e sarà bene farlo alla svelta, prima che il petrolio cominci a scarseggiare. Non possiamo permetterci di fare del conservatorismo di destra o di sinistra. Abbiamo bisogno di guardare al futuro e di pensare in grande.

                                          

                                     Ricordare, dimenticare  

 

    Qualche anno fa, su un muro pieno di manifesti incollati uno sopra l’altro e ormai mezzi stracciati ne ho visto uno che portava due nomi e sotto una scritta che diceva: “Milano non dimentica!”. E ho ricordato che i nomi erano quelli di due ragazzi uccisi durante gli anni di piombo. Erano ragazzi di destra e il manifesto era, immagino, di AN o di qualche gruppo estremista.  

    Mi sono domandato se è più civile ricordare o dimenticare. Mi sono risposto subito: no, ricordare si deve. Altrimenti bisognerebbe dimenticare tutto e tutto insieme: la stazione di Bologna e il rogo di Primavalle, oppure l’olocausto, il gulag e le foibe.

    Questo significa che bisogna ricordare certe cose e certe altre no? Si fa un gran parlare di revisionismo storico, ma è una faccenda che sinceramente non ho ancora capito. Uno storico scova documenti che, per esempio, mostrano un lato poco piacevole di un “padre della patria”. Mai una volta che si legga una smentita con altri documenti che dicano il contrario, oppure una dichiarazione del tipo: “Sì, Tizio era anche questo. E allora?”. Nessuno oppone documenti a documenti, nessuno è disposto a contestualizzare i miti. Invece ci si indigna, ci si stracciano le vesti perché, in buona sostanza, si pretende che la storiografia non intacchi il marmoreo monumento che ci è stato consegnato dalla cronaca.

    Dunque, cosa si deve ricordare? Solo ciò che ha ricevuto un imprimatur, e solo nella versione approvata? Ma questo equivale a consacrare l’idea che la Storia la scrivono i vincitori. E cosa dovremmo concludere, che bisogna ricordare per evitare di ricascare negli errori del passato o che bisogna ricordare per mantenere accesa la fiamma dell’odio?

    Ecco una piccola esperienza personale. Quando scoppiò la bomba a Piazza Fontana la prima impressione fu che era scoppiata troppo presto per un errore degli attentatori. Poi, senza un motivo preciso, si affermò la tesi della strage voluta e dolosa. Ma che differenza fa? Come siano andate davvero le cose non lo sapremo mai. Ricordo che mio padre accolse la notizia con una tristezza che sconfinava nella paura. Disse: “È l’attentato al Diana”. 

    Neanche lui ricordava l’anno in cui successe. Doveva essere stato nel 1919 o nel 1920. Una bomba scoppiò nel cinema Diana, a Milano, e fece un sacco di vittime. Da quel momento tutti i contrasti si radicalizzarono, si innescò lo squadrismo, la politica fu destabilizzata e l’Italia si avviò a un regime totalitario. Nei giorni successivi all’attentato si parlò di anarchici. Anni dopo, alcuni anarchici furono condannati ma la sentenza non convinse.

    Ai tempi di Piazza Fontana nessuno ricordò il Diana (salvo Nenni, una sola volta, a botta calda). Ma sono convinto che i politici l’avessero ben presente. Se gli anni di piombo, per quanto penosi, non sono sfociati in una rivoluzione o in un colpo di stato è probabilmente perché i politici di allora pensarono sempre al Diana e non ne parlarono mai.

    E allora, ricordare o dimenticare? Ricordare, direi. Ma senza monumenti, fiaccole e cortei. Ricordare per spegnere l’odio, non per riattizzarlo. Che senso ha condannare le guerre altrui e perpetuare la nostra guerra civile? C’è una parte che ha vinto e una che ha perso: è la Storia. Ebbene, la Storia si scrive guardando indietro, ma si fa guardando avanti. Lo sapeva bene quel ministro della giustizia che firmò l’amnistia per tutti, fascisti e antifascisti (si chiamava Palmiro Togliatti).

    Quando un fanatico commette una fesseria possiamo dargli una lezione con metodi legali e fargli capire che è meglio se la pianta lì, oppure possiamo metterci a fare i fanatici anche noi (di segno opposto, naturalmente). Il primo metodo tende a instaurare una società civile, il secondo a incistare gli odii sul modello delle faide.

    Sono più di sessant’anni che la guerra è finita. Il muro di Berlino è caduto vent’anni fa. Non esistono più né il fascismo né il comunismo. Ma c’è ancora chi impernia il dibattito politico sulla contrapposizione fascismo-comunismo, come se il mondo fosse fermo al 1945, come se non avessimo di fronte problemi completamente diversi: la recessione mondiale, la spinta demografica dei paesi islamici, il petrolio e il nucleare, la crisi dei sistemi previdenziali, il mancato decollo della Europa politica, l’impotenza dell’ONU, ecc. ecc.

    Abbiamo bisogno di guardare al futuro, e di pensare in grande.

 

                                      Ma che fine ha fatto il futuro ? 

 

    Su questo blog ho promesso fin dall’inizio che non mi sarei occupato di politica. Invito quindi i miei ventitre lettori a non dare un significato politico in senso stretto a questo post. Le considerazioni che svolgo, anche se possono sembrare politiche, sono unicamente storiche e antropologiche.

 

    Certe volte faccio fatica a credere che il mondo sia entrato nel terzo millennio. Apro un giornale, vado alle pagine culturali e l’articolo principale verte sul tema: è vero che Silone ha fatto l’informatore dell’OVRA? Fra le recensioni mi casca l’occhio su quella del romanzo di un esordiente: cos’ha di particolare? Che è ambientato nel ventennio fascista. Mi torna in mente che, quando il comune di Riccione restaurò una casa dei Mussolini per farne una specie di museo, ne seguì una polemichetta estiva che tenne banco per due settimane. La stessa cosa successe per una canzoncina caraibica intitolata Camisa negra che parlava d’amore. Ci si domandò con seriosa severità: quel titolo non sarà apologia del fascismo? E via di questo passo.

    Ma che c’era sui giornali della prima metà del secolo scorso? Si rivangava lo scandalo Tanlongo? O forse si sfruculiavano gli elenchi della massoneria per scoprire l’anno di affiliazione di Giosuè Carducci? Neanche per sogno. A quei tempi non era di moda il passato remoto. Solo perché il regime non gradiva i pettegolezzi o perché di ciò che era successo settant’anni prima non fregava più niente a nessuno?

    Forse una volta si guardava al futuro più che al passato perché nel futuro c’era scritta una parola terribile: guerra. E per la verità, anche dopo il 1945 si continuò a guardare avanti con il timore di Armageddon. Ci fu la guerra di Corea (chissà perché non se ne parla mai), la liquidazione degli imperi coloniali (Dien Bien Phu, altro nome dimenticato), la spedizione anglo-francese a Suez, la repressione della rivolta d’Ungheria. Di tutto questo si tace alla grande. Niente rievocazioni, niente revisionismi. Eppure ormai tutti gli archivi dovrebbero essere accessibili, compresi quelli del Pentagono e del Cremlino. Ma nessuno se ne interessa. Si continua a guardare ipnotizzati a vent’anni di fascismo come se fossero stati duecento: ecco gli immancabili documentari con i gerarchi in divisa, gli immancabili libri di Arrigo Petacco, le immancabili indignazioni di Bocca, l’immancabile piede-in-due-scarpe di Pansa.  

    Come mai? Non è molto chiaro. Dopo il 1945 gli integralismi erano scomparsi in quasi tutta l’Europa occidentale. I partiti comunisti erano fuori legge o avevano scarso seguito. I partiti “cristiani” erano conservatori anticomunisti. Di partiti fascisti neanche l’ombra. Al contrario in Italia il 90% dei voti era accaparrato da tre integralismi: quello cattolico, quello comunista, quello fascista. Però il modello europeo e quello italiano avevano qualcosa in comune: nessuno dei due stava in piedi per forza propria, ma solo come modo di reagire a una paura. Sul confine c’era la cortina di ferro e dall’altra parte c’era l’Armata Rossa: il babau.

    Arrivano gli anni ’90. Implode l’URSS, cade la cortina di ferro, baci e abbracci con l’Armata Rossa. In Italia cambia il sistema di voto, la sinistra dice di essere diventata “liberal”, la destra dice di essere diventata non si sa bene cosa. In realtà non ci crede nessuno: la gente non vota per ciò che dicono gli uomini politici, vota per ciò che crede che pensino. Ma il tempo passa e il re è sempre più nudo. Derubricati gli integralismi, destra e sinistra si riducono a due comitati d’affari che spesso non sono neanche in concorrenza. Nessuno parla di futuro perché nessuno ha programmi e prospettive con un orizzonte temporale che vada al di là dei due-tre anni. Impegnarsi in una discussione sul modello di società da lasciare a figli e nipoti significa soltanto sciorinare l’assenza di ideali degli uomini politici.

    Dopo un secolo di integralismo praticato o sognato, la gente rimpiange le certezze assolute (quasi sempre false e bugiarde, ma che non obbligano a pensare con la propria testa, come invece costringe a fare la maledetta democrazia). I giornalisti se ne accorgono e cercano di provvedere. Ma dove trovare queste certezze? Il fallimento del socialismo reale è troppo recente per alimentare altro che un po’ di nostalgia. I papi carismatici non riescono a convincere più di tanto. Che si può fare per trastullare le masse?

    Non resta che emozionarle con un po’ di cerimoniali macabri e con il fascino del Male, per poi stupirle con le immagini di piazzale Loreto. E allora dài, saccheggiamo i cinegiornali dell’Istituto Luce, ricuperiamo le lettere d’amore di Margherita Sarfatti, le immagini della guerra d’Abissinia, della battaglia del grano, dell’oro alla Patria. Tutto fa brodo. Ecco a cosa ci ha ridotti la pochezza intellettuale di una classe politica fatta di parvenus, di intrallazzatori, di eunuchi di palazzo. Il mai spento interesse per un ventennio morto e sepolto tradisce il desiderio di visioni del mondo totalizzanti e di qualcuno che ci eviti la fatica di pensare. Tanto, ci si illude, se poi sbaglia vorrà dire che lo cambieremo.

    Ma intanto andremo a catafascio. E ben ci starà. Colpa nostra, se è vero che non sappiamo sottrarci al vizio del conformismo (che si esprime in mille modi, per esempio col politically correct). Colpa nostra, se è vero che per noi far politica consiste solo nel dare addosso a qualcuno o a qualcosa e mai nell’impegnarci in un progetto chiaro e condiviso. Ma colpa soprattutto di chi si propone come guida e ha visioni piccine.

    Per conto mio, sarebbe un’opera di misericordia se i due comitati d’affari di cui sopra portassero i libri in tribunale. Non è possibile, lo so, ma se lo fosse, mi piacerebbe fare tabula rasa: abbattere Monte Citorio, Palazzo Madama e tutti i palazzi del potere, farli ricostruire da qualche archistar e ricominciare da zero.

    Abbiamo bisogno di guardare al futuro e di pensare in grande.

 

                                           Alle radici del noir

 

    Ho riletto Il lungo addio e ci sto pensando sopra. Credo che sia il peggiore di tutti i romanzi di Raymond Chandler ma, proprio per questo, mi sembra il più interessante.

    I difetti? Sono parecchi. L’intreccio è fin troppo complicato e, onestamente, certi snodi narrativi mi sembrano inverosimili. Inoltre, lo stile delle descrizioni è maledettamente datato, con metafore e paragoni che fanno concorrenza a Mickey Spillane.

    Invece, è sempre valido il misto di cinismo e moralismo con cui Chandler guarda la società degli USA (e in particolare di Los Angeles), la rabbia verso i ricchi che hanno gli stessi vizi dei poveri ma possono mettere a tacere gli scandali e fingersi virtuosi, la psicologia dei personaggi resa esplicita nell’azione (applicando stupendamente la regola show, don’t tell), la maestria nell’uso del dialogo, degli incipit e degli explicit.

    Il guaio è che anche gli elementi positivi sono usati male: i pezzi di bravura suonano forzati, compiaciuti, esibiti. Alla fine dei conti, tutto risulta esagerato e poco credibile. La storia minaccia continuamente di andarsene per i fatti suoi ed è tenuta insieme a furia di incongruenze. Come in altri romanzi (p. es. La donna del lago), si ha la sensazione di due o tre diversi racconti accozzati insieme un po’ in fretta e furia. Eppure il romanzo mantiene il suo fascino e, una volta iniziato a leggere, non fa venire la tentazione di lasciarlo a metà. Quale sarà il dannato segreto di Raymond Chandler?

    A parte l’ovvio interesse alla soluzione del mistero, si può pensare che abbiano un certo peso il fascino del kitsch, la coazione a ripetere, il senso di sicurezza che deriva dalle previsioni che si avverano: uno compra Chandler perché vuole leggere Chandler, ed è contento quando può dire a se stesso: “Questo è proprio Chandler!”. Ma è possibile che sia tutto lì?

    Dire come mai tanti errori messi assieme fanno qualcosa di valido non è facile e può benissimo darsi che io abbia preso lucciole per lanterne. Può darsi che Il lungo addio non contenga neanche un briciolo di arte e sia poco più che una pulp novel buona da vendere nelle edicole delle stazioni. Secondo me ciò che lo rende un vero romanzo è la sua omogeneità di fondo, che non è qualcosa di voluto, non è tecnica né artigianato, e tantomeno un trucco da praticone del mestiere.

    Certo, lo stile, il messaggio, i personaggi, è tutto business as usual. I poliziotti sono uno idiota e l’altro furbo, i gangster sono uno furbo e l’altro idiota, le donne sono tutte mozzafiato e troie, gli uomini sono tutti falliti e basta. Dov’è la differenza con Il grande sonno, La sorellina o Addio, mia amata? Non c’è. L’unica novità è che uno dei falliti fa lo scrittore, così Chandler può usare il personaggio e confessare che per vendere libri bisogna scrivere le porcherie che piacciono al pubblico (un tema che anche ai giorni nostri va molto di moda). Come dire: comprate questo libro e leggete non solo che genio sarei io ma anche quanto siete idioti voi. (Grazie, com’è buono lei!). Quanto allo stile, è così smaccatamente Chandler che sembra quasi una caricatura di se stesso. Il messaggio, poi, è così intransigente che fa venir voglia di domandare: ma chi sei, il Robespierre de noantri?

    Eppure il romanzo funziona. Funziona come Alice nel Paese delle Meraviglie, come Ventimila Leghe sotto i Mari, come Il Conte di Montecristo, come tutte le fiabe che stanno insieme grazie a una coerenza interna infrangibile. Ciò che rende omogenei errori, esagerazioni, ovvietà, non è il “mestiere” ma una evidente, disperata sincerità. Al di là dei luoghi comuni narrativi si sente che l’autore crede al romanzo, ci crede fino in fondo, e non si cura delle inverosimiglianze della trama perché non ha tempo per pensarci, perché rincorre qualcos’altro (uno stato d’animo, un’atmosfera, una quintessenza) e chiede al lettore di accompagnarlo nella ricerca, di stare dalla sua parte, di essergli complice.

    Insomma, il vero motivo per cui leggiamo Chandler è che fra le righe dei suoi romanzi si intuisce che è lui ad aver bisogno di noi. Il lungo addio è il suo ultimo, disperato SOS. Il personaggio dello scrittore che sente sfuggire la vita fra una bottiglia e l’altra è semplicemente il suo autoritratto. 

 

                                             I diari di Montanelli

 

    Li ho letti in rapide sorsate. Per l’ennesima volta ho ammirato la straordinaria scorrevolezza dello stile, che non viene tanto dalla tecnica retorica quanto da una estrema chiarezza di idee (si possono accettare o contestare, ma che l’autore le abbia chiare in testa non c’è dubbio). Credo che Montanelli sia stato un grande esempio moderno di oratoria attica. Rem tene, verba sequentur.

    Però che tristezza! Che tristezza leggere i suoi diari e vedere dal di dentro le miserie del giornalismo italiano. E non dell’ambiente in generale, ma di tutti e ciascuno, con nomi e cognomi, a cominciare dallo stesso Montanelli che si guarda allo specchio e si riconosce di volta in volta ruffiano, carogna, presuntuoso. Si dirà: se non altro, lui lo riconosce. È vero, ma è ugualmente triste.

    Stando alla sua versione, Montanelli se ne andò dal Corriere perché i politici DC, sentendo sul collo il fiato del PCI, avevano imposto una sterzata a sinistra ai proprietari (i quali, dal canto loro, trescavano con gli extraparlamentari in attesa di vendere, incassare e togliersi dai guai). Tanto per il mito dell’editore puro: l’editore che non ha altri interessi (e quindi altre fonti di reddito) è una marionetta nelle mani dei politici. Perfino gli esangui Zaccagnini, Forlani, Granelli, ecc. erano capaci di convincere Giulia Maria Crespi a far fuori il direttore Spadolini e il centrattacco Montanelli. Il quale, dal canto suo, ha tutta l’aria di andarsene a fondare un giornale concorrente più per ripicca personale che per scelte politiche.

    E che tristezza leggere nei diari di un protagonista la giornata di queste prime firme, di queste nobili penne! Ore e ore a dirsi bugie, a fare politica da caffè, a intrigare per questo o quel posto esattamente come gli impiegati di banca. Vite spese nell’invidia, tra litigi di ringhiera e malignità da lavandaia. E hanno anche la pretesa (o l’imperdonabile megalomania) di credere che dalle loro manovre dipendano i Destini della Patria. Quanta sicumera nel ritenere che milioni di italiani siano lì a pendere dalle loro labbra!  

    Ricordo che Montanelli (visto che di lui sto parlando) fece campagna elettorale per La Malfa, poi ci litigò e non ne parlò più. Nessuno dei miei conoscenti in età di votare votò mai per il PRI. Quando sul Corriere non c’era un articolo di Montanelli avevano l’impressione di aver comprato un prodotto di scarsa qualità. Ma se le sue indicazioni non convincevano ci voleva altro che la sua parola per orientare il voto degli italiani.

    Le sue corrispondenze dall’Ungheria sono le prime cose che ricordo di aver letto su un giornale. Avevo nove anni. Ricordo la sua crociata contro Mattei in nome di una imprenditoria con un minimo di etica, la sua battaglia per Venezia, la sua diagnosi della società italiana. Ma ricordo anche le sue cazzate. 

    Aprì ai socialisti dichiarando che “si portavano dietro una specchiata reputazione di galantomismo”. Proprio il ritratto di Mario Chiesa. A dargli retta furono pochissimi e l’aumento dei voti del PSI fu insignificante.  

    Invitò a votare DC turandosi il naso. Altro che il naso c’era da turarsi con gente come quella. Ma non era mica una scoperta di Montanelli: tutti quelli che votavano DC lo facevano turandosi il naso già da almeno dieci anni.

    Insomma, di abbagli ne prese tanti. Non ci sarebbe da fargliene una colpa se avesse avuto il buonsenso di presentarli come opinioni e non come dogmi di fede. E invece no: a leggere i diari, salta fuori che era convinto di non sbagliare mai. Avrei preferito ricordarlo più con i piedi per terra, meno facile agli entusiasmi e alla prosopopea. D’altra parte, proprio Montanelli ci ha insegnato a guardare i grand’uomini dal buco della serratura ed è giusto che tocchi anche a lui la pena del contrappasso. 

    Tutto sommato, pur con i suoi difetti, l’opera storica di Montanelli è il più duraturo di tutti i suoi scritti. Se non altro, espone una tesi coerente dall’inizio alla fine: l’idea, cioè, che la Storia la facciano gli uomini e non le idee. Il che, a mio modesto avviso, significa leggere la Storia a priori anziché a posteriori. Non che lo ritenga un criterio più valido dell’altro, ma è un punto di vista che non può essere trascurato. Le idee sono agite da uomini che sbagliano per via di passioni, odii e miopie. Chi si concentra esclusivamente sulle idee finisce per prendere la Storia a martellate, sottolineando qua, cancellando là, pur di adattarla ai suoi preconcetti.

    In conclusione, non credo che questi diari abbiano reso un servizio a Montanelli o ai lettori. Semmai mi hanno convinto sempre più che gli uomini vanno giudicati solo per ciò che fanno quando indossano giacca e cravatta. Se non altro, le prese di posizione pubbliche sono sempre atti di coraggio; mentre in privato ognuno ha diritto alle sue vigliaccherie. Quando un uomo sta in mutande non c’è niente da guadagnare a osservarlo, neanche se è lui stesso a socchiudere la porta.     

                                                   

                                         Schiavi del passato

 

    Nell’imminenza di non so più quali elezioni, Letizia Moratti si presentò al corteo del 25 aprile raccogliendo fischi, contestazioni, qualche insulto, eccetera eccetera. Era ciò che voleva e senza spendere un quattrino si procurò un sacco di propaganda per la sua campagna elettorale. 

    Non c’è da stupirsi per l’insipienza di chi la fischiò. E neanche per il masochismo politico di chi impiegò due giorni per dissociarsi, con l’aria di dire: vabbe’, fischiare la Moratti non è educato, ma se non fossimo personaggi pubblici l’avremmo fatto volentieri anche noi.

    Oggi una parte sfida l’altra ad andare a un corteo, l’altra coglie la palla al balzo per dichiarare che ci andrà. E tutti a dare la stura al dibbbattito: uno grida che sì, l’altro che no, l’altro ancora che sì ma… Posso dire sinceramente cosa penso di queste manfrine? Non me ne frega niente. Detesto sia le provocazioni, sia chi ci casca. Quello che mi interessa, semmai, è un’altro discorso.

    Dall’evento che ha dato origine alla festività del 25 aprile sono passati sessantaquattro anni. Da quello che ha dato origine al 1° maggio molti di più. Nel frattempo è cambiato tutto. Il 1° Maggio è un concertone gratis, il 25 aprile una passeggiata. Datemi pure del disfattista. Non pretendo di avere ragione. Però pensateci: forse nel modo in cui certe feste nazionali sono nate, o nel modo in cui si sono evolute, qualcosa non ha funzionato.

    Le persone in cerca di visibilità vanno al corteo con l’evidente proposito di farsi fischiare e fare la vittima. (E cosa fanno i furbissimi fischiatori? Fischiano. Fulgido esempio di intelligenza politica. E cosa fanno i loro strateghi di riferimento? Si seccano: cosa si pretende da loro?)

    Che ci vogliamo fare, noi siamo fatti così. Guai a levarci il piacere di dividerci in guelfi e ghibellini. Noi non vogliamo feste nazionali: vogliamo pretesti per far polemica. Perché convincere chi non la pensa come noi con discorsi concreti e comportamenti conseguenti? Neanche per sogno. Gli altri provocano? E noi raddoppiamo.

    A noi non interessano la buona amministrazione, l’onestà, la lungimiranza. Se la scuola non funziona, le ferrovie sono vecchie e in troppi ospedali c’è la malasanità, tutto va ben madama la marchesa: basta che “vinciamo noi” o, meglio ancora, basta che non vincano gli altri. Alla politica noi non chiediamo cose concrete: chiediamo emozioni, come se la politica fosse il cinema, il campionato di calcio o il palio di Siena. Altri popoli la prendono più sul serio e le affidano il compito di organizzare l’avvenire. Per noi è una eterna guerra civile banalizzata come in un videogioco.

    Il risultato è che ci accapigliamo per cose morte e sepolte. Esiste una concreta prospettiva comunista nel mondo? Non più. Esiste una concreta prospettiva fascista nel mondo? Meno ancora. E allora di che cosa stiamo parlando? Se proprio non possiamo fare a meno di prenderci a male parole, troviamo almeno dei motivi nuovi.

    Non so voi, ma io sono stufo del passato. È ora di guardare al futuro e pensare in grande.

 

                                               Le idee degli altri

 

    Non so come mai mi è tornato in mente che il filosofo Marcello Pera, quando ancora era presidente del Senato, sostenne pubblicamente la tesi secondo cui “il relativismo liberaldemocratico… privilegia ora la libertà ora la democrazia rispetto al bene” e si spinse a dichiarare che una “società meticcia” non sarebbe stata in grado di sostenere gli assalti dell’integralismo.

    Queste sono le idee che, trasposte in campo economico, portano dritte alla condanna del “mercatismo”. Per discuterne seriamente bisognerebbe introdurre tanti di quei distinguo da scriverci un libro. Manca il tempo e lo spazio, quindi mi astengo. Però ricordo che, all’epoca, Pera fece scandalo. I giornali si riempirono di titoli il cui senso era press’a poco: “Come si permette costui di dire pubblicamente certe cose?”.

    Leggendo quei titoli mi venne spontanea una considerazione e, nel farla, mi resi conto che l’avevo già fatta in tante altre occasioni e chi sa quante altre volte ancora mi sarebbe capitato di rifarla. La considerazione era questa: “Oh bella, e perché Pera (o chi per lui) non dovrebbe permettersi di dire quel che pensa? La libertà di parola è un diritto garantito dalla costituzione. Non ci si può scandalizzare se qualcuno ne fa uso.”

    L’assurdo della situazione è che abbiamo sovvertito il senso delle parole che usiamo. Consideriamo “provocatorio”, “rivoluzionario” e quindi “progressista” ciò che invece è politically correct, e cioè maledettamente conformista. Oggi gli anticonformisti sono i reazionari.

    E in effetti la mia considerazione sottintendeva che l’arrière pensée di certi scandalismi è più o meno questo: lo sappiamo che esiste una (larga) fetta di opinione pubblica che coltiva, più o meno consciamente, idee conservatrici e/o reazionarie. Ma non deve esprimerle. Chi la pensa così è vecchio e superato: morirà e le sue idee moriranno con lui. Nel frattempo stia zitto. 

    Questo atteggiamento infastidito è tipico di chi è convinto di possedere la Verità con la V maiuscola. E naturalmente chi pensa a come le cose “dovrebbero essere” non si abbassa a discutere con chi guarda alle cose come stanno. I possessori della verità non concepiscono nemmeno che qualcuno coltivi interessi diversi dai loro.

    Mi permetto di avanzare una obiezione.

    Non è vero che la Storia vada sempre avanti. La Storia, come scriveva anche il glorioso presidente Mao, “esce dalla canna del fucile”, cioè va dalla parte del più forte, e non è detto che il più forte sia sempre progressista, anzi. Per progredire bisogna lottare.

    D’altra parte, un progressismo che vuole essere democratico può lottare solo attraverso il dialogo. Quando lo rifiuta, con la scusa che le idee degli altri sono “superate” e moriranno da sole, si ritrova senza armi per controbattere, mentre le idee degli altri non muoiono affatto. Al contrario: crescono e si diffondono per i canali dove non sono contrastate o dove trovano solo reazioni sdegnose e moraliste. Non scendere sul loro terreno, rifiutarsi di capire i motivi per cui si sono formate, significa rinchiudersi all’interno di ambienti sempre più ristretti, presuntuosamente convinti di possedere tutte le verità, ma distaccati dalla realtà delle cose. Significa far la fine dei bizantini, intenti a discutere del sesso degli angeli mentre i turchi entravano in città. 

 

                                                Storia e filosofia

    

    “Ma non è che tu, o Teodoro, ci porti, senza rendertene conto, non uno straniero, ma un qualche dio ?”

    Con queste parole Socrate accoglie uno straniero presentato dall’amico Teodoro come “un uomo originario di Elea, seguace di Parmenide”. E, da un lato, è facile notare come la curiosità verso lo straniero, la voglia di apprendere, di omologare e omologarci, dati fin dall’inizio della nostra civiltà; ma, dall’altro, sorge il dubbio che, ormai, il pensiero dal quale ripetiamo la nostra origine ci sia diventato “straniero”, che usi categorie con le quali abbiamo perso contatto. 

    Non è poi così pacifico che il pensiero contemporaneo sia un pensiero “debole”, ma non c’è dubbio che la crisi dei “sistemi” ci ha lasciati orfani di molte cose: non ultima, la sicurezza di sè che è necessaria a chiunque intraprenda un viaggio. E forse non è un caso se Giovanni Reale, uno dei massimi filosofi italiani viventi, ha riletto i pensieri forti dell’antichità. Reale ha dedicato una vita alla riscoperta delle dottrine non scritte dei grandi maestri dell’antichità, ha indagato il pensiero originale di Socrate, ricuperato gli insegnamenti orali di Platone, chiarito le peripezie che hanno portato le dottrine esoteriche di Aristotele a essere (caso più unico che raro) proprio quelle contenute nei volumi pervenutici. Oltre a ciò, nei dieci volumi della sua opera principale, ripercorre con scrupolosa accuratezza tutte le correnti di pensiero che, dalle prime arcaiche testimonianze fino al III secolo d.C., si susseguirono in Atene, Alessandria e Roma; riscopre pensatori a lungo trascurati come Numenio o Filone di Alessandria; rilegge le “navigazioni” platoniche fino ai punti di contatto con Pitagora; ricolloca Aristotele nel posto di “miglior allievo di Platone”.

    È una revisione complessiva del pensiero antico, condotta sulla base non soltanto dei testi, ma anche dei resoconti antichi (in primo luogo Diogene Laerzio), della tradizione manualistica e degli studi più recenti. Ma soprattutto, ciò che dà senso e coerenza all’intera opera è lo sforzo costante di comprensione e contestualizzazione, che rende la lettura simile a quella di un romanzo storico dove tutto, vicenda e adiacenze, si aggancia agli avvenimenti di più ampio respiro. In questo tessuto a maglie strette sono notevoli tanto le corrispondenze quanto le discrepanze.

    Reale illustra le prime testimonianze della filosofia nel tono con cui si suole alludere ai primi passi della scienza: tentativi che danno esiti scarsi perché guidati da una visione errata del mondo. Nell’ottica dell’autore, presocratici, sofisti, Socrate stesso e il primo Platone sono visti come unicamente preoccupati di cercare la physis, la sostanza che rende vero il cosmo al di là della sua apparente mutevolezza. Verrebbe quasi da pensare a una fase alchemica della filosofia se l’autore non ribadisse più volte che l’orizzonte di tutti questi filosofi (e, di conseguenza, le soluzioni che vengono proposte) è circoscritto in una prospettiva strettamente materialista. Ma sarà poi così?

    Il lettore incontra qui la prima “estraneità”: per noi è davvero ostico leggere in chiave materialista concetti come l’apeiron di Anassimandro, il numero di Pitagora, l’essere di Parmenide. È colpa del lettore incapace di adeguare i suoi (pre)concetti, oppure non è illegittimo ipotizzare che qualche forma di spiritualismo sussistesse anche nel pensiero di Talete & Co.? Il dubbio nasce dalla nostra bimillenaria assuefazione a concetti come anima, spirito, forma, ecc. oppure i pensatori dell’antica Grecia non erano meno spiritualisti degli estensori della Bibbia e dei libri Veda? La risposta di Reale è netta: nessun filosofo ha partorito un sistema organico spiritualista prima della cosiddetta “seconda navigazione” platonica.  

    E tuttavia – i problemi sono come le ciliege: uno tira l’altro – come mai una  conquista così decisiva come la scoperta della dimensione spirituale cadde in abbandono per secoli e secoli? Nel breve periodo che va da Pericle ad Alessandro Magno, Platone compie la sua storica “seconda navigazione” e Aristotele ne approfondisce il solco. Ma pochi anni dopo la loro scomparsa gli scolarchi dell’Accademia e del Liceo (che avevano ascoltato dalla viva voce dei maestri anche le dottrine non scritte e le avevano discusse con loro) non riprendono la tematica spiritualista, la lasciano cadere, si rifugiano nello scetticismo. Nascono nuove scuole preoccupate di indicare unicamente regole di vita. Epicureismo, stoicismo e scetticismo dominano la scena per cinque secoli abbondanti. Il rigurgito neoplatonico di Plotino, Giamblico e Proclo avverrà solo nel II e III secolo d.C. Per il ricupero di Aristotele bisognerà aspettare gli arabi, in pieno medioevo.

    Come spiegare questa lunga eclissi? Secondo l’autore, con una circostanza storica: l’avvento dell’impero macedone, seguito a breve distanza da quello romano, e la conseguente dissoluzione della polis.

    Ancora una volta siamo chiamati a confrontarci con un cambiamento di mentalità che ci risulta straniero, al limite dell’incomprensibile. Certo, Socrate e Platone danno alla loro filosofia lo scopo di educare il cittadino ideale della polis greca. E all’improvviso la polis non c’è più. Ma, per quanto traumatico, l’avvento dell’impero resta un fatto politico. Come ha potuto far dimenticare le conquiste teoretiche di Platone e Aristotele? E come è stato possibile che, a quattro secoli di distanza, il platonismo sia risorto? Dove stava nascosto, chi l’aveva tenuto in vita? Su questi interrogativi gli storici della filosofia antica avranno ancora molto da dirci.

 

                                             Nostradamus 

 

    La campagna elettorale ci ha riservato di tutto e di più. Sentenze, veline e divorzi. Come mai prima d’ora la politica è diventata gossip. Come sempre i dibattiti televisivi mi hanno fatto cadere le braccia. In questo panorama, spero di non smentire l’impegno a tener lontana la politica da questo blog se mi metto a fare il futurologo: scommetto che i commenti sui risultati delle prossime elezioni ricalcheranno il solito schema.  

    Scommetto anche che, a elezioni concluse, i blog, i giornali e le interviste in tv saranno pieni di commenti del tipo: 1) abbiamo perso, ma abbiamo ragione noi; 2) chi non ci ha votato è scemo; 3) chi ci ha votato contro è un venduto; 4) eccetera eccetera. Non ce ne sarà uno che dica: abbiamo sbagliato tutto.

    Eppure i partiti spendono fior di soldi per i sondaggi. Qualcuno di quei sondaggi dà speranze a una politica che da quindici anni è perdente? Credo proprio di no. E allora? Immagino la risposta: in guerra si combatte anche quando sembra perduta ogni speranza di vittoria. Giusto. Ma c’è modo e modo. Se si combatte per un principio, bisogna dire qual è e farne una bandiera. Se si combatte per agguantare il potere, bisogna fare una politica capace di ottenere la maggioranza.

    E invece no. Niente da fare. Anche questa volta il coro dei commenti sarà: le abbiamo prese, abbiamo fatto una figura tanto più penosa quanto più ci eravamo mostrati arroganti, ma non importa: abbiamo ragione noi! Nessuno prenderà in esame i perché delle vittorie altrui, nessuno rifletterà sui punti deboli che hanno causato le sconfitte. Noi abbiamo ragione a prescindere.

    Ecco a cosa si è ridotta la politica in Italia: a una specie di tifo calcistico. Le persone moderne, colte e intelligenti sembrano convinte che “una cosa giusta” si possa (e si debba!) imporre anche a chi non la vuole. Ma che sia poi così giusta, in ultima analisi, dipende dal fatto che lo dicono loro (perché loro si cooptano fra chi si dichiara moderno, intelligente e colto, mentre gli altri sono ignoranti, superstiziosi e venduti).

    Ora: che uno sia convinto di ciò che sostiene, è doveroso; che sia dispiaciuto nel vedere adottare scelte che ritiene sbagliate, è ovvio; ma che di fronte a un pronunciamento chiaro non sia neanche sfiorato dal dubbio di essere lui ad avere sbagliato qualcosa, be’, questa è grossa.

    La persona intelligente, colta e moderna, se è veramente tale, non dovrebbe dedicare una parte del suo tempo a studiare i milioni di esseri umani che lo circondano? Non dovrebbe cercar di capire come mai i desideri e le aspirazioni della gente che lavora si dimostrano così spiacevolmente elementari?   

    Macché. La persona colta, intelligente e moderna (uffa, chiamiamola col suo nome: il radical chic) non si abbassa. Lui è un fine intellettuale, nutrito di buone letture; perché dovrebbe contaminarsi col fango della plebe? Perché dovrebbe domandarsi come mai la gente guarda i feuilleton della Venturi o i programmi della de Filippi?

    Giammai! Per il radical chic la democrazia sta bene sì, ma a patto che gli intellettuali siano più uguali degli altri. I diritti, nella sua concezione sociale, sono come l’albero della cuccagna: dolciumi e salame per tutti, basta arrampicarsi; ma chi non sa arrampicarsi è un cretino e peggio per lui. 

    Povero popolo! E pensare che sei tu il detentore della sovranità, a termini di Costituzione! E pensare che dal 1789 in poi tutte le rivoluzioni sono state fatte per te! Doveva arrivare il terzo millennio per mostrare che i veri reazionari sono i radical chic.

 

                                        A Lumi spenti   

 

    Da quando è caduto il muro di Berlino, con conseguente implosione dell’URSS e del socialismo reale, è sempre più frequente il richiamo all’illuminismo. Marx e Lenin non “funzionano” più? Rifacciamoci a Voltaire e Rousseau. L’importante è avere ragione.

    Il guaio è che proprio l’illuminismo ci ha insegnato a non fidarci degli ipse dixit. Una frase di Voltaire o di Lenin può essere penetrante, ma non può essere vera sempre e comunque. Non basta citarla per mettersi al riparo dalle critiche. Bisogna contestualizzare. E vabbe’. Ma, si dirà, la Dea Ragione ci aiuta a distinguere proprio perché ci dà dei principi universali e necessari. Usando la Ragione sappiamo sempre da che parte sta la Giustizia. Ebbene, non sono convinto.

    Tanto per cominciare, sarebbe il caso di mettere da parte le ipocrisie. Facciamo un caso: quando è scoppiata la guerra dell’Irak qualcuno pensava che Saddam avrebbe portato a casa la pelle se non fuggendo chissà dove? Qualcuno si illudeva che americani e sciiti l’avrebbero risparmiato?

    Si risponde (facendo riferimento ai valori dell’illuminismo) che chi vince deve dimostrare la propria superiorità morale rispettando la dignità della persona umana. Anche perché non è proprio il caso di fare un martire di un tiranno. Eccetera eccetera.

    Tutte belle frasi, ma a me pare che in certe cose l’illuminismo abbia le luci spente. Per esempio nel modo di comportarsi con i tiranni sconfitti. Facciamo come con i pregiudicati: andiamo a vedere il curriculum, la fedina penale dell’illuminismo.

    Luigi XVI non ha governato meglio o peggio dei suoi predecessori, successori e pari grado contemporanei. La sua colpa è stata di non rendersi conto che i tempi erano cambiati. Ma non l’avevano capito neanche i suoi ministri e consiglieri. Di più: non se ne erano accorti nemmeno i rappresentanti del terzo stato, finché non si sono riuniti nella stessa aula e hanno cominciato a scambiarsi opinioni. Quattro anni dopo, una Assemblea Nazionale sulla cui rappresentatività si potrebbe anche trovar da ridire pose all’ordine del giorno il problema della monarchia, e lo fece nel modo meno illuministico: chiedendo la testa del re. Nessuno si preoccupò di dimostrare la superiorità morale della rivoluzione rispettando la dignità della persona umana. Nessuno ebbe paura di fare un martire di un tiranno.

    Non si trattò di un processo. Ogni deputato si alzò e dichiarò i motivi POLITICI della sua scelta. Con un solo voto di maggioranza, Luigi Capeto fu mandato a porgere i suoi omaggi al boia. Ma non era finita. Siccome per Maria Antonietta motivi politici non ce n’erano, si imbastì un processo-farsa, la si accusò di incesto e di ogni possibile porcheria, e la si trascinò alla ghigliottina. Infine, nell’impossibilità di imbastire un processo a un ragazzino la cui unica colpa era quella di essere figlio di suo padre e di sua madre, lo si fece illuministicamente sparire nelle tenebre.

    Che dire? La rivoluzione era una necessità storica, e la Storia esige le sue vittime. Quando si abbatte una monarchia bisogna estinguere la linea dinastica, altrimenti c’è sempre il rischio di una restaurazione. Il re, sua moglie e suo figlio non avevano commesso reati, ma la Storia li condannava. Se non altro, a Luigi XVI gli illuministi l’hanno detto in faccia. Con Maria Antonietta e con Luigi XVII non ne hanno avuto il coraggio e hanno aperto la strada ai processi-farsa, alle ipocrisie, agli omicidi politici.

    Ma l’illusione dei lumi non demorde: ventun anni dopo, quando la Francia va all’assalto dell’Europa, e si monta la testa, e si rovina, l’Inghilterra vuol dimostrare di essere più civile e illuminata. Manda Napoleone all’Elba. Naturalmente Bonaparte scappa e mette in piedi un’altra battaglia. Stavolta l’Inghilterra lo porta a Sant’Elena, ma non ce la racconta giusta. Dev’essere successo qualcosa laggiù, visto che il prigioniero muore a cinquantun anni (e forse non di ulcera, ma di arsenico).

    Come precedenti penali dell’illuminismo direi che non c’è male. Ma andiamo avanti. Sorvoliamo pure su centovent’anni di ipocrisie, di menzogne, di illusioni. Veniamo alla seconda guerra mondiale. La Germania invade la Polonia senza dichiarazione di guerra e procede alla “soluzione finale del problema ebraico”. Alla fine del ’42 la guerra è già perduta, ma Hitler non ci crede. Vuole la catastrofe e, perbacco, la ottiene. Dal bunker della Cancelleria vede la Germania distrutta, occupata, spartita in quattro. Si suicida. Cosa avrebbe potuto fare il nemico se non ucciderlo? Nient’altro che un po’ di contorno per indorare la pillola. E infatti, quando per i complici di Hitler viene allestito un processo, le più che prevedibili condanne mettono in luce una contraddizione: per quanto evidenti siano i crimini del nazismo, se il vincitore giudica lo sconfitto che bisogno c’è di un processo? Il processo c’è già stato. È la guerra. Anche se il vincitore non avesse ragione, ha vinto. Ha diritto di ucciderti. In guerra non si uccidono i nemici?

    Si dirà: si uccidono i nemici che combattono, non quelli che si arrendono.

    Si risponde: questo è vero per i soldati (e neanche sempre, purtroppo). Ma i capi? Risparmiando l’imperatore dei francesi e mandandolo in vacanza all’Elba, l’Inghilterra condannò decine di migliaia di innocenti a morire in quel di Waterloo. Avrebbe fatto meglio a far fuori subito Napoleone.

    Probabilmente ciò che sto per dire suonerà cinico, ma secondo me è soltanto una sconsolata osservazione della realtà. Possiamo fare mille stupendi discorsi sul dover essere. La Storia, chissà perché, prende sempre un’altra strada. Sarà sbagliata, sarà iniqua, sarà tutto quello che volete, ma le cose sono sempre andate così e, per quanti sforzi si facciano, non risulta che ultimamente siano cambiate.

    Da più di duecento anni viviamo nella fede che i Lumi e la Dea Ragione ci assicureranno il dominio del mondo e di noi stessi. È venuto il momento di capire che l’illuminismo, pur avendo portato infiniti vantaggi all’umanità, non è la panacea di tutti i mali. Ci sono fatti, dinamiche, meccanismi sociali, che non sopportano la museruola della razionalità. Sarebbe meglio riconoscerlo, invece di ostinarsi a picchiare la testa contro il muro della Storia.

 

                                  Ataturk e Khomeini

 

    Da almeno trent’anni i fenomeni migratori hanno cambiato natura e ci pongono di fronte a problemi che non sappiamo come risolvere. I clandestini che approdano a Lampedusa non hanno soltanto rischiato la pelle per venire in Europa: hanno anche speso tre, quattro, cinquemila dollari a testa. Con gli stessi soldi sarebbero dei signori a casa loro, ma non è questo che vogliono. A loro non interessa emergere in una società arcaica, sempre a rischio di carestia, in territori semidesertici. Non provano neanche a usare quei tre o quattromila dollari per investire in una qualunque attività sul posto. Non sperano di contribuire a migliorare le condizioni di vita nel loro paese: temono che non basterebbe una vita per vedere qualche miglioramento apprezzabile. Nessuno di loro pensa a rifare il cammino che l’Europa ha percorso dal Medio Evo ai giorni nostri.

    In realtà potrebbero farcela in tre o quattro generazioni, o anche meno, ma chi emigra dall’Africa o dall’Asia non se la sente di sacrificare la sua vita: vuole vivere in un posto civile, sa che ne esiste uno, e decide di andarci.

    Purtroppo l’Europa non si sviluppa più ai ritmi di cinquant’anni fa. Per quanto assurdo possa sembrare, un emigrante dei paesi subsahariani avrebbe più possibilità di far fortuna in India o in Cina. Ma, daccapo, non è questo ciò che vuole. In India e in Cina, ammesso e non concesso che lo lascino entrare, troverebbe culture e modelli di sviluppo sociale che non lo attirano.

    E allora cosa vuole? Fino a vent’anni fa gli emigranti si accontentavano di un posto di lavoro e di un’atmosfera di libertà, con il lontano obbiettivo di ottenere la cittadinanza e il ricongiungimento con la famiglia. Ma oggi i loro figli nati in Europa vogliono di più. Vogliono qualche lusso, un po’ di successo, e una identità culturale. E siccome, a torto o a ragione, si sentono esclusi dalla nostra, si rivolgono a quella che non hanno mai conosciuto e che favoleggiano nei racconti dei padri e dei nonni. Reclamano il velo, le scuole coraniche e un modo di trattare le donne che a noi risulta inaccettabile.

    Come sempre, i mali vengono da lontano e la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Quando i fenomeni migratori cominciarono, l’unica esperienza precedente era quella delle migrazioni (italiana, tedesca, polacca, irlandese) verso l’America. La politica europea in materia si basò sull’accoglienza incondizionata nel presupposto che l’emigrante si comportava come un ospite in casa altrui e sposava la cultura del paese che lo accoglieva. Gli italiani emigrati in America, Francia, Belgio, Germania (e in Italia del nord) avevano magari il vizio di metter mano al coltello, ma prima o poi si integravano, imparavano la lingua, mandavano i figli a scuola, aprivano ristoranti e attività commerciali, e i ragazzi non creavano problemi perché le differenze culturali erano tutto sommato conciliabili. Perfino gli emigrati turchi in Germania (che pure costituivano una specie di buco nero, con un nocciolo duro di anziani che rifiutavano ogni integrazione, non imparavano la lingua e non partecipavano alla vita del paese che li ospitava) a poco a poco si integravano: intorno al nocciolo la resistenza si sfaldava, i giovani turchi e tedeschi si frequentavano con sempre maggiore libertà e l’integrazione prometteva di essere lunga e travagliata, ma di andare in porto.

    L’emigrazione araba è diversa e il problema, ovviamente, non è il rifiuto della carne impura e degli alcolici: gli stessi tabù esistono anche per i turchi. Il problema è la cultura integralista, che non distingue fra politica e religione, che non concepisce né il laicismo europeo né quello di Ataturk, e non ammette la coesistenza di opinioni diverse perchè tutto ciò che non si adegua alla legge di Allah è bestemmia.

    C’è poco da illudersi: il problema è lo stesso per tutta Europa e riguarda semplicemente la sopravvivenza della nostra cultura. Un conto è aprire la porta di casa all’ospite, un altro conto è lasciargli mettere i piedi sul tavolo. Una democrazia rischia la propria esistenza se non mette al bando chi rifiuta di sottomettersi alla legge, una cultura laica non può sperare di integrare chi pone un libro sacro al di sopra della legge. Faremmo bene a preoccuparcene subito, guardando le cose per quel che sono. Senza buonismi pregiudiziali, va imposto ai migranti, esattamente come ai cittadini, il rispetto della legge dello stato e delle consuetudini del luogo. Libero chi vuole di osservare anche la legge di Maometto, del Buddha o di Confucio, ma solo dopo aver assolto i suoi doveri verso lo stato e verso la comunità che l’ha accolto. 

 

                                      Imperi e nazionalità

 

    Negli anni 70 del secolo scorso la politica interna dell’URSS era, per dirla con una frase di Churchill, “un mistero avvolto in un enigma”, tanto che si era sviluppata una scienza apposita, la cremlinologia, secondo la quale da insignificanti variazioni di cerimoniale si sarebbero potuti dedurre gli alti e bassi di Tizio e Caio nell’organigramma della nomenklatura. Visto dal di fuori, il blocco sovietico appariva come una fortezza inespugnabile dai muri perfettamente compatti, senza feritoie, senza incrinature. Ma proprio in quegli anni Andrej Amalrik (uno storico che, manifestando opinioni critiche, riuscì a guadagnarsi fior di anni nel gulag) fece pubblicare in Occidente un saggio che fece scalpore. Era intitolato, nientemeno, qualcosa come: “Riuscirà l’Unione Sovietica a sopravvivere al 1984?”               

    La tesi di Amalrik era che l’URSS aveva ereditato l’impero multinazionale zarista e, al di là di tutte le chiacchiere sull’internazionalismo, lo teneva insieme imponendo una egemonia russa. Fino a quando, si domandava l’autore, le varie nazionalità dell’impero (estoni, lettoni, lituani, ucraini, ceceni, osseti, abkhazi, georgiani, armeni, azeri, turcomanni, usbechi, kirghisi, kazaki, calmucchi, tatari, ecc. ecc.) fino a quando saranno disposte a tollerare questo stato di cose?

    Non era chiarissimo come mai Amalrik avesse individuato nel 1984 il momento del redde rationem. All’epoca, i più pensarono al romanzo di Orwell. Oggi, a Unione Sovietica implosa, e pur tenendo conto del fatto che Amalrik parve sbagliare di sette anni i tempi della sua profezia, mi viene il dubbio che il calcolo nascondesse una precisa legge storica. È un dubbio che nasce dall’osservazione di un precedente: l’Impero Austroungarico.

    L’Unione Sovietica, secondo la tesi di Amalrik, rappresenta l’epilogo autoritario dell’impero zarista. Un epilogo la cui data di inizio può essere fissata fra il 1917 (rivoluzione di ottobre) e il 1923 (proclamazione dell’URSS), e la cui dissoluzione si consumò fra il 1989 (crollo del muro di Berlino) e il 1991 (nascita della CSI – Comunità di Stati Indipendenti).

    L’Impero Austroungarico si era venuto aggregando nei secoli come patrimonio della casa di Asburgo e nel 1848 era stato scosso alle fondamenta. Per tenere insieme un coacervo di nazionalità (austriaci, magiari, italiani, croati, sloveni, boemi, moravi, slovacchi, ebrei, ruteni, galiziani, rumeni, ecc. ecc.) c’era voluta una soluzione di forza: l’allora diciottenne Francesco Giuseppe aveva preso il potere con un colpo di stato e aveva reintrodotto l’assolutismo (temperato finché si vuole dal buon senso, ma pur sempre assolutismo). L’imperatore era morto a ottantasei anni, nel 1916. Il suo impero gli sarebbe sopravvissuto solo un paio di anni.

    Viste in parallelo, le agonie degli imperi austriaco e russo sembrano indicare che le nazionalità sopravvivono a ogni plurisecolare esperienza unificatrice, e il tentativo autoritario di tenerle insieme una volta che l’impero abbia perso la sua ragion d’essere può durare al massimo una settantina d’anni.

    Più che al libro di Orwell, la profezia di Amalrik si ispira al fatto che la morte di Francesco Giuseppe, a 68 anni dalla sua presa del potere, segnò per Vienna il principio della fine. Se la rivoluzione russa va reinterpretata come tentativo autoritario di tenere insieme l’impero zarista, si può azzardare un calcolo analogo. 1917 più 68 fa 1985. E, guarda caso, nel 1982 muore Breznev, nel 1984 muore Andropov, nel 1985 Cernenko, e arriva Gorbaciov, con il risultato che tutti conosciamo.

    Ovviamente Amalrik l’ha “sparata”. Però ci ha azzeccato, e forse la cosa non è soltanto una coincidenza.

    Gli imperi sono costruzioni secolari. Sono l’ipostasi di una visione del mondo e per questo ingoiano, digeriscono, sormontano le difficoltà contingenti; ma subiscono l’attacco della Storia. Nel 1848 il sistema feudale andò in crisi e l’impero asburgico si scoprì improvvisamente inadatto ai tempi. Da un lato cercò di adeguarsi alle nuove esigenze, dall’altro si fece sempre più autoritario (altrimenti non avrebbe avuto alcuna speranza di governare il cambiamento). Ma era troppo tardi. Il risultato fu che, mostrando di voler cambiare pelle, l’impero perdette la sua legittimazione storica e apparve come un ferrovecchio; in più, mostrandosi autoritario esibì anche la sua paura.

    In Russia l’abolizione dalla servitù della gleba mandò in crisi l’impero degli zar. È vero che fu la guerra a catalizzare tutte le tensioni fino a far scoppiare un incendio. Ma l’incendio ci sarebbe stato comunque, prima o poi. Gli zar non avevano più il polso per fronteggiare la situazione. Lenin, Trotzky e Stalin, nuovi inquilini del Cremlino, tennero insieme l’impero con la forza (tanto è vero che durante l’aggressione nazista molte nazionalità si schierarono con la Germania). Quando la guerra finì, i problemi tornarono a galla. Le nazionalità facevano sentire le loro voci. L’uso della forza poteva tenerne basso il volume, ma non riusciva a farle tacere. Trascorso il tempo “giusto”, l’impero russo doveva frantumarsi.

    Ma come mai il tempo “giusto” dura circa settant’anni? Probabilmente qui entra in gioco il meccanismo generazionale per cui i figli, ribellandosi ai padri, finiscono per ricuperare qualcosa dei nonni. Nel caso degli imperi, quando i nonni hanno tentato una rivoluzione e, anche se sconfitti, hanno messo in circolo idee nuove, i padri le ingoiano con scarsa convinzione, mentre i nipoti urlano che i padri hanno tradito gli ideali rivoluzionari, si ribellano per la disillusione, e per mancanza di alternative ripescano lo status quo ante.       

    Ho vissuto il 1968. Non ho molte speranze di campare fino a novant’anni (e anche se ci arrivassi sarei troppo rimbambito per mettermi a ragionare sugli avvenimenti) ma mi viene da pensare che, se la profezia di Amalrik contiene una legge sociostorica, nel 2038 ci sarà da ridere.

 

                                                  Riletture 

 

    Ci sono libri che rileggo con una certa frequenza. La Divina Commedia la rileggo quasi ogni anno, tutta quanta, dal mezzo del cammin di nostra vita fino all’amor che move il sole e l’altre stelle. E vi garantisco che, letta così, anche i dispregiatissimi ultimi canti del Purgatorio non sono poi da buttar via.

    Rileggo spesso anche Il Principe di Machiavelli. Lo trovo stupendo per forza e concisione. Inoltre, è un capolavoro di concretezza che insegna, se non altro, a guardare il mondo senza fette di salame sugli occhi. È una rilettura che consiglio come esercizio spirituale almeno una volta all’anno per chiunque si lasci sedurre dalle lusinghe del buonismo.

    La rilettura che ho appena terminato in questi giorni non è così alta. È una strana novella intitolata L’Uomo che fu Giovedì. Il suo autore, G.K.Chesterton, è afflitto dalla stessa condanna di Arthur Conan Doyle: tutti e due hanno avuto successo con le storie di un investigatore e ancora oggi sono noti solo per quelle. Conan Doyle ha scritto i gialli di Sherlock Holmes, Chesterton quelli di Padre Brown. Di questi ultimi, i pochi che ho letto sono bastati per farmene una pessima opinione. In sostanza, i gialli di Padre Brown sono brevi raccontini in forma di indovinello, ciascuno dei quali ha lo scopo di illustrare una tesi edificante (indovinelli a parte, mi sembra di leggere una agiografia medioevale sulla vita di un santo). Però Conan Doyle, oltre ai gialli, ha scritto solo romanzi storici e d’avventura; Chesterton ha fatto di meglio.

    Non voglio darmi le arie di chi pretende di aver scoperto un capolavoro misconosciuto: anche all’Uomo che fu Giovedì (UCFG) si può rimproverare il didascalismo, la polemichetta da quattro soldi, l’ironia troppo facile. Sarebbero accuse più che giustificate, eppure non coglierebbero nel segno. Tanto per cominciare, la tesi che il libro sostiene è sì edificante ma tutt’altro che banale. La enuncia il protagonista sin dal primo capitolo.

 

    Io vi dico che ogniqualvolta un treno arriva a destinazione io sento che si è aperta la strada sotto un fuoco di innumerevoli batterie e ha vinto un’altra battaglia contro il caos. Voi dite con disprezzo che, passata Sloane Square, si deve per forza arrivare a Victoria Station. Io dico invece che mille altre cose potrebbero accadere e che proprio per questo ogni volta che arrivo a Victoria ho la sensazione che sia accaduto un miracolo. E quando sento il capostazione gridare “Victoria!”, ascolto una parola che per me non è senza significato. È il grido di un araldo che annuncia una conquista. Per me significa proprio Vittoria, la vittoria di Adamo!                                     

 

    Sarà una fisima tutta mia, ma io adoro chi presenta il buon senso per ciò che veramente è! Come certi personaggi eccentrici di Dickens, Chesterton sa che l’unico modo per rendere interessante il solido, quotidiano, noioso buon senso, è metterne in risalto l’aspetto stravagante e svolge il suo compito con una coerenza inattaccabile. Tutto il racconto dell’UCFG si svolge in modo paradossale. Tutto ciò che viene presentato in un modo si rivela essere il contrario. E se è vero che i mezzi per produrre i ribaltamenti appartengono all’arsenale della letteratura di intrattenimento, è altrettanto vero che Chesterton li usa in modo coerente, cioè paradossale. Nell’UCFG niente viene omesso, niente viene nascosto al lettore: il trucco è esibito, e si dimostra tale nel preciso momento in cui viene messo in atto, tanto che il lettore non può fare a meno di pensare: “D’accordo: è un luogo comune; però si incastra perfettamente con la narrazione, l’atmosfera, il senso della storia. L’autore non avrebbe potuto trarsi d’impaccio in nessun altro modo.”

    Svelare il trucco, mostrarlo nella sua nuda meccanica, significa dargli senso. L’arte del paradosso consiste nel condurre a situazioni critiche, tirarsene fuori con espedienti tradizionali, e far sì che il lettore si domandi se quei trucchi, così noti da essere diventati luoghi comuni, non contengano per caso qualche verità trascurata perché troppo evidente. Come la vittoria di arrivare a Victoria.  

    Se non l’avete mai letto, se il grottesco e il paradossale non vi respingono, se non vi dispiace un racconto che faccia pensare, se non siete anarchici di stretta osservanza (o anche se lo siete), l’UCFG è una lettura che mi sento di raccomandarvi. Lo ripeto: non è un capolavoro. Mettendovi d’impegno potreste indicare almeno una ventina di difetti; ma quando avrete finito di elencare vi resterà dentro un senso di avventura e di libertà che raramente si trova in altri libri. Perché l’avventura di cui si tratta è la ricerca del senso della vita, e la libertà che trascorre da una pagina all’altra è la libertà contenuta nel mistero della nostra esistenza. Tanto per restare nel paradossale, ritrovo qui la libertà dell’innominato cowboy protagonista di Meridiano di sangue, un libro lontano mille miglia dall’UCFG.

    Non voglio anticipare troppo per non guastare il piacere della scoperta a chi ancora non lo conosce, ma la fuga di Domenica in mezzo a Londra a cavallo di un elefante, e poi in mongolfiera attraverso le campagne del Surrey, è una delle cose più misteriose e divertenti che io abbia mai letto.

  

                                            Come punire i capi?                                                         

 

    I capi di stato possono arrivare al potere in modo democratico oppure no. Tanto per fare un paio di esempi: Hitler ci arrivò con le elezioni; Juan Carlos, l’attuale re di Spagna, fu designato da Francisco Franco come suo successore “a titolo di re”. La legittimità dei capi non dipende dal modo con cui arrivano al potere: dipende dal consenso (o dal non-dissenso) del loro popolo e degli stati che li riconoscono mandando ambasciatori. Allo stesso modo, le costituzioni hanno un bell’esigere votazioni in Parlamento, ma per licenziare un capo può bastare uno scandalo, un litigio, una congiura di palazzo. Succede perfino che un capo venga tolto di mezzo per le spicce (è successo a Kennedy, Rabin, Palme, ecc. ecc.). Viceversa, può capitare che un capo rimanga al potere anche dopo una grave crisi, o addirittura una guerra perduta (è il caso di Nasser, di Assad, dell’imperatore Hirohito), se il suo popolo non gli si rivolta contro e lui riesce a non cadere in mano ai nemici. Ciò che legittima il potere è la persistenza del consenso.

    Secondo me questo significa che i capi di stato non sono legibus soluti ma sono soggetti a leggi diverse.

    Ora, la storia è piena di capi di stato che, per motivi più o meno nobili, per follia o per insipienza, vanno a cacciarsi in situazioni dalle quali non possono uscire se non con la morte. Provocano una guerra, la perdono, si lasciano catturare e vengono giustiziati. Ciò che mi atterrisce, in questi casi, non è tanto la loro fine, quanto l’incapacità dei vincitori di assumersi le loro responsabilità.   

    Che senso ha catturare il capo dei vinti e processarlo? In nome di quale legge si dovrebbe giudicare? Se per portare quell’uomo sul banco degli imputati l’unico modo era fare una guerra, una volta fatta, e vinta, il giudizio è già stato dato dalla Storia. In queste condizioni qualunque processo è una farsa il cui unico scopo è accoppare il prigioniero (o metterlo in galera e buttar via la chiave) proclamando di farlo a buon diritto.

    È questo il motivo per cui la legittimità dei tribunali internazionali sarà sempre contestata. Paradossalmente, per un simile tribunale l’unico modo di accreditarsi sarebbe una assoluzione. Ma qualcuno pensa che Milosevic (e Saddam Hussein, e Nicolae Ceausescu, ecc. ecc.) avessero la più lontana possibilità di essere assolti? Figuriamoci Karadzic.

    Comunque sia formata la giuria, non è possibile un giudizio equo per i capi di stato sconfitti. Se un capo trascina il suo popolo in un’avventura sbagliata, i vincitori disporranno di lui; è inevitabile. Ma lo faranno per diritto di conquista militare, non per una pretesa superiorità morale. La responsabilità di un’uccisione non si può nascondere dietro una sentenza, né si possono invocare altissimi principi per giustificare una condanna già scritta nei fatti.

    Chi vince una guerra pretende di essere migliore di chi l’ha persa. Qualche volta è vero. Qualche volta no. Ma non può stabilirlo un tribunale: è compito della Storia.

 

              Meditazioni sotto l’ombrellone. La folgore di Bolt.

 

    Meno male che c’era lui, Usain Bolt, a ridare senso all’atletica leggera. Mentre guardavo in tv i campionati mondiali di Berlino, tornavo su domande che mi faccio da almeno quarant’anni. Che minchia mi viene a significare (per dirla alla Camilleri) il lancio del martello? Il salto con l’asta è roba da stadio o da circo? E il salto triplo, di quale strana esigenza sarebbe espressione?

    D’accordo: il martello è un’antica arma nordica e ancor oggi, in certe feste scozzesi, si fanno gare di lancio del martello (quello vero, con il manico rigido). Ma cosa aggiunge il martello a peso, disco e giavellotto? Se veramente sfruttare la forza centrifuga è una scoperta fondamentale della civiltà umana, allora tanto vale rendere specialità olimpica il lancio del sasso con la frombola (nobile attrezzo usato da Davide contro Golia). A parte il fatto che un po’ di forza centrifuga la sfrutta anche il discobolo.

    D’accordo: negli ultimi diecimila anni ci sarà pure stato qualcuno che abbia usato una pertica per saltare in cima a un tetto, ma non risulta che la cosa sia mai andata al di là dell’esibizionismo. Insomma: già saltare con l’asta rigida era un esercizio di scarso significato. Ora che l’asta è diventata una molla non si capisce più cosa c’entri con l’atletica: è roba da ginnastica o da circo, come i volteggi agli anelli o i voli da un trapezio all’altro.

    Per amore di simmetria, avrei voluto piazzare un “d’accordo” anche per il salto triplo, ma non riesco a scovarne neanche uno. Perché triplo e non doppio o quadruplo? Fare di seguito jump, hop e step ha un significato particolare per l’essere umano? Vorrei sapere chi ha inventato questa specialità, che cosa si proponeva di fare, che senso pensava di darle. Sinceramente, credo che volesse soltanto spettacolarizzare il salto in lungo.

    E non è finita qui. Cosa vorrà mai dire una corsa su una superficie artificiale con ostacoli artificiali? Una vera corsa a ostacoli si svolge in campo aperto con ostacoli di varia natura: fossi, staccionate, muretti. Una corsa come i 3.000 siepi è perfettamente sensata in campagna con ostacoli naturali. Dentro a uno stadio suona falsa come fare sesso con la donna bionica. E cosa mai significherà correre 100, 110 o 400 metri sul tartan, con ostacoli tutti uguali, tutti alla stessa distanza, che si abbattono appena li sfiori e potresti anche buttarli giù tutti senza cadere o essere squalificato?

    Appresso: qualcuno mi spieghi perché si allestiscono gare di corsa su distanze ibride come i 200, gli 800 e i 5.000 metri. Lasciatemelo dire chiaro e tondo: l’unico scopo di queste gare è lo spettacolo.

    Se dipendesse da me (ferma restando – è ovvio – la libertà di organizzare meeting di atletica circense con le specialità spettacolari), ridurrei le discipline olimpiche alle corse piane sui 100, 400, 1.600 e 10.000 metri: una gara di scatto, un giro di pista, un mezzofondo pari a circa un miglio, una gara di fondo. Quanto ai concorsi, alto, lungo, peso, disco e giavellotto sono più che sufficienti. Vogliamo aggiungere due gare di corsa campestre, una corta e una lunga? Vabbe’. La maratona. E stop.

    Ciliegina: se uomini e donne corrono gli stessi 100 metri e gli stessi 10.000, se saltano in lungo e in alto allo stesso modo, perché diavolo devono usare pesi, dischi e giavellotti di misura diversa? Dice: ma se dài a una donna un peso di 7 e più chili non riuscirà a gettarlo a 20 metri. E allora? Lo getterà a 12. C’è qualcosa di male, di scandaloso, di offensivo? No. Ma sarebbe meno spettacolare.

    E qui casca l’asino: si fa atletica o si fa spettacolo? Ohibò! Non lasciamoci travolgere dalla demagogia: siamo persone disincantate che guardano in faccia la realtà. Certo, l’atletica si fa ANCHE per lo spettacolo.

    Ma allora diciamola tutta, la verità: lo spettacolo che ci aspettiamo dall’atletica, lo spettacolo che ci emoziona, che ci fa saltare sulla sedia e applaudire, è quello di Bolt che polverizza il record dei 100, non quello di un funambolo appeso a un palo elastico, di un molleggiato che rimbalza tre volte di seguito o di una donna che lancia lontano un attrezzo alleggerito.        

 

                                          Michelle ma belle

 

    Non mi spaventano le cose in se stesse, ma le esagerazioni. L’adulazione, per esempio, è qualcosa di connaturato nell’essere umano e non è facile trattenersi dall’adulare chi riscuote la nostra sincera ammirazione. Esistono però dei personaggi fastidiosi e meschini che si illudono di trarre chissà quale profitto dall’adulazione, arrivano ad autoconvincersi delle bugie che spacciano e insistono esagerando fino a smarrire qualunque aggancio con la realtà.

    Devo aggiungere che, da un altro punto di vista, le esagerazioni mi intrigano perché mi insinuano il dubbio che sia io a non aver capito niente, a esser rimasto fermo su paradigmi obsoleti, a non avere intuito che l’evoluzione del senso estetico è arrivata a una svolta. È sempre possibile, no? E poi, interrogarsi, mettersi in questione non fa mai male.

    Mosso da questo scrupolo, mi domando: perché limitare i miei interessi alla storia e alla letteratura? Il campo in cui si esplica la cultura è il presente, dunque non c’è motivo di fare gli schizzinosi con l’attualità. Ogni tanto bisogna pure confrontarcisi e aggiornare i propri parametri.

    Senonché, dopo mesi di esame di coscienza, articoli, fotografie e servizi in tv, la mia sincera opinione rimane la stessa: Michelle Obama è proprio un disastro. Giornali, televisioni e riviste hanno un bell’insistere: “Ma com’è bella Michelle! Ma com’è elegante Michelle!”. A me pare che abbia un faccione da luna piena e che dall’ombelico in giù sia scoppiata, smisurata, monumentale. Se non bastasse, si veste come una pazza e di fianco a suo marito (magro, atletico, con gli abiti che gli “cadono” a pennello) fa la figura di una merciaia ambulante. Eppure dimenticabili giornaliste maestre in piaggeria arrivano a sostenere che Michelle avrebbe uno “stile”, che sarebbe vestita “cheap and chic”. Lasciamo perdere.

    Naturalmente tutto questo non significa gran che. Magari alla sera, quando Barak si infila a letto con la faccia di chi per tutto il giorno non ne ha indovinata una, è Michelle che gli suggerisce le mosse giuste per tornare a cavalcare l’onda del successo (?). Magari coltivare ortaggi alla Casa Bianca non è stata una scemenza di sua invenzione, ma le è stata suggerita da qualche perfido consigliere che tirava a rovinarle l’immagine (!). Magari allungare un braccio sulle spalle alla regina d’Inghilterra non è stato un gesto da sciampista, ma rientrava in un disegno politico (!?). Tutto può darsi, e dipenderà da lei confermare o smentire certe impressioni.

    Ciò che invece mi sembra fuor di dubbio è la totale inattendibilità dei giornalisti e giornaliste, o sedicenti tali, che da mesi non perdono occasione per intonare panegirici alla moglie dell’uomo più potente del mondo. Com’è bella Michelle vestita di rosso! Com’è elegante Michelle di fianco a Carla Bruni! Com’è anticonformista Michelle in calzoncini corti!  

    Ma perché ci si arrampica sugli specchi per sostenere il contrario dell’evidenza? Perché non si dice semplicemente che Michelle Obama è una donna grassa e priva di gusto come quasi tutte le americane? Perché non ci si limita a tacere quando fa una gaffe, invece di gabellare per anticonformismo la sua sguaiataggine? Possibile che quando c’è di mezzo la Casa Bianca (sotto l’attuale e le precedenti amministrazioni) nessuno abbia il coraggio di usare l’appellativo adatto per vecchi e nuovi Trimalcioni?  

    Se non abbiamo il coraggio di chiamare cafoni i cafoni (perché i padroni del vapore sono sempre loro), la desolante conclusione è che noi siamo anche peggio dei cafoni. 

 

              Meditazioni sotto l’ombrellone. Gli intellettuali.             

 

    Non ho letto i libri di Scarpa e di Scurati. Avevo intenzione di leggerli se non altro per documentarmi, ma il dopo-premio Strega con lo strascico delle polemiche mi ha fatto passare la voglia.

    Ammetto che di Scurati non ho mai letto niente, anche perché le recensioni non mi hanno convinto a spenderci tempo e soldi. Sarà stata colpa dei recensori? Non credo. È più probabile che sia stata colpa degli argomenti scelti da Scurati. Lui li avrà pure trattati come meglio non si poteva, ma io non sono disposto a leggere qualunque cosa e i soggetti che hanno ispirato lui non interessavano a me, quando addirittura non mi respingevano. Tant’è vero che non ricordo neanche quali fossero.

    Di Scarpa ho letto “Occhi sulla graticola”, “Amore marchio registrato” e “Kamikaze d’occidente”. Poi basta. L’ho conosciuto anche di persona, Tiziano, e posso dire che è un vero signore, tanto formalmente gentile quanto fermo nelle idee in cui crede. Questo però non mi impedisce di coltivare un’idea di letteratura diversa dalla sua. 

    L’uscita di Scurati che, a giochi ancora da iniziare, si autoproclamava vincitore dello Strega mi era sembrata una mossa per far propaganda non tanto al suo libro quanto al premio e a tutti i libri della cinquina. Ma non mi era piaciuta. Intendiamoci: non sono una “anima bella” e so bene che la fortuna e il merito hanno bisogno anche di qualche spinta; però credo che le spinte e perfino le gomitate si possano dare con un minimo di buon gusto.

    D’altra parte il meccanismo del premio letterario comporta di necessità una certa sovraesposizione del vincitore: perché mai Scarpa avrebbe dovuto rifiutare di essere intervistato da una rivista e di scrivere un articolo per un grande quotidiano? Forse avrebbe potuto fare a meno di ergersi a giudice delle patrie lettere, di rivendicare alla letteratura una generica funzione politica, di lamentare la presunta esclusione di Tizio, Caio e Sempronio dal giro della grande editoria. Ma la posizione di Scarpa è nota, è quella da anni, e non si può pretendere che, per il fatto di aver vinto lo Strega, uno rinunci a ribadire ciò che ha sempre detto.

    Stando così le cose, può darsi che Scurati leggendo l’intervista di Scarpa si sia sentito provocato, oppure può darsi che abbia colto l’occasione per tenere alto ancora per qualche giorno il termometro della polemica (che porta visibilità e vendite). Fatto sta che ha replicato accusando Scarpa di “chiagnere e fottere”, una frecciata ingenerosa, se volete, che però colpisce un nervo sensibile. Personalmente sono convinto che Scarpa non abbia mai neppure pensato a una strategia simile e immagino che, sentendosela rinfacciare, sarà montato su tutte le furie. Ma è un fatto che, se si vuol dire qualcosa (qualunque cosa) contro il sistema, bisogna pur farsi sentire; e l’unico modo è usare i canali mediatici del sistema stesso. È inevitabile, ma è una contraddizione che incrina la credibilità: come? critichi il sistema e contemporaneamente lo utilizzi? dov’è la coerenza?

    Già. Ma allora che si può fare? Come evitare lo scoglio?

    Non lo so. Da cinico confesso e professo quale mi onoro di essere, sono portato a diffidare delle indignazioni e, da cultore della filosofia hegeliana, considero la contraddizione come il motore dell’evoluzione verso lo Spirito Assoluto. Se una strategia (compreso il chiagni e fotti) ha successo, deve avere una motivazione “storica” alle sue spalle. Altrimenti basterebbe chiagnere per fottere sempre. (Magari!)

    Semmai ho una curiosità: possibile che le contestazioni del sistema debbano sempre avere il tono della lamentazione moralistica? Certo, fare la morale agli altri è comodo e va diritto al cuore del pubblico. Però, per sostituire A con B, non basta strillare: “Vergogna! Il sistema mette la museruola a B!”. Bisognerebbe almeno spiegare perché B sarebbe meglio di A.

    La controindicazione è che, se non ci riesci, fai la figura del piffero di montagna.

    Ma additare un nemico è cento volte più facile che proporre in positivo. Non c’è neanche bisogno di portare delle prove. Una volta colpito il bersaglio, se l’avversario stramazza si suppone che tu sia il migliore, per il semplice fatto che sei rimasto in piedi. E anche se non cade puoi sempre atteggiarti a Davide contro Golia.

    Quindi, tanto vale colpire: non ci si perde niente.

 

                                      Sesso e potere                

 

    Come sanno i ventitre lettori di questo blog, qui non si fa politica. E infatti questo è un post di costume. È vero che di costume politico si tratta, ma non è colpa mia se il sesso dei politici fa sempre più notizia e la funzione del giornalismo è decaduta dall’ermeneutica al gossip.

    Ho cominciato a scrivere questo post a fine agosto, ma poi gli avvenimenti si sono susseguiti secondo la logica della guerra per bande e ho dovuto prendere atto che per dire cose sensate su un’attualità in divenire bisognerebbe avere la sfera di cristallo.

    Può darsi che i prossimi rivolgimenti smentiscano le mie opinioni. Oppure no. Può darsi un po’ di tutto. Ma, comunque sia, non mi sembra il caso di buttare nel cestino un discorso concludente. Eccolo qua.

 

    Giovedì 20 agosto

    Da quando il nostro beneamato presidente del consiglio, con l’irresponsabilità della quale mena vanto, si è tirato in casa delle prostitute che, oltre a fornirgli piacevolezze, ne hanno registrato e reso pubbliche le confidenze, mi vien da ridere a pensare che strizza devono avere in corpo tutti i padreterni senza distinzione di età, sesso e colore politico. Quanti sfizi si saranno tolti negli ultimi tempi? Quante/i occasionali compagne/i avranno destramente manovrato registratori e telefonini di ultima generazione? A occhio e croce, io direi che tutti i vip dormono male la notte.

    E per amor del cielo non lasciamoci fregare dal patriottismo di parte. Ahimé, la carne è debole dappertutto e saremmo ingenui se pensassimo che i nostri beniamini siano casti e puri. Può essere una verità difficile da digerire, ma è comunque una verità: non basta essere femmina, anziano o appartenente a una fede politica bacchettona per essere al riparo dalle tentazioni.

    Ripeto: i fatti di questi giorni mi hanno fatto sorridere. Ricordo una nota giornalista Rai, parente stretta di un austero segretario di partito, della quale si venne a sapere con quanto gusto si era fatta il “merolone”. Ricordo un presidente del consiglio bollato come “cinghialone” per aver usato o abusato dei sollazzi di una supergnocca televisiva. Ricordo un portavoce di governo paparazzato mentre andava a travestiti. Ricordo un (allora) magistrato che si rilassava nella garçonnière di un bancarottiere. Ricordo un deputato di un partito cattolico che si portava in albergo due compiacenti gentildonne e una discreta dose di cocaina. Eccetera, eccetera, eccetera. Cosa anche peggiore (dal mio punto di vista), a Montecitorio e dintorni non c’è soltanto chi se la spassa ma addirittura chi per combattere le tentazioni (?) ricorre al cilicio (brrr!).

    Nel ripassare a memoria questo giocondo panorama, mi corre l’obbligo di confessare che quando Bill Clinton fu investito dallo scandalo Lewinsky la mia reazione istintiva fu un chissenefrega grosso così. OK, l’uomo più potente della terra aveva approfittato della sua posizione e, messo alle strette, si era difeso in un modo maldestro e arrogante. Ma la signorina Lewinsky era maggiorenne e vaccinata, e quando si inginocchiava sotto la scrivania di mr. President sapeva quel che faceva. Quanto a Hillary, poi, la Rodham&Clinton SpA è al di là di certe piccolezze. Il gatto e la volpe sono troppo affamati di potere per farsi condizionare da un flirt.

    Del resto, cosa vogliamo? Che gli uomini (e le donne) di potere siano candidi gigli virginali? Mah. Che cosa dovremmo dire di quel cardinale arcivescovo di Parigi del quale ricordo il nome, ma lo taccio, che morì di infarto nell’alcova di una prostituta d’alto bordo? E che dire di quel presidente del consiglio della Terza Repubblica francese al quale, ai tempi della belle époque, capitò lo stesso infortunio? E che dire di John Kennedy (per non parlare dei suoi fratelli e nipoti), il quale – vivaddio – non si perdeva dietro alle stagiste o alle escort, ma si acchiappava nientemeno che Marilyn Monroe?

    Già, che dire? La battuta è fin troppo facile.     

 

sabato 29 agosto

Mannaggia! Non faccio a tempo a scrivere una cosa che subito la realtà mi raggiunge e mi sorpassa. Ma chi sono, Nostradamus? Ho appena scritto che migliaia di padreterni devono sentirsi traballare il seggiolone sotto il sedere, ed ecco qua: Vittorio Feltri viene a sapere che il direttore del quotidiano dei preti da una parte canta nel coro dell’indignazione contro “papi”, dall’altra insidia i giovinotti e si fa condannare con sentenza passata in giudicato. E naturalmente lo sbatte in prima pagina.

    Non basta: l’inquisitore di destra scopre pure che il direttore di Repubblica, non del tutto candido, ha comperato un appartamento principesco dichiarando al fisco molto meno dell’importo pagato. E sbatte in prima pagina anche lui.

    Reazioni e controreazioni: killeraggio, attacco disgustoso, indignazione. Dimissioni. Gli strombazzatori di miserie umane, imperterriti, proclamano di non essere affatto pentiti. Mala tempora currunt. Politicanti, intrallazzatori e pennaioli, tremate tremate: Robespierre e Savonarola sono tornati.

    Ma i Torquemada di destra e di sinistra sono imprevidenti o soltanto arroganti? Ci vuole tanto a immaginare che qualche altarino devono avercelo pure loro, e prima o poi quel che è fatto è reso?

    Anche qui non serve Nostradamus per immaginare come finirà questa buriana: nella noia. Dopodiché fra le macerie di una guerra inutile continueranno ad aggirarsi politicanti, faccendieri, giudici, giornalisti, ecc. ecc. con tutti i vizi delle umane genti, esattamente come prima. Avranno almeno imparato che non serve a niente sbattere in prima pagina chi scopa, con chi scopa, e a che prezzo? Non ci spero troppo. La politica è gioco al massacro, sadomasochismo allo stato puro. Meglio starne alla larga.

 

venerdì 23 ottobre

A quanto pare, il governatore di vattelapesca s’arrazza privatamente, quattro caramba lo spiano e lo ricattano, il ROS spia gli spioni e li incastra. Intanto, il comandante in seconda delle truppe mastellate va sotto inchiesta per la sua chilometrica lista di raccomandazioni. A chi si domanda quanto ci vorrà perché tutte queste storie smettano di finire in prima pagina rispondo: un tempo eterno, infinito.

    Proprio così. Se non interviene alla svelta un generalizzato moto di nausea per queste miserie, il futuro che ci aspetta è questo: d’ora in avanti gli uomini (e le donne) di responsabilità dovranno essere sessualmente astinenti (o segaioli?), non faranno raccomandazioni (figuriamoci!), non ruberanno neanche per il partito (e io ci credo, credeteci tutti!).

    A chi si meraviglia che solo in Italia succedano queste cose rispondo insieme a Cossiga: non è vero, succedono dappertutto; solo che all’estero ne diventa pubblica una su cinque, in Italia tutte, e in più qualcuna che non è vera.

    Sarà sempre così, almeno fino a quando i Savonarola nazionali non avranno imparato a distinguere l’ipocrisia dall’opportunità.

     

                                             Cosa resta del futuro?

 

    Partiamo pure dalle conseguenze e citiamo esempi macroscopici: Clinton, Sarkozy, Berlusconi. Dov’è andato a finire il decoro dei capi di stato? Che fine hanno fatto gli statisti che incarnavano la cultura “alta” del loro popolo, i MacMillan, gli Adenauer, i de Gaulle? Non ci sono più.

    In tutto il mondo la volgarità avanza incontrastata. Gli uomini politici non sanno più cosa sia il bon ton. La polemica è diventata rissa. Le ideologie si sono sfarinate; destra e sinistra si sono ridotte a comitati d’affari tesi a conquistare e mantenere il potere a tutti i costi per poi spartirlo senza avere uno straccio di programma politico. E allora per attaccare il nemico diventa lecito anche frugare nel suo privato.  

    Per essere sinceri, lo si è sempre fatto; ma la novità dei giorni nostri è che chi si trova sotto attacco reagisce con le stesse armi.

    Non sta a me dire se è giusto o sbagliato. Non mi interessa stabilire se ha cominciato Tizio o Caio. Personalmente, credo che la cosa sia iniziata molto tempo fa, sia emersa con i funerali della principessa Diana e sia diventata pane quotidiano con il trattamento riservato dalla stampa alle performances orali di miss Lewinsky. Non mi soffermo sulla scansione temporale o sul singolo avvenimento. Voglio soltanto sottolineare che la realtà in cui ci troviamo è questa.

    Qualcuno avrà pure dato inizio alla slavina, ma anche se fossimo tutti d’accordo nel dire che ha cominciato X (e tutti d’accordo non saremo mai), lo smottamento ormai c’è stato ed è irreparabile. Ci piaccia o no, dobbiamo abituarci a vivere secondo regole nuove.

 

                               L’effetto Diana colpisce ancora

 

    L’Italia si esalta o si deprime per una sentenza o per un battibecco televisivo, e il qui presente cinico confesso scuote la testa: in questo benedetto Paese non usciremo mai di minorità?

    Poi però succedono nel mondo cose tali da lasciarmi di stucco: evidentemente sono io che non capisco un tubo. Prendiamo il premio Nobel a Barak Obama, per esempio. Il Nobel, di tutte le specie, è stato negato a tanti che l’avrebbero ampiamente meritato ed è stato concesso a tanti che lo meritavano pochino. Ma di solito anche i premiati immeritevoli avevano per lo meno fatto qualcosa.

    Io spero, tutti speriamo, che in futuro Obama faccia molto per la pace, ma oggi come oggi non ha ancora cominciato a muovere i primi passi. Come si suol dire, per i miracoli si sta attrezzando.

    Qualcuno dirà: non importa, Obama è il simbolo del riscatto dei neri. Vero, ma che c’entra il Nobel per la pace? Si premia chi conduce una battaglia (per esempio Martin Luther King, Desmond Tutu o Nelson Mandela), non chi beneficia della vittoria. Altrimenti è come dare una medaglia non all’eroico bagnino ma al bagnante che affogava.

    E poi, scusate: Obama resterà in carica per altri tre anni e magari verrà rieletto. Potrebbe far la pace con Al Qaeda e con Ahmadinejad oppure, Dio non voglia, potrebbe infilare un fiasco dietro l’altro. Che bisogno c’era di assegnargli il premio in anticipo? Non sarebbe stato meglio aspettare un anno o due? Se proprio non c’erano altri candidati meritevoli, non si poteva dire chiaro e tondo: “Secondo noi quest’anno il premio non l’ha meritato nessuno”? I premi seri fanno così.                                                                      

    Macché. Le cose non funzionano più come una volta e il qui presente cinico farà bene ad applicare a se stesso uno dei suoi principi ispiratori: la realtà va dove le pare e sei tu che ti ci devi adeguare. Non c’è niente di più idiota dell’indignazione quando ci si trova di fronte a un processo irreversibile.

    E credo che questo sia il caso. Il mondo ha cambiato il suo modo di porsi nei confronti della realtà. Bisogna capirlo e adeguarsi.

    Conto di parlarne diffusamente nel prossimo post.

                                        

                                                  Trial&Error

 

    Imbarbarimento della vita politica? Certamente. Inversione dei parametri etici? Può darsi. Ma non si tratta di una improvvisa accelerazione. Al contrario, è qualcosa che viene da lontano. E non lasciamoci suggestionare da teorie fantasiose come la “mutazione antropologica”: gli uomini sono sempre quelli, non sono mutati neanche un po’.

    Ma allora cos’è successo? Niente di speciale: il mondo sta sperimentando un cambiamento simile a quello che spinse Platone a parlar male dell’invenzione della scrittura. Nel quinto secolo a.C. si temeva che la scrittura deteriorasse il livello culturale delle élites, il cambiamento di oggi rischia di farci regredire tutti quanti nella trivialità. Ma non è una mutazione antropologica (ammesso e non concesso che questa espressione significhi qualcosa). Si tratta invece di un comunissimo fenomeno commerciale: l’allargamento del mercato deprime la qualità del prodotto.

    E qual è il cambiamento simile all’invenzione della scrittura? In che consiste la rivoluzione silenziosa che stiamo vivendo?

                                                             ***

    Fino a una trentina d’anni fa siamo vissuti in un’epoca aristocratica. Senza calcolatrici tascabili, computer, internet, cellulari multifunzione, l’apprendimento esigeva l’uso della memoria e della logica. La scuola si basava sul principio che era meglio ripetere un anno (per capire ciò che non entrava in testa) piuttosto che essere promossi restando ignoranti.

    Da quando la tecnologia mette a disposizione sempre maggiori supporti per la memoria e un sempre maggior numero di risposte bell’e pronte, ciò che un tempo era considerato “cultura” è stato degradato a “nozionismo”. Siamo entrati nell’era del “trial & error”, basata sul principio che tutte le risposte possibili stanno nel computer: per trovare quella giusta, provale tutte e vedrai che prima o poi ci prendi. Dunque, a che serve esercitare la memoria? Che bisogno c’è di ragionare?

                                                           ***

    Il modo più semplice per accorgersi del cambiamento è osservare come si sono evoluti i quiz in televisione. I quiz di quarant’anni fa premiavano chi sapeva dire in quale opera Verdi usò per la prima volta il controfagotto. Domanda secca, niente soluzioni preconfezionate tra cui scegliere, niente “aiuti”, al primo sbaglio si va a casa.

    Osservate un qualunque telequiz contemporaneo e fate il paragone. Il livello culturale e la capacità di ragionare contano sì e no per il 20%. Il resto è fortuna, aiutini, domanda di riserva, ecc. ecc. Supponendo che i format siano tarati sul livello culturale medio, vengono i brividi a pensare di metter piede in un ufficio pubblico, in un ospedale, in un tribunale: chiedendo un certificato, una radiografia, l’estratto di una sentenza, rischiamo di sentirci rispondere: “Provi questo. Se non va bene glielo cambio”.

    Cinquant’anni fa chi usciva dagli esami di quinta elementare sapeva almeno le tabelline e l’analisi logica, oltre alle deprecate poesie a memoria. Il mese scorso, parlando con una professoressa di scuola media, mi sono sentito fare un quadro lacrimevole del livello degli allievi che si vede arrivare ogni anno dalle elementari. (Ma le scuole elementari italiane non erano “di eccellenza” a livello europeo? Figuriamoci le altre.)

    Spesso, leggendo una mail o un commento su un blog, capita di imbattersi in fior di strafalcioni. Vabbe’, scrivendo in fretta e furia può capitare. Ma fino a trent’anni fa non succedeva di leggere su quotidiani a diffusione nazionale “non c’è la” al posto di “non ce l’ha”. Così come non era mai successo che al concorso per l’ammissione in magistratura restasse vacante più della metà dei posti perché su un migliaio di candidati (tutti dottori in giurisprudenza) più di novecento “non sapevano scrivere in italiano” (sic!). 

    Con l’arrivo della televisione, degli altri supporti tecnologici e dei nuovi criteri scolastici, la platea dei fruitori di cultura si è allargata e livellata. Inevitabilmente, verso il basso.

                                                              ***

    Come reazione, le nostalgie impazzano. Non è vero che gli “sceneggiati” televisivi degli anni 50 e 60 fossero tutti dei capolavori ma, certo, paragonati alle fiction contemporanee, sembrano la Divina Commedia. E si capisce: la maggior parte delle sceneggiature odierne sono scritte per un pubblico appiattito sulla fascia più bassa, quella che una volta leggeva i fotoromanzi. Solo raramente un bravo attore riesce a far dimenticare la miseria dei plot, il simil-dialetto, le caratterizzazioni alla Ciccio e Franco, ecc. ecc. 

    Ma a che serve rimpiangere i bei tempi andati? La realtà ha una sua dinamica (per lo più degenerativa) che va riconosciuta per inserircisi, senza illudersi di bloccarla o deviarla. Chi frequenta i lit-blog conosce a memoria gli aristocratici lamenti degli intellettuali offesi dalla volgarità imperante, che quasi rimpiangono la tv didascalica di Bernabei. Sussulti di dinosauri in agonia. Piaccia o no, la realtà è cambiata e siamo noi che dobbiamo adeguarci.

    La realtà in cui siamo irrimediabilmente immersi non lascia spazio alle aristocrazie culturali che abbiamo conosciuto finora. Riposino in pace. L’era del trial&error ne conoscerà altre, che nasceranno a prezzo di chissà quali travagli. Saranno aristocrazie d’altro genere: spregiudicate o farisee (secondo i punti di vista), colte o ignoranti (anche questa è questione di opinioni!), riservate o gaudenti.

    Ohibò! Ma allora cosa dobbiamo pensare? Il futuro è delle veline e dei tronisti? Davvero i parametri etici si sono capovolti?

    Non chiedetelo a me. L’unica cosa che so per certo è che, qualunque sia la strada che la realtà imbocca, nessuno può illudersi di fermarla. A volte capita perfino che il ricambio di un’aristocrazia porti una ventata di rinnovamento e di intraprendenza. Ma non è una legge inderogabile e, purtroppo, queste cose si possono giudicare soltanto a posteriori.      

 

    

                                  Cinque avventurieri italiani 

 

    Basterà leggere una ventina di libri per affacciare una tesi storica? No. È probabile che venti non siano sufficienti. Ma allora quanti? Duecento? Duemila?

    Se la tesi fosse azzeccata ne basterebbero due, o anche nessuno. Ma per dire che una tesi sta in piedi ci vogliono prove, e il più delle volte le prove stavano nella testa dei protagonisti, che si sono guardati bene dal metterle per iscritto. O quando hanno scritto qualcosa, hanno mentito deliberatamente. Oppure ci hanno pensato i posteri a far sparire tutto ciò che contrastava con l’immagine imbalsamata nel mito.

    L’oggetto della mia tesi sono alcuni uomini che col trascorrere del tempo sono stati trasformati in monumenti, esempi, simboli integralmente e perennemente uguali a se stessi, dalla culla alla bara. Il mito ci ha consegnato un Napoleone genio della guerra; un Casanova amante irresistibile; un Cagliostro intrigante di successo; un cardinale Alberoni totalmente privo di scrupoli; un Cristoforo Colombo nuovo Ulisse che non ha paura dell’ignoto.

    Ma è proprio così? Colombo non ha mai avuto paura, Casanova ha sempre trionfato nei cuori e nelle camere da letto, Napoleone non si è mai perso d’animo? Io non ci credo. E non ci credono neanche i biografi che riportano la realtà dei fatti, anche se poi si sforzano di minimizzare ciò che va a detrimento dell’immagine consolidata. Ma soprattutto i primi a non credere al mito sono i nostri eroi. Basta leggere le loro autobiografie come se fossero romanzi, e cioè fingendo di non sapere come va a finire. Basta ricordare a ogni pagina che solo guardandola a posteriori la Storia lascia intravedere una linea di sviluppo, e constatare (o leggere tra le righe) che a quello sviluppo il protagonista quasi mai aveva pensato.

    La mia tesi è che Napoleone, Casanova, Cagliostro, Alberoni e Colombo avevano la stessa mentalità; che questa mentalità era tipica dell’avventuriero italiano; che era identica a quella di mille altri avventurieri pieni di genio, intuito, audacia, che si gettarono nel mondo con l’unico obbiettivo di agguantare un po’ di successo personale, e stop.

    Io sostengo che nel perseguire il loro sogno di autoaffermazione i cinque supereroi di cui sopra non ebbero meriti particolari: furono soltanto i più fortunati.

                                                              ***

    Riconosco che la tesi è scandalosa. Che c’entra la fortuna con il mito di personaggi che sono diventati veri e propri archetipi umani? Questi uomini sono i migliori esempi di “trionfo della volontà”! Nessuno più di loro ha costruito il successo con le proprie mani, sormontato difficoltà, sopportato la malasorte, piegato la realtà ai suoi progetti. Chi non ricorda a quante porte ha bussato Cristoforo Colombo? O quante battaglie ha combattuto Napoleone? E Alberoni, pur di uscire da una curia di provincia, non è arrivato a baciare il culo (e non per metafora) del generale Vendôme?

   Eppure, questo modo di vedere le cose non è viziato dal fatto che ormai sappiamo come andò a finire? Proviamo a metterci nei panni dei nostri eroi, non quando hanno toccato l’apice del successo, ma quando erano dei perfetti sconosciuti.

    Giuseppe Balsamo, scugnizzo palermitano cacciato da scuole e collegi, è ridotto a vivere di truffe e forse anche a prostituirsi nei porti levantini. Quando rientra in Italia si dà alla nobile professione di falsario e sfruttatore di donne. Per anni vive alla giornata, senza progetti, senza speranze. Trascina la sua esistenza cercando fessi da buggerare per mettere insieme il pranzo con la cena. L’unica cosa che ha in mente è placare la fame, ma spesso non ci riesce e deve saltare i pasti. Un giorno incontra Casanova, ben vestito, ben pasciuto e pieno di quattrini: tenta di rifilargli un documento contraffatto e di mandarlo a letto con sua moglie. È lontano mille miglia dall’immaginarsi conte di Cagliostro e Gran Cofto della massoneria di rito egiziano.

    Dal canto suo, il sottotenente Napoleone Buonaparte (non ancora Bonaparte) non è messo meglio. Discendente da una famiglia di origine veneto-emiliana-toscana, figlio di un avvocato squattrinato, proveniente da un’isola diventata francese da pochi anni e già ribellatasi un paio di volte, iscritto alla scuola di guerra grazie all’elemosina di un re al quale sta per essere tagliata la testa. Tutto sembra andare a rovescio. Altro che mirabolanti futuri! C’è da fare salti mortali per salvare la pelle. La rivoluzione è un’opportunità, ma è anche un rischio mortale: da che parte schierarsi? A Parigi il sottotenente Buonaparte non ha santi in paradiso.  

    Prova a ripartire da Ajaccio e gioca le carte più estremiste. Si butta in braccio alla montagne, a Robespierre. Il gioco sembra funzionare e Napoleone ottiene la sua prima opportunità all’assedio di Tolone. Ma il 9 termidoro Ropespierre è detronizzato e chi si era legato al suo carro oltre alla carriera rischia anche la testa. Buonaparte è un vaso di coccio tra vasi di ferro, e lo sa. È pieno di dubbi, timori, desiderio di tenere il piede in troppe scarpe. Quali sono i suoi piani fino questo momento? Nessuno. Il suo unico scopo, quando Robespierre viene giustiziato, è salvare la pelle.

    Forse, in un momento così drammatico, non riesce neanche a dare il giusto peso a una circostanza: i generali monarchici (cioè quasi tutti!) sono scappati all’estero oppure intrigano e si fanno cogliere sul fatto. Al comando delle armate francesi ci sono generali di nomina politica, che non hanno frequentato la scuola di guerra. Alcuni sono ottimi tattici, nessuno è uno stratega. Questo è il primo colpo di fortuna di Napoleone.   

                                                             ***

    Tredici anni prima della nascita di Napoleone, Casanova evade dai Piombi senza un piano preciso e senza idee per il suo futuro. Non ne avrà mai. Arriva a Parigi il 5 gennaio 1757 e, uno dopo l’altro, mette a segno due colpi da maestro: si inserisce nella gestione del lotto e circuisce la duchessa d’Urfé.

    Con il malloppo depositato in banca e sfruttando la rete delle fratellanze massoniche, gira l’Europa facendosi mantenere dai suoi ospiti, piazzando piccole truffe, combattendo duelli, barando al gioco, passando da un’amante all’altra, buttando al vento i suoi quattrini. Sempre all’avventura, sempre alla giornata, senza un obbiettivo concreto. È il suo periodo di trionfo e tutto sembra andargli a gonfie vele: cavalca l’onda della fortuna.

    Più tardi, nello stesso periodo in cui Casanova si abbassa a fare l’informatore pur di rientrare a Venezia, Giuseppe Balsamo diventa il conte di Cagliostro. Anche lui ha trovato la sua miniera d’oro nella massoneria, nei riti esoterici, nella magia, e inizia a comportarsi come un guru indiano. Si fa un nome nei paesi baltici dove, preceduto da un battage pubblicitario senza precedenti, passa di città in città sull’onda dei successi. Lascia il paese prima di essere smascherato e arriva in Francia con la fama di mago, guaritore e benefattore dell’umanità, nonché nababbo capace di trasmutare i metalli vili in oro. A Strasburgo, per puro caso, incontra il colpo grosso: conquista la città guarendo gratis gli ipocondriaci e gli affetti da malattie psicosomatiche, entra nelle grazie del duca di Rohan e per un paio d’anni tocca il cielo con un dito.

    Cagliostro non diventa santone, gran maestro di una massoneria, eminenza grigia di un gran signore, programmando e mettendo in esecuzione un piano preciso; al contrario, ha tentato mille strade, è passato attraverso tutte le vergogne, prima che il caso gli facesse incontrare la persona giusta al momento giusto. Si può ammirare il suo mantenersi mentalmente disponibile a qualunque avventura, ma non si può certo accreditarlo di un programma (se non quello di far quattrini in qualunque modo).

    La fortuna continua ad assisterlo finché il famoso “affare della collana” rovina il suo protettore. In quella circostanza Cagliostro si disimpegna con abilità e riesce a salvare gran parte del suo credito ma, con la stessa immotivata rapidità con cui l’aveva abbracciato, la fortuna lo abbandona. Le sue scelte perdono lucidità. Il conte di Cagliostro ridiventa Giuseppe Balsamo e si avvia lungo la china che lo porterà a morire in galera.

    Una traiettoria simile, anche se con un esito meno tragico, è quella di Giulio Alberoni, piccolo e sconosciuto abate che soffoca nella provincialissima curia vescovile di Parma. Il passaggio del Vendôme, capitano di ventura con una armata mercenaria al seguito, è un avvenimento e il vescovo, accompagnato da Alberoni, suo segretario, corre a riverirlo. Ma il generale ha la villania di ricevere il vescovo stando seduto sul vaso da notte; il vescovo si offende e se ne va; lo spregiudicato Alberoni vede la possibilità di spiccare il volo e la coglie immediatamente.

    Spiccare il volo verso dove? Alberoni non lo sa e nemmeno gli importa. Vuole volare, e basta. Con i suoi “lazzi turpi e matti” (ma anche facendosi notare per qualche idea non banale) molla il vescovo, si lega al Vendôme, va con lui a Madrid e viene presentato a corte. In quell’ambiente di mummie imbalsamate Alberoni seduce la regina, diventa primo ministro di un impero in decadenza, ma ancora intercontinentale; piazza un fortunato colpo diplomatico e regala alla Spagna l’ultimo sussulto della sua potenza. Ma il vento gira quasi subito: solo grazie al Papa Alberoni riesce a cavarsela a buon mercato.

    Sorte ben diversa da quella di Cristoforo Colombo, che viaggia per diversi armatori prima di concepire l’idea della traversata oceanica. Ci si incaponisce, ma non riesce a persuadere i portoghesi. Prova con gli spagnoli, ma deve aspettare anni e anni, raccontare bugie, mettere di mezzo ogni genere di intermediari. Si riduce in miseria. Presenta calcoli sballati ai dottori di Salamanca che lo mandano a quel paese (e non avevano tutti i torti: chi lo sapeva che a occidente fra la Spagna e la Cina c’era l’America? Non lo sapeva neanche quello sconosciuto apolide capitato lì da chissà dove).

    Nessuno si danna l’anima più di Colombo per inseguire una fortuna che gli si nega ostinatamente. Solo per un breve periodo la dea bendata gli sorride. Granada avrebbe potuto resistere ancora vent’anni, ma le lotte interne costringono i mori ad arrendersi e l’avventura dell’oceano può partire. Eppure la buona sorte che favorisce Colombo dura pochissimo e gli dà quasi solo la gloria postuma. Forse il Grande Ammiraglio trova un po’ di felicità solo in mare aperto. Lui, che ha regalato un nuovo mondo a un re che non è neanche il suo, finisce la vita bussando a una porta che non si apre. 

    E come loro, fra il Cinquecento e il Settecento, migliaia di italiani assetati di avventura, inclini all’intrigo e al doppio gioco, cercarono il successo. Ognuno aveva le sue capacità, i suoi sogni, il suo immaginario. Ma la molla che spingeva tutti quanti era la voglia di sfuggire a una vita anonima e qualunque. Per riuscirci ci voleva fortuna. Per trovarla bisognava andarla a cercare. Questi cinque ne trovarono parecchia, almeno per un po’. Gli altri vivacchiarono di truffe, prostituzione, rapina. La maggior parte finì male, come era logico che finisse. Il più favorito dalla sorte fu Napoleone, ma ne restò prigioniero e fu costretto a giocarsi tutto, fino all’ultima goccia.

                                                            ***     

    La Storia vista a posteriori sembra rivelare un senso, sì, ma solo a patto di trascendere le singole persone. Nessuno impone svolte alla Storia perseguendo un suo obbiettivo. Può ottenere ciò che vuole oppure no; ma, anche se lo ottiene, la Storia andrà per un altro verso. Poi, cronisti e storici provvederanno a far credere che l’eroe di cui si occupano ha “scorto” o “intravisto” il futuro corso del progresso e, se la sua azione sembra avere oscillato fra diverse tendenze, è perché, senza deflettere dalla visione strategica, bisogna pur fare i conti con la quotidianità.

    Balle. Balle colossali, inventate a posteriori e originate dal bisogno – il più delle volte propagandistico – di “creare l’eroe” perché, nel frattempo, la Storia ha fatto capire dove va e un antesignano fa sempre comodo. Invece, se ci si mette nei panni dei nostri cinque avventurieri nel momento in cui si lanciarono nel mondo, è facile osservare che: 1) nessuno di loro aveva la più pallida idea di dove sarebbe andato a parare e 2) i loro obbiettivi, se pure se ne ponevano, erano tutto sommato modesti.

    Forse anche per questo al termine delle loro parabole non ci fu grandezza. Colombo a Valladolid si struggeva per non aver messo le mani sull’oro di Cipango. Casanova nel castello di Dux malediceva il decadimento fisico che non gli permetteva più di andare a donne. Nella prigione di San Leo Cagliostro chiedeva solo fiaschi di vino abboccato. Alberoni faceva il vescovo in Romagna e pensava alla sua anima.

    E Napoleone? Di tutti i sogni e le ideologie che gli hanno prestato (l’Asia, la Rivoluzione, i Lumi, il Codice Civile, e chi più ne ha più ne metta) qual è la preoccupazione dominante nel chilometrico memoriale autoassolutorio di Sant’Elena? La più borghese, la più italiana: trovare una sistemazione a suo figlio.

    In migliaia di pagine Napoleone non si domanda che senso abbia avuto la sua avventura umana. Se qualcuno glielo chiedesse, lo guarderebbe come si guarda un matto. Che senso vuoi che abbia? risponderebbe. Ho fatto ciò che ogni uomo deve fare: ho cercato il successo. E ne ho avuto più degli altri. Punto.

    Napoleone non perde tempo con domande filosofiche. L’unica cosa che gli sta a cuore è sottolineare con forza una presa di posizione: per meriti miei e per gentile concessione della Fortuna, sono diventato imperatore; anche se i miei nemici mi hanno detronizzato, rivendico il mio status e non rinuncio a pretendere il trono.

    Da bravo papà italiano, Napoleone cerca di capitalizzare quel che gli è rimasto – la gloria militare e l’ideologia rivoluzionaria – per farne una “raccomandazione”: suo figlio ha diritto a un “posto”. Un posto da imperatore dei francesi.

                                                              ***

    Proviamo a guardare il grande imperatore in un’altra ottica. Invece di partire da “Ei fu”, partiamo dal 1° settembre 1785: Napoleone ha appena compiuto sedici anni e riceve i gradi da sottotenente. La paga gli basta appena per non morire di fame. Per avere lo scatto di grado ed essere nominato tenente dovrà aspettare fino al 1° giugno 1791. Il passaggio a capitano arriva un anno dopo, in pieno Terrore, anche se il decreto di nomina viene retrodatato al 6 febbraio 1792. Il 12 settembre 1793 Buonaparte è già capo di battaglione (che credo corrisponda a tenente colonnello, o giù di lì) e gli viene affidato il comando dell’artiglieria all’assedio di Tolone. La città cade soprattutto per merito suo e nel giro di tre mesi Napoleone è generale di brigata.

    Fino all’avvento di Robespierre, Buonaparte non fa niente per meritare scatti di carriera. Per le prime promozioni ci vogliono anni, ma non appena la Rivoluzione entra nella fase terrorista gli ufficiali fuggono all’estero, altri vengono sospettati di tradimento e ghigliottinati, chi rimane viene promosso a tambur battente. In due anni Napoleone passa da tenente a capo di battaglione. Oggi sappiamo che se lo meritava; ma che ne sapevano i suoi contemporanei? Quanti personaggi meritevoli, anzi eccezionali, sono diventati generali a ventiquattro anni e comandanti di un’armata a ventisei? Forse solo Alessandro, che era figlio del re. Napoleone ha beneficiato di una incredibile serie di scatti di grado non solo per meriti propri, ma soprattutto perché altri ufficiali non ce n’erano. Nelle forze armate va avanti chi ha appoggi politici. Per Napoleone, la ghigliottina fu uno sfacciato colpo di fortuna.

    E pensare che dei primi sette anni e mezzo di servizio militare il fulmine di guerra ne ha passati al reggimento solo due e mezzo: per ben cinque anni è stato in licenza, quasi sempre in Corsica. Di che cosa abbia fatto laggiù non esistono documenti o testimonianze, ma è impossibile che un uomo così spasmodicamente teso a cercare il successo si sia occupato soltanto dei suoi poderi e delle sue greggi.

    Con alti e bassi, la famiglia Buonaparte ha sempre avuto rapporti con Paoli e con il separatismo. E, guarda caso, quando la rivoluzione taglia la testa al re, Paoli viene richiamato dall’esilio. Come mai? Che vantaggi poteva dare a Robespierre l’arrivo in Corsica di un vecchio arruffapopoli? Forse è lecito ipotizzare che qualcuno gli abbia spianato la strada. Forse è possibile che qualcuno – magari un giovane ufficiale? – abbia fatto da trait d’union fra il separatismo e i giacobini.     

    Ma la politica è un gioco in continuo rivolgimento. Appena arrivato, Paoli si mette a trescare con l’Inghilterra. Napoleone tiene il piede in due scarpe finché può, ma alla fine sceglie la Francia. Ha calcolato che l’indipendentismo non ha concrete possibilità di successo? Può darsi. Ma è più probabile che ormai si sia così invischiato con i giacobini da non potere più dissociarsi.

    Napoleone diventa giacobino per calcolo quando è un signor nessuno, ma resta giacobino anche da imperatore perché solo incarnando la Rivoluzione può arrivare al trono. Eppure la sua dinastia non riuscirà mai ad assestarsi al potere proprio perché incarna un partito, non la nazione.

    L’unica cosa chiara nel comportamento dell’ufficiale Napoleone Buonaparte è che fino alla nomina a comandante dell’Armée d’Italie non ha alcuna idea di quale successo rincorrere. Sta con Paoli in Corsica, per Robespierre prende d’assalto Tolone, per il Direttorio (e per Barras) prende a cannonate i controrivoluzionari nelle strade di Parigi. Il successo lo vuole, lo vuole intensamente, ma non ha idea di quale sarà. Lascia fare al destino. Lui intriga, fa politica nelle anticamere, nei salotti e in camera da letto; si ficca in tutte le avventure. Si è parlato perfino di società segrete. Per tutta la vita Napoleone non fa che prendere rischi di cui non è in grado di calcolare la portata, fedele al suo motto: Je m’engage et puis je vois. Se non si fa così non si può mirare in alto, ma per correre grandi rischi e cavarsela ci vuole una fortuna straordinaria.

                                                            ***

    Per quasi vent’anni, dal 1793 al 1812, la fortuna di Napoleone è sfacciata, né più né meno. Ma sulle prime neanche lui se ne rende conto. Ragionando a posteriori, lui stesso ammette di non aver mai pensato a mirare davvero in alto prima del ponte di Lodi. Lì, respinto dalla fucileria austriaca, cade dal ponte dentro a una palude e viene salvato dal contrattacco guidato da Augereau. Ripescato dal fango e sollevato sugli scudi, il piccolo avventuriero sente di essere baciato dalla fortuna.

    Ma sul momento non si direbbe. Qualche mese dopo, a Montebello, le sorti della battaglia sono a lungo in bilico e basterebbe un niente perché la giornata si trasformi in una rotta disastrosa, senza rimedio. Per un pelo lo stesso generale Bonaparte non viene catturato dal nemico. I soldati austriaci si battono con lo stesso eroismo dei francesi. Fra le due armate non c’è altra differenza che il Caso, la sorte delle armi, la grazia di Dio.

    È allora, la notte dopo Montebello, mentre pensa a come far cadere Mantova per poi marciare su Vienna, che Napoleone identifica nel ponte di Lodi il momento in cui la fortuna l’ha preso fra le braccia. Marengo, Austerlitz e decine di altre battaglie non faranno che confermarlo in questa convinzione. Gli intrighi con Paoli erano stati un passaggio obbligato, Tolone un merito personale, il matrimonio con Joséphine una combinazione di amore e politica, la manovra di Dego e Montenotte uno sfoggio di abilità tattica. Ma il ponte di Lodi è il segno lampante della fortuna.

    Da quel momento Napoleone avanza sulla spinta di una fiducia incrollabile nella sua stella. Non smette di crederci neanche quando la stella si spegne. Dall’esilio dell’Elba si getta nella più folle delle avventure. Conquista la defezione dell’esercito a furia di demagogia. Si appoggia ai giacobini e ai liberali, salvo poi organizzare una mascherata in Campo di Marte dove compare vestito d’oro come un imperatore romano. Non ascolta chi vorrebbe da lui una ripresa della Rivoluzione. Mette insieme un’armata raccogliticcia in cui l’unico generale d’esperienza è Ney, la testa matta.

    Dei marescialli che hanno fatto la sua gloria, molti sono morti, Masséna non gli crede più ed è rimasto a Marsiglia; Murat crede di far politica per conto suo e Napoleone, che di lui non si fida, ha voluto che rimanesse a Napoli; Bernadotte è riuscito a sfilarsi e non si muove da Stoccolma. Tutti stanno a guardare, mentre l’imperatore sperpera le ultime generazioni francesi in una battaglia che, anche se l’avesse vinta, non avrebbe risolto niente.

    Non c’è niente di più difficile che riconoscere di essere stati abbandonati dalla Fortuna e ridimensionare i propri obbiettivi.

                                                              ***

    La realtà è qualcosa di troppo complesso per essere governata o addirittura pianificata. Avere in testa una grande e bella utopia non serve a niente se non si ha successo, ma per aver successo bisogna essere aperti a tutto e al contrario di tutto, determinati a correre rischi assurdi, e fiduciosi di saper agguantare per i capelli la fortuna.

    La realtà è intimamente contraddittoria, va avanti e indietro come un pendolo dalle oscillazioni irregolari, e quando ci costringe a scegliere non ci dà alcuna garanzia che le cose andranno così o cosà. Tutto ciò che possiamo dire del modo di procedere della realtà è che, a cose fatte, e solo allora, sembra mostrare un senso. Hegel ha definito questo strano fenomeno Astuzia della Ragione. I romani proclamavano “divus” l’uomo baciato dalla fortuna che anticipa le decisoni del Fato. I greci si accontentavano di venerare una dea che univa in sé il Caso e la Sorte: la chiamavano Tyke.

    Insomma, non esiste un modo per piegare la Storia al volere di un uomo, di un popolo o dell’umanità. La Storia è un fiume vorticoso che va dove gli pare e nel quale chi cerca il successo può soltanto inserirsi e lasciarsi trasportare. Per emergere bisogna cavalcare la tigre o, come dice Machiavelli, afferrare la fortuna, batterla e tenerla sotto. Vero è che tutti ci provano ma pochissimi ce la fanno e, fra quei pochi, quasi nessuno riesce a scendere dalla tigre senza essere divorato.

    D’altra parte, è anche vero che chi non ci prova non può dire di aver vissuto. Il senso dell’agire umano è tutto qui, nel provarci, ed è un senso che riscatta anche il bacio di Alberoni, le vergogne di Cagliostro, la fatuità di Casanova, gli errori di Colombo. E la megalomania di Napoleone.    

 

                                         Diritti e doveri  

 

    Non so cosa mi ha fatto tornare in mente questo episodio. Tre o quattro anni fa presi una multa. Andai a pagarla al comando dei Vigili Urbani e, mentre mi consegnavano la ricevuta, mi dissero: “La conservi per cinque anni. Può sempre capitare che le chiedano di esibirla, e se non lo fa le tocca pagare un’altra volta.”

    Riuscii a tacere solo tenendo presente che ogni parola sarebbe stata usata contro di me. Ma è un sopruso che un’amministrazione comunale, provinciale o statale, o una qualunque organizzazione di qualsivoglia genere e specie, faccia pagare agli altri la propria inefficienza e addirittura programmi un simile comportamento. L’amministrazione che impone un pagamento, lo esige, lo incassa e rilascia la ricevuta, dovrebbe anche tenerne registrazione e non rompere ulteriormente i coglioni al cittadino.

    Già, dice l’amministrazione, ma un impiegato può sempre sbagliare e, in questo caso, è necessario che il cittadino esibisca la ricevuta.

    Niente affatto, rispondo io. Se un impiegato sbaglia, l’amministrazione si domandi come e perché quella determinata multa o tassa risulta non pagata e se per caso non è stato un altro impiegato a reclamarla e incassarla. Se poi davvero la somma non è stata riscossa, cerchi l’impiegato responsabile del disguido e prenda provvedimenti disciplinari. Se l’amministrazione non sa fare il suo mestiere, che c’entra il cittadino?

    Ma naturalmente questi discorsi non servono a niente: quando lo stato ti prende di mira hai pochissime speranze di far valere il tuo buon diritto. Quanto alla mia multa, posso solo sperare che l’amministrazione comunale sia efficiente perché, se ci penso, non ho la più pallida idea della fine che può aver fatto la dannata ricevuta. Sicuramente l’avrò messa in un cassetto pensando: “La metto qui, così non la perdo.” Perfetto. Bravissimo.

    Ma qual era il cassetto? A due o tre anni di distanza non me lo ricordo assolutamente. E in tutto questo tempo quante altre carte sono finite sopra alla stramaledetta ricevuta? Anche se butto in aria tutta la casa per cercarla, non la troverò mai. E perché diavolo devo essere angariato in questo modo? Per chi mi hanno preso, per un computer dove tutto resta comodamente archiviato e ogni annotazione può essere richiamata in servizio con un clic?

    Ma forse voi crederete che sia tutto qui. Niente affatto! Il vizio delle amministrazioni statali si è esteso anche a quelle private. Ormai chiunque è convinto che voi esistiate per essere al servizio del primo che decide di scassarvi i marroni. Probabilmente anche voi, come me, siete quotidianamente tormentati da telefonate (rigorosamente ore pasti) di maledetti rompipalle che propongono offerte speciali per telefoni fissi o cellulari. Probabilmente anche la vostra cassetta delle lettere è intasata da quintali di carta con offerte speciali dell’Enel e dell’A2A. Fra un po’ ci si metteranno anche gli Acquedotti pubblici e privati, eccetera eccetera.

    Cos’hanno di speciale le “offerte speciali”? Che sono complicate. Che durano sei mesi e poi chissà. Per capire davvero cosa ti conviene e cosa no, dovresti dedicare ore a leggere (con la lente di ingrandimento) facsimili di contratti e compararli uno con l’altro.

    Metti che decidi di aderire alle offerte. Dovrai tenere un archivio aggiornato con tutte le condizioni relative ai contratti di somministrazione dell’energia, del gas, del telefono fisso e del telefonino, della pay-tv, del conto corrente online, e via discorrendo. Dovrai spendere metà della tua vita a controllare clausole, approfittare di “finestre”, spedire raccomandate di disdetta. Dovrai stare attento a non programmare viaggi e ferie nei periodi in cui scade uno dei maledettissimi contratti perché, se non lo disdici nei tempi e nelle forme contemplate al comma 15 dell’articolo 126, scatta la clausola 35 bis e il contratto si intende automaticamente rinnovato a tariffa doppia.

    Ma che scherziamo?

    Gentili amministrazioni statali, parastatali, concessionarie di servizi et similia, vi scongiuro: piantatela una buona volta di considerarmi “utente”. Io non sono un utente. Sono un essere umano e niente vi autorizza a tormentarmi. Se non la piantate di pensare a me come a un maledetto computer, se continuate a mettervi sotto i piedi i miei diritti umani, mi rivolgerò alla corte dell’Aia, all’ONU, al Vaticano, a chiunque abbia il potere di mandarvi affanculo. E, se non bastasse, comincio subito e vi ci mando io.

 

                                             Advertising 

 

    Voci solitamente bene informate assicurano che (salvo il caso di terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche, apparizioni di comete, nascita di vitelli con due teste, statue di marmo che starnutiscono, ecc. ecc.) verso fine settimana dovrebbe apparire in libreria un testo lungamente atteso dai fautori del post-noir (nonché dai detrattori).

    Trattasi, come avrete già capito, di:

 

                                     GLI OCCHI DI CAINO

 

scritto dal vostro umilissimo e pubblicato da Eumeswil Edizioni.

 

    Per coloro ai quali giunga nuova la denominazione di genere “post noir”, dirò succintamente quanto segue:

    Il post-noir, definizione proposta da Raul Montanari, accolta e supportata da Gianni Biondillo e Grazia Verasani, si propone di uscire dalle secche di schemi preconfezionati come: il mistero da risolvere con spirito enigmistico, il meccanismo consolatorio (scoperta del colpevole), il moralismo un po’ spicciolo (il mondo è il regno del Male). In che modo? Ognuno è invitato a dare il suo contributo.

    La proposta di Montanari ha suscitato polemiche centrate, per quanto ne ho capito, sull’insofferenza nei confronti delle classificazioni di “genere”. Ma, da un lato, è quasi impossibile scrivere qualcosa che non risponda ai canoni di un genere; dall’altro, un buon romanzo è quello che usa il genere e lo trascende.

    Perbacco! E il vostro umilissimo presume di essere riuscito in una simile performance? I ventitre lettori di questo blog sono invitati a controllare di persona e a dare il loro responso.

    Prenotate in libreria:

 

                                             Riccardo Ferrazzi

 

                                      GLI OCCHI DI CAINO

 

                                             Eumeswil Editore

 

 

    Avvertenza: questo blog esiste da più di due anni e non è stato pensato per fare pubblicità ma, visto che c’è, non avrebbe senso far finta di non aver scritto e pubblicato. Le “questioni di stile” non possono arrivare fino al masochismo.  

    Se non altro, i commenti sono sempre a disposizione dei lettori. Credo fermamente nel principio “Il cliente ha sempre ragione”, pertanto chi si prende il fastidio di andare in libreria e spendere 14 euro per leggere “Gli occhi di Caino” ha diritto di coprirmi di insulti, improperi e contumelie se ritiene di non avere ricevuto abbastanza in cambio dei suoi soldi.

    Beninteso: a chi non resta soddisfatto non verrà rimborsata la spesa.

    Ciò premesso, posso soltanto augurarvi: Buona Lettura!

 

                                  

                                              La canzone di Sixtus

 

    Nella seconda metà dell’Ottocento Vienna era la Mecca dei musicisti e Richard Wagner ci andò con grandi speranze: aveva al suo attivo un successo come Lohengrin, un capolavoro come Tristano e aveva già scritto più di metà dell’Anello del Nibelungo. Probabilmente si immaginava ricevuto alla corte imperiale, nominato Generalmusikdirektor e gratificato di uno stipendio principesco.

    Ma le cose non andarono secondo i suoi desideri: Vienna non cadde ai suoi piedi e il più influente critico musicale del tempo gli fu dichiaratamente ostile. Wagner, che pure aveva un’altissima considerazione di sé e un carattere tutt’altro che amabile, in questo caso riuscì a dominarsi e trasformò un inconveniente in un’opportunità. Il disprezzo per quel critico pedante e retrogrado (secondo Wagner) gli fornì lo spunto per scrivere la sua unica opera giocosa se non proprio buffa: I Maestri Cantori di Norimberga, un altro dei suoi capolavori.

    Pare che in origine il personaggio destinato a essere deriso e sbeffeggiato sulla scena dovesse chiamarsi Hans Lick perché il critico di cui sopra si chiamava appunto Eduard Hanslick. Ma in seguito Wagner, che scriveva da sé i libretti delle sue opere (anche questo è uno dei tratti che lo distinguono da tutti gli altri musicisti), ripiegò su un nome più ambiguo e scelse di chiamarlo Sixtus Beckmesser. In un ambiente pettegolo come quello viennese, per far sapere chi era il bersaglio della satira bastava far circolare la voce e Wagner pensò bene di non rischiare una causa per diffamazione.

    Tranquilli: non vi infliggerò il riassunto dell’intera opera. Vi dico soltanto che nel terzo atto il calzolaio poeta Hans Sachs, beniamino del popolo di Norimberga, lascia in bottega l’abbozzo di una poesia. Beckmesser, che la sera prima voleva fare una serenata e si è preso un sacco di bastonate, ruba il foglio. Ne farà una canzone e la canterà in un concorso che dovrebbe fruttargli un ricco matrimonio. Ma Sachs vuole favorire un altro concorrente e ha fatto in modo che Beckmesser rubasse un componimento pieno di assurdità e di allusioni stiracchiate.

    Ve lo propongo qui sotto come argomento a favore di una mia vecchia tesi: il Novecento, in arte, non ha inventato niente. Tutte le tematiche erano già venute a galla nel secolo precedente. Prendete il caso della poesia: gli epigoni di Garcia Lorca insistono ancora oggi a trastullarsi con metafore stralunate come quelle di Beckmesser (solo che Wagner le scriveva per una presa in giro, mentre loro si prendono terribilmente sul serio!).

    Non pretendo di convincervi ma, se ci pensate un po’, probabilmente mi darete ragione, e non solo per quanto riguarda la poesia. Magari un’altra volta vedremo, testi alla mano, che lo stesso Wagner aveva un’idea abbastanza precisa del complesso di Edipo ben prima che Freud ci ricamasse sopra. Più ci penso e più mi convinco che il Novecento è stato un secolo scientifico e tecnologico: dal punto di vista artistico avrà fatto ricerca, rottura, provocazione, ecc. ecc. ma non ha prodotto niente di nuovo.

    Torniamo alla canzone di Sixtus Beckmesser: eccola qua. Dopo quanto ho premesso, non vi meraviglierete per i tempi verbali sconclusionati, i salti di palo in frasca e gli ossimori stridenti. La traduzione è un’impresa da perderci la testa. Tra l’altro, in rete e fuori ho trovato quasi solo versioni ritmiche, fatte per essere cantate e poco aderenti all’originale. Ho chiesto aiuto a un esperto, ma chi conosce il tedesco si accorgerà che è davvero arduo dare un significato univoco a ciascuna parola e alla costruzione delle frasi. Insomma: accetto suggerimenti.

 

Morgen ich leuchte in rosigem Schein,            Io risplendo al mattino in roseo chiarore,

von Blut und Duft                                             (quando) di sangue e profumo

geht schnell die Luft;                                        l’aria fugge via veloce;

wohl bald gewonnen,                                       ben presto vinto,

wie zerronnen;                                                 come pure disfatto,

im Garten lud ich ein                                        (ti) invitai nel giardino

garstig und fein.                                                laido e grazioso.

 

Wohn’ich erträglich im selbigem Raum,           Vivo passabilmente negli stessi locali,

hol’ Geld und Frucht,                                        porto a casa soldi e interessi,

Bleisaft und Wucht.                                          sciroppo di piombo e bastonate.

Mich holt am Pranger                                       Mi trascina alla gogna 

der Verlanger                                                   il desiderio se

auf luft’ger Steige kaum                                   lungo ariose salite non                           

häng’ich am Baum!                                          mi impicco all’albero!

 

Heimlich mir graut,                                           Segretamente rabbrividisco,

weil es hier munter will hergeh’n:                     perché qui c’è da stare allegri:

an meiner Leiter stand ein Weib:                     davanti alla mia scala stava una donna

sie schämt und wollt’ mich nicht beseh’n;        che si vergogna e non mi vuol guardare;

bleich wie ein Kraut                                          canapa pallida come i crauti

umfasert mir Hanf meinen Leib;                       mi attorciglia il corpo;

mit Augen zwinkend,                                        con occhi incalzanti

der Hund blies winkend                                    il cane ringhiò accennando

was ich vor langem verzehrt,                           a ciò che da tempo ho divorato            

wie Frucht, so Holz und Pferd                          come frutta, legno e cavallo

vom Leberbaum.                                              dell’albero del fegato.

 

                                                                                 

 

                                                Carmen

 

    Forse non bisognerebbe vedere le opere in televisione. I cantanti lirici lavorano in teatro e hanno una gestualità enfatica, fatta per il pubblico in sala: inquadrati in primo piano diventano ridicoli. Poi, si sa, tenori e baritoni pesano un quintale. Soprani e mezzosoprani sono barili di cellulite. La Carmen che la sera di sant’Ambrogio ha simulato di scoparsi don José per convincerlo a non rientrare in caserma, risultava patetica: davanti a una simile megera, chiunque sarebbe scappato a gambe levate.

    Purtroppo questo è un guaio inevitabile nell’opera lirica. Pavarotti, con la sua stazza, era improbabile nella parte di Nemorino (o di Calaf, o di Radamès). Ma era Pavarotti! Una voce fantastica, una pronuncia perfetta e una fama tale che nessun regista si sarebbe azzardato a metterlo in situazioni grottesche. Ma se i cantanti non sono delle star, i registi si scatenano. L’azione della Carmen si svolge a Siviglia? E io la sposto in una specie di Sicilia, o di Grecia mitica, o di Africa nera un po’ granguignolesca. Carmen è una gitana? Chi se ne frega. Per la regista è la selvaggia che danza al termine di Cuore di tenebra. La liberté énivrante che promette a don José non è quella nomade e stralunata degli zingari, ma quella feroce di chi regredisce all’età della pietra.

    Il risultato non è la Carmen di Bizet e neanche quella di Mérimée. È un’altra cosa, che potrà anche essere geniale (come si affannano a giurare critici e autorità presenti), ma che più probabilmente è una merenda fatta coi cavoli (come ha decretato il loggione). Una volta tanto, Umberto Eco se ne è uscito con un commento azzeccato: “Bella questa Traviata!” ha detto. Aveva ragione. È quantomeno dubbio che si possa ancora parlare di interpretazione se il testo dice una cosa e il regista gliene fa dire un’altra. La domanda che sorge spontanea da queste messe in scena è: se il regista è davvero un genio, perché non scrive un testo suo? Possibile che sappia esprimersi solo violentando l’opera altrui? Ma è una domanda che resta senza risposta.

    Dice il critico: le regie fedeli al testo le fa già Zeffirelli. Dagli altri registi mi aspetto idee nuove e geniali. Del resto, i pittori del Quattrocento non dipingevano santi e Madonne in abiti contemporanei? Gli scrittori latini non praticavano la “contaminatio”?

    Sarà. Ma una cosa è la “contaminatio”, un’altra è mischiare oves et boves. Apocalipse now prende spunto da Conrad, ma non lo trasporta in mezzo alla guerra del Vietnam per puro sfizio: gli aggiunge peso specifico (ricordate? un Martin Sheen poco convinto va a uccidere un Marlon Brando ribelle e si sente dire: “Sei solo un fattorino mandato a riscuotere i sospesi!”). Conrad si era limitato a far intravedere che la distanza fra l’uomo civile e il selvaggio, fra Jekyll e Hyde, non è mai definitivamente acquisita. Inserendo la storia nel quadro di una guerra, constatiamo che la civiltà è più facciata che sostanza e, nel suo pieno significato, è un sogno irraggiungibile. “Contaminare” Cuore di tenebra ha prodotto una cosa nuova, così come Virgilio “contaminando” l’Odissea ha creato l’Eneide.

    Ma l’apertura della Scala 2009 ha toppato. Perché stravolgere la Carmen per darle a tutti i costi una dimensione mitica che non è la sua? Perché trasformare la tragedia del maschio pirla e della femmina scriteriata in un autodafé della Libertà immolata dal Destino? Non è questo il senso del libretto e della musica. Basta leggere, basta ascoltare, per toccare con mano che l’atmosfera è tutt’altra, più leggera, più francese. Anche se ogni giorno succedono fatti di cronaca simili, Carmen non è una storia vissuta dal di dentro: è un apologo controrivoluzionario inventato per ammonire i bravi ragazzi: fatevi furbi, divertitevi senza esagerare.   

    Macché. Parole al vento. Ogni anno legioni di registi si impadroniscono dei classici del teatro, trattano i testi come se fossero stampati su carta igienica, e distorcono le opere in modo che dicano di tutto e di più, purché non sia ciò che volevano dire gli autori.

    Torniamo alla prima della Scala. Aggiungiamo a una regia “creativa” una concertazione discutibile, e siamo a cavallo. Sono pronto a riconoscere che, per certi autori, il modo di dirigere di Barenboim e di tanti altri direttori è valido e adeguato. Ma non per tutti. Carmen non è Salomé o Pelléas et Melisande. La musica di Bizet è di grana grossa e scade spesso su effetti bandistici. Se il direttore non tiene saldamente in primo piano il filo della melodia, tutto si affloscia in una pappa. Certo, puntare unicamente sulla melodia significa scadere nel facilone. Certo, trovare il giusto mix tra rigore e teatralità non è semplice. Questa è la difficoltà di un’opera dal libretto risaputo (la solita storia del bravo ragazzo rovinato dalla donna fatale), troppo pieno di folklore andaluso (toreri, gitani e contrabbandieri) e di strappamenti di cuore (l’inguaribilmente melensa Micaela). Ci vuole personalità, nel direttore, nell’orchestra e nella compagnia di canto.

    Ma dirigere la Carmen come se fosse una partitura di Debussy, sottolineare i contrappunti invece di usarli nella loro funzione, far prevalere l’armonia sulla melodia, significa stendere un velo grigio su tutti e quattro gli atti. La musica perde i pieni e i vuoti, le svolte tragiche non hanno più risalto, perfino il toreador diventa una cosa qualunque.

    Quanto alla protagonista dal nome impronunciabile, voglio sperare che l’audio della tv non le abbia reso giustizia: io non ho sentito affatto la “voce stupenda” di cui hanno straparlato i soliti noti. Per dirla tutta, la habanera mi è sembrata lamentosa e niente affatto sexy. La seguidilla è stata un po’ meglio, ma niente di che. (Ah, che nostalgia di Teresa Berganza!).

    Comunque si vede che l’audio faceva scherzi strani perché invece don José mi è sembrato piuttosto in gamba, e meno male che c’era lui! Quanto a Escamillo, la voce non era male; peccato che ogni tanto dava l’impressione di andarsene per conto suo, mentre l’orchestra andava da un’altra parte. 

    Nonostante ciò, stampa e telegiornali erano d’accordo fin dal giorno prima: a meno che i cantanti non avessero steccato come cani che abbaiano alla luna, bisognava gridare al miracolo, al sublime livello artistico della Scala, al primato morale e civile dell’Italia, e via farneticando. Per fortuna c’è ancora il loggione.

 

                                               Crocefisso sì o no 

 

    La diatriba non si è ancora spenta (per esempio, continua su Nazione Indiana), ma comincia a derivare verso altri obbiettivi. Ai primi di dicembre Tiziano Scarpa ha pubblicato su “Libero” (sic!) e in rete un articolo nel quale sostiene che meglio sarebbe, invece dell’immagine del Cristo sulla croce, l’immagine del Cristo risorto.

    Personalmente non condivido l’arrière pensée di Scarpa, che non dice “togliamo i crocefissi dalle aule scolastiche” ma arriva a concludere che “la migliore immagine di Cristo è il vuoto”. La mia opinione – discutibile fin che si vuole – è che, dopo ottant’anni di crocefissi pacificamente esposti, toglierli avrebbe un significato antireligioso di cui i veri laici non sentono il bisogno. (Va ricordato che i crocefissi nelle aule e nei tribunali non sono lì da sempre, ma solo dal 1929). D’altra parte, non sono affatto sicuro che dall’esposizione del crocefisso la fede cristiana abbia tratto chissà quali vantaggi.

    Tanto per cominciare, tutto ciò che sa di imposizione è un’arma a doppio taglio: finché si ha la forza di imporlo viene accettato senza entusiasmo; non appena la forza viene a mancare, scatta una reazione che porta a rivangare tutte le angherie vere o presunte dei secoli precedenti.

    Proviamo a guardare la faccenda come l’ha impostata Scarpa. Avere il crocefisso quotidianamente davanti agli occhi ce l’ha reso familiare fino a farci dimenticare che non è un’immagine di festa o di vittoria: raffigura un corpo torturato e ucciso, evoca la crudeltà umana, l’incoscienza di chi gridò: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli!”, il sadismo di chi inchiodò sulla croce un corpo fustigato a sangue e ormai più morto che vivo. Non è l’immagine della vita eterna, se non per via di ragionamento: così come appare, è l’immagine della morte.

    Certo, non si può risorgere se prima non si muore. Ma identificare Cristo con il suo supplizio non finisce per mettere in secondo piano la resurrezione? Perché proclamiamo che Cristo ha sconfitto la morte se poi lo rappresentiamo soltanto sulla croce? Il senso del credere in Cristo non dovrebbe stare nella speranza della redenzione, piuttosto che in un infinito mea culpa?

    La buona novella è una promessa di vita eterna. Ma la speranza non basta a tenere in riga le legioni dei credenti. Non basta neanche la minaccia di una punizione, se è differita nell’aldilà. Ci vuole il senso di colpa, il rimorso di un peccato ancestrale. Ogni volta che ha subito sconfitte politiche la Chiesa ha reagito con una stretta ideologica e, più o meno di proposito, ha pigiato sul pedale del senso di colpa.

    Quando il pullulare delle eresie rischiò di compromettere l’alleanza della Chiesa con l’Impero, sant’Agostino arrivò a un passo dal teorizzare la predestinazione. Dopo lo scisma d’Oriente san Francesco predicò la riforma dei costumi e una vita di penitenza. Alle domande di Dolcino e di Huss si rispose con i roghi e, dopo la riforma protestante, la controriforma stese una cappa funerea sulla vita, intesa come “valle di lacrime”. La fine del potere temporale fu accompagnata dal Sillabo e dalla crociata contro il modernismo.

    Per questo, che ha tutta l’aria di un riflesso condizionato, gli anticlericali hanno una spiegazione semplice: la Chiesa non vuole perdere la presa sulle coscienze per mantenere il controllo delle opinioni pubbliche. La Storia sembra fornire valide pezze d’appoggio a questa tesi. Eppure quel controllo non è mai stato pacifico. Gli uomini non rinunciano a cercare il senso delle cose e sono particolarmente sensibili alle contraddizioni. Non si può pretendere che stiano contenti al quia quando le domande si affastellano e le risposte non arrivano. Oggi meno che mai.

    Kierkegaard e Kafka hanno mostrato che l’angoscia esistenziale non deriva dai peccati che commettiamo ogni giorno, ma da qualcosa di ancestrale. E la gente si domanda: se il sacrificio di Cristo ha redento l’umanità dal peccato di Adamo, come mai non ha rimosso il senso di colpa? Perché la Chiesa ci specula sopra? È proprio vero che il sesso è peccato? Davvero si lava confessandolo? Davvero esiste l’inferno per chi non si confessa? Davvero esiste il purgatorio, e basta un’indulgenza per evitarlo? Come mai Cristo sa che anche i giusti peccano sette volte al giorno e non smette di chiamarli “giusti”, mentre invece la Chiesa li vorrebbe in ginocchio sette volte al giorno, a pentirsi, confessarsi e recitare pateravegloria? 

    È stato Paolo VI a constatare: “La Chiesa si è aperta al mondo e ha trovato un mondo che non crede”. Non dipenderà anche dal fatto che non ha senso terrorizzare i sedicenni per far confessare “gli atti impuri” quando è matematico che, tempo ventiquattr’ore, ci ricascano? La Chiesa continua a pretendere da tutti nientemeno che la santità, ma si riserva il diritto di avere la manica larga, anche in casi pubblici ed eclatanti, a sua discrezione. La gente ci vede una tattica (chiedo il massimo anche se mi basta molto meno) e sospetta che i preti “non la raccontino giusta”.

    Oggi, da un lato, l’informazione è sempre più incontrollabile e, dall’altro, la gente è in grado di fare paragoni a livello planetario. Le domande diventano sempre più pressanti, ma la Chiesa ripete formule tridentine e alterna bastone e carota. Eppure le contraddizioni sono grimaldelli e il silenzio è dinamite. Nella percezione della gente il concilio avrebbe dovuto dare risposte e invece ha spostato soltanto qualche virgola. Certo, per sgomberare il campo dalle ambiguità bisogna pagare il prezzo della chiarezza. Ma più passa il tempo più il prezzo diventa salato.      

                          

                                             Punto di crisi                                             

                      

    Nel secondo secolo d.C., quando il cristianesimo era ancora in clandestinità, la fede nell’Olimpo pagano si affievolì. Diventò di moda il culto di Iside. I fedeli si raccoglievano nei mitrei, templi sotterranei, e uscivano accompagnando i sacerdoti evirati della dea che portavano in processione idoli e corone di fiori. Oggi come allora, più che gli assalti dell’ateismo, la religione tradizionale subisce la concorrenza dei culti esotici e milioni di disorientati si aggrappano agli oroscopi, ai tarocchi, alla new age.

    La crisi della religione pagana iniziò con il boom dei commerci. La pace imperiale rese regolare l’afflusso del grano egiziano e moltiplicò quello delle merci di provenienza orientale. Insieme al grano e alle spezie, mercanti e marinai portarono a Roma le credenze magiche egiziane, siriane, caldee, e fu la globalizzazione delle bufale. Quando una nazione è in guerra, o quando è lanciata verso traguardi concreti e possibili, i sentimenti del popolo sono concentrati sull’obbiettivo e tutto il resto è affidato alla ragione. Ma in tempo di pace le spiegazioni razionali lasciano sempre insoddisfatti. Le leggende metropolitane, anche le più demenziali, diventano seducenti a paragone della piatta realtà. Oggi il complottismo e la dietrologia, fratelli minori della superstizione, impazzano sui giornali. Sulla rete, ogni genere di speranze frustrate vengono date per certe e gabellate come “controinformazione”.

    Se la cultura greco-romana avesse trovato fin dai primi secoli della nostra era una risposta globale contro la superstizione, forse si sarebbe salvata. Ma avrebbe dovuto rigenerarsi, indicare nuovi orizzonti sociali, nuove promesse escatologiche. Gliene mancò il tempo. Il cristianesimo impiegò un paio di secoli per elaborare la sua visione del mondo, ma ci riuscì e vinse la partita.

    Oggi la rivoluzione mediatica ha provocato qualcosa di simile all’esplosione dei commerci in epoca imperiale, con la non trascurabile differenza che il fenomeno avviene su scala planetaria. Le notizie si diffondono ancor più rapidamente ma con altrettanto scarso approfondimento. Purché abbia il giusto mix di esotismo e libertà, qualunque stronzata risulta più affascinante della cultura che ci incombe sulla testa da secoli e secoli, e della quale tutti quanti, colti e analfabeti, abbiamo fatto indigestione.

    Il guaio è che ci stanno andando di mezzo tanto l’illuminismo quanto il cristianesimo. La gente si è accorta che la ragione da sola non basta, ma non è più disposta a credere sulla fiducia o per paura delle fiamme dell’inferno: vorrebbe capire. Però quando bussa a cuori, le rispondono picche.

    E infatti gli atei sono sempre pochini, ma gli agnostici si sono moltiplicati. Magari tanti si stupirebbero nel sentirsi qualificare come agnostici, ma certo hanno smesso di partecipare. In realtà, molti tiepidi indifferenti non chiederebbero di meglio che essere scossi, convinti, perfino plagiati; ma sono immersi nello Zeitgeist e vengono frastornati dalle sirene dell’irrazionalismo che suonano più suggestive della cultura e del buon senso. La fede avrebbe tanto bisogno di un ricostituente.

    Cos’è successo? Ragione e religione si sono combattute fino a sfiancarsi. Da un lato, il materialismo militante ha tolto ogni speranza di vita futura e non ha saputo dare una spiegazione del perché si dovrebbe stare al mondo. Dall’altro, liturgia, catechismo e dogmi hanno ingessato il sentimento religioso in una meccanica ripetizione di gesti e parole. Ma le liturgie ripetute fino a perdere significato prendono l’aspetto della superstizione. La gente le pratica alla maniera di Eduardo de Filippo: non è vero ma ci credo. E così, quando si viene a conoscenza delle liturgie di altre religioni, ci si domanda che differenza c’è. Perché non provarci? Magari funziona.

    Possibile che tra ragione e superstizione non esista una terza via? Se lo domandano in tanti, e ancor di più sono quelli che, senza porsi la domanda, sentono il bisogno di una risposta. Che fine ha fatto la religione strutturata, quella che dà senso alla vita senza arroccarsi a difendere l’indifendibile? E che fine hanno fatto i lumi che promettevano il sol dell’avvenire? La subcultura contemporanea affonda nel pensiero debole perché i pensieri forti hanno ceduto alla tentazione della tirannia. Dalle loro posizioni di monopolio, Vaticano e Cremlino hanno preteso di plasmare le opinioni pubbliche secondo modelli rigidi e astratti. Cominform o Concilio di Trento.

    Materialismo e cattolicesimo hanno avuto paura di autorizzare percorsi personalizzati che ciascuno potesse esperire senza rinnegare se stesso. Invece di concentrarsi sui fondamentali, hanno legiferato su tutto, anche sulle stupidaggini. Minacciando pene apocalittiche a chi mangiava una fetta di salame al venerdì o costruendo muri per trattenere chi voleva andarsene, hanno dimostrato una sconcertante miopia e hanno sperperato gran parte della loro legittimazione. 

    Questa situazione non può essere lasciata incancrenire. Urgono risposte che non siano semplici riaffermazioni, ma ripensamenti profondi.

 

 

 

Recensione  e intervista di Giovanni Agnoloni  

Riccardo Ferrazzi, Gli occhi di Caino, ed. Eumeswil (€ 13,00)

 

    Se uno non fosse mai andato in Spagna, leggendo questo romanzo di Riccardo Ferrazzi si farebbe un’idea fedele delle sensazioni che questo paese dà. Gli occhi di Caino è un libro che ha per protagonista proprio un italiano, Vittorio Fabbri, un professionista che, un ventennio dopo un intenso periodo passato a Salamanca, fa ritorno, non senza difficoltà, nei luoghi che avevano conosciuto le sue passioni e i suoi tormenti giovanili.
Amicizie e amori intrecciati e sovrapposti, figure ‘latine’, toreri e gitani che interagiscono in una trama segnata da un fatto traumatico e rimasto – complice una polizia ambigua e sospettosa – irrisolto per tutto questo tempo: l’omicidio di un sacerdote, trovato morto per strada dopo una notte di baldoria.
Sono tanti, i destini che si intersecano in questa cornice di fatti, ma è soprattutto l’ambiente che conta. La meseta, il caldo, il sole e le architetture tra il magico e l’inquietante di una città dal fascino distinto, ma capace di nascondere, come tra le pieghe di un velluto, misteri che nascono dalla stessa ordinarietà delle cose: tutto questo disegna una coreografia che, man mano che si procede nella lettura, emerge come un protagonista essenziale della storia.
E viene fuori il carattere sanguigno del popolo spagnolo, nella figura di Miguel Angel, un amico che, dietro una maschera di sicurezza, nasconde paure e fatti che non devono essere rivelati. E poi c’è l’amore a fasi alterne di Mayte, donna suadente ma inaffidabile. Miedo y sangre, amor y muerte, tutti ingredienti che concorrono a fare di quest’opera, imbevuta del naturale senso del tragico tipico della cultura iberica – e mediterranea in genere – una sorta di mosaico di sensazioni e atmosfere, che cattura e seduce. La trama è infatti costruita a blocchi, che alternano passato e presente, e trasmettono il senso di una struggente nostalgia, oltre all’amarezza che deriva dall’inevitabilità del passare delle cose.
Forse è proprio per questo che Gli occhi di Caino può definirsi un romanzo sul carpere diem, perché certe occasioni non tornano più, ma se prese subito possono rendere la vita qualcosa di unico.

 

Intervista all’autore:

Che cosa ha significato la Spagna, per te, come scrittore e come uomo?

Credo che il mio primo impatto con la Spagna sia stato un imprinting indelebile. Passai la frontiera di Irún in automobile, attraversai i Paesi Baschi a tavoletta, e mi parvero una specie di Svizzera, pieni di colline verdi. Non sembrava Spagna manco per niente. Ma quando fui in cima alle colline il panorama si allargò di colpo in una pianura ondulata come il mare, che si estendeva in tutte le direzioni fino a sprofondare nell’infinito. Era la meseta, l’altopiano sterminato della Castiglia dove i paesi sono lontanissimi l’uno dall’altro e si può viaggiare per ore senza incontrare anima viva. In tutta Europa non esiste niente di simile. Stranamente, la sensazione che se ne ricava è di potenza. Cristoforo Colombo, sbarcando in America e prendendone possesso, deve aver provato la stessa sensazione.
Questa immagine mi è rimasta nel cuore. In tutto ciò che scrivo non faccio altro che tentare di trasmettere al lettore questa sensazione di infinito. E forse questa è la ragione per cui, nella vita e nei romanzi, mi danno fastidio le conclusioni perfette, matematiche, in cui tutto trova una spiegazione logica. La vita non è così, e il ricordo del panorama immenso della meseta me lo ricorda continuamente.

Ci puoi parlare dei ‘modelli’ letterari in cui ti riconosci di più?

Non so se posso dire di riconoscermi in un modello. Posso parlare degli scrittori ai quali ho “rubato” qualcosa.
In tutte le scuole di scrittura si raccomanda di leggere i racconti di Hemingway. È un buon consiglio, ma va applicato con intelligenza. Hemingway credeva davvero di scrivere “come si parla” (o almeno, così ci ha detto Fernanda Pivano); in realtà ne dava soltanto l’impressione, e ci riusciva applicando una serie di “trucchi” retorici. Ho imparato moltissimo, soprattutto per le descrizioni e i dialoghi, individuando quei trucchi e cercando di capire quale fosse il momento giusto per applicarli.
Un altro scrittore che, forse con maggiore consapevolezza, ha seguito la strada del “trucco per sembrare naturale” è Céline.
Fra i contemporanei, Raul Montanari è quello che ha la scrittura più depurata, precisa, perfetta. Gli ho detto più di una volta che scrive come il De bello gallico (e tutte le volte lui mi guarda come per dirmi:”Ma sei scemo?”). Ho imparato da lui a raccontare l’azione (che sembra la cosa più facile e invece è piena di insidie).
Marino Magliani ha il dono di descrivere atti e fatti della vita quotidiana con la precisione di chi osserva qualcosa di straordinario. In questo modo trascende la cosa che descrive e ti fa entrare in uno stato d’animo. È una capacità che non smetterò mai di invidiargli.
Naturalmente gli scrittori, antichi e moderni, dai quali c’è da imparare sono molti di più. Ho citato quelli che sono più vicini al mio modo di sentire e di scrivere.

La storia de “Gli occhi di Caino” miscela amore, assassinio, nostalgia, ma soprattutto atmosfera. Qual è la fonte, e il segreto, di questa alchimia?

Ah, se lo sapessi! Un cuoco può creare un piatto e dare la ricetta, ma uno scrittore non può fare altrettanto con un romanzo. Credo che chi scrive non possa guardarsi dentro più di tanto. Ognuno può fabbricarsi una regola per lo stile, ed esporla, e discuterne. Ma la forma è un’altra cosa. Il segreto è tutto lì ed è praticamente impossibile darne una definizione. È un po’ come chiedere a una donna: “Che cos’è l’amore?”. Se è onesta risponderà che non sa cos’è: sa soltanto come si fa, ma non sa spiegarlo.
Forse il modo in cui facciamo l’amore, o scriviamo un romanzo, dipende dai panorami che abbiamo visto, dalle musiche che abbiamo ascoltato, da come le emozioni che abbiamo vissuto si sono sedimentate nella memoria e sono maturate negli anni, come succede al vino quando invecchia.

Ci puoi anticipare qualcosa sui tuoi prossimi progetti?

Sta per uscire, a cura di Marino Magliani, una antologia intitolata Il magazzino delle alghe nella quale compariranno, fra gli altri, alcuni racconti di Vittorio, il protagonista de Gli occhi di Caino. Dopo di che Vittorio incontrerà Mayte ancora due volte, in due romanzi già stesi e attualmente in fase di “limae labor et mora”.
Anche il romanzo I nomi sacri, la cui prima parte è già pubblicata in rete e gratuitamente scaricabile dal sito Vibrisselibri, sta per arrivare alla conclusione.

 

                                             Post-noir? 

 

    “Un romanzo è una storia inventata, dunque deve essere fasulla.”

    Per chi la pensa così non c’è altro da dire. Eppure è un fatto che periodicamente gli scrittori si sentono soffocare in una camicia di forza e identificano la camicia suddetta nel genere letterario imperante. È questa insofferenza che ha prodotto di volta in volta il romanzo senza trama, il romanzo-saggio, il romanzo-in-cui-non-succede-niente, ecc. ecc. Ma è stato come fuggire da Scilla per andare a sbattere in Cariddi: cambiare genere significa soltanto evitare le caratteristiche formali di un cliché. Se la sostanza è la stessa, vestirla di nero, di giallo o di rosa, non cambia niente.

    Uno scrittore che riflette su ciò che scrive vorrebbe raccontare storie che non contengano un “messaggio” univoco e, invece di essere tenute in piedi da una serie di metafore trasparenti, siano esse stesse grandi metafore inspiegabili, come è senza spiegazioni la vita.

    Ma il guaio è che un romanzo non è un’opera di ingegneria: chi ha una storia in testa deve buttarla giù e finché non l’ha fatto non può pensare ad altro. Solo più tardi, quando si rilegge, capisce di aver applicato questo o quello schema, e allora si guarda allo specchio e si domanda: sono contento di aver scritto un giallo (o un noir, un rosa, un romanzo storico, una tragedia borghese, un vaudeville…)? È davvero questo ciò che volevo scrivere?

    In passato, la domanda non veniva presa di petto. Il modulo della tragedia, centrato sulle contraddizioni della famiglia o della società, ha monopolizzato la narrativa per secoli: gli scrittori, quando si sentivano ingabbiati, si limitavano a cercare nuovi ambiti in cui applicare lo stesso schema. Ma oggi è proprio il modulo che è andato in crisi. I conflitti sociali e familiari sono stati analizzati da tutti i punti di vista (della morale, del sentimento, del sesso, della psicologia, della sociologia, ecc. ecc.) e ormai lo sappiamo: il matrimonio non è tutto rose e fiori, la famiglia può diventare un nido di vipere, la società respinge chi non si omologa (e quindi omosessualità, droga, “diversità” etniche e culturali, ecc. ecc. sono tutti potenziali generatori di conflitto).

    Quando i critici parlano di “morte del romanzo” si riferiscono a questo tipo di storie: non ha più senso narrarle perché ormai sono risapute. Si possono fare riletture e rivisitazioni, ma la zuppa è sempre quella.    

                                                        ***

    Esaurito il modulo della tragedia, in che cosa può consistere un romanzo? Nel proporre un mistero e nel tentare di svelarlo. Se lo fa in modo logico è un giallo; se lo fa in un altro modo è un viaggio iniziatico.

    Benissimo, dice lo scrittore: adesso mi invento un delitto e gli organizzo intorno un giallo. Ma, a parte il puro e semplice aspetto enigmistico, quale sarà il senso generale della storia? Che non esiste il delitto perfetto?

    Ahimé. Beato chi ci crede. Se un lettore mi domandasse: “Dove li mettiamo Simonetta Cesaroni e Olaf Palme (tanto per fare solo un paio di nomi)?” cosa potrò rispondere? Che quando non ci arriva la polizia sarà il Destino a punire il colpevole? Ma non è vero! E allora perché dovrei raccontare queste fiabe per bambini piccoli?

    Oh perbacco, ma per l’ottima ragione che è il pubblico a chiederle. Il pubblico vuole essere consolato!

    Evabbe’: il pubblico chiede di essere consolato e gli scrittori lo accontentano. Ma siamo sicuri che tutti i lettori leggano soltanto per evadere in un mondo di confetti e zucchero filato? 

    D’accordo: esistono anche i lettori smaliziati, ed è proprio per loro che esiste il noir, la vicenda raccontata dal lato del “cattivo”, da un punto di vista amorale o anche immorale. Ma quanti sono?

    Non importa, dice lo scrittore. Se l’unico modo per non scrivere favolette è il noir, vuol dire che mi butterò sul noir.

    Ma il guaio è che anche il noir non è più quello di una volta. Da almeno vent’anni il genere ha virato verso il surreale: i cattivi non sono più esseri umani che uccidono per un solido movente, sono diventati zombi, orchi, mostri che uccidono per il gusto di uccidere. E non è questo un altro modo per raccontare la fiaba di Cappuccetto Rosso e del Lupo Cattivo?

    Lo scrittore, poveraccio, comincia a non sapere più dove picchiare la testa. Da un lato vuole sottrarsi all’impianto logico e moralistico del giallo, dall’altro vuole ricuperare l’umanità del cattivo. Hai detto niente! Ma la difficoltà che lo spaventa davvero è quella che intravede sullo sfondo: anche il noir, volere o volare, gira intorno al tentativo di dipanare una matassa, e questo significa che lo sbocco è obbligato: o il cattivo si redime o viene spedito all’inferno. 

    Invece la realtà è tutto il contrario, e chi legge lo sa. Troppi delitti restano impuniti. Gli amori non corrisposti restano senza lieto fine. Quelli corrisposti naufragano nella routine. Le carriere professionali non decollano e non c’è verso di capire perché. La vita quotidiana è costellata di invidie, sgambetti e prepotenze. I traguardi si spostano sempre più in là e non si raggiungono mai. 

    E allora, si domanda lo scrittore, perché non dovrebbe essere possibile un romanzo che racconti i guai e le stranezze della vita così come sono, senza farli seguire dai colpi di genio di un investigatore-deus ex machina, o da pestilenze gabellate per “provvide sventure”, o da improbabili conti di Montecristo che trovano tesori nascosti e si dedicano a far vendetta?  

                                                 ***

    Il bello del romanzo è che non tollera limiti: può far volare le astronavi a una velocità superiore a quella della luce, può far evadere Napoleone da Sant’Elena, può far scoprire i segreti perduti dei Templari.

    E allora perché non potrebbe riconoscere che la maggior parte dei misteri rimane senza soluzione? Perché non dovrebbe raccontare che ognuno di noi subisce dei torti, li manda giù, passa oltre e cerca gratificazioni di altro genere? Perché non dice chiaro e tondo che pure noi infliggiamo torti a chi non ci ha fatto niente (sì: anche a noi capita di essere malvagi), e ci raccontiamo bugie per giustificarci con noi stessi, e ci sentiamo vigliacchi davanti ai rimorsi, e cerchiamo di espiare aiutando altri che magari non se lo meritano?

    Solo in questo modo il romanzo potrebbe mostrare che il cattivo non è un marziano, che è semplicemente uno di noi che ha perso la bussola della moralità. Potrebbe lasciar perdere sia le misure di autodifesa della società che la vendetta del Fato, preoccupandosi invece di leggere ciò che avviene (o non avviene) nella coscienza di vittime e colpevoli.

    Ecco, un romanzo potrebbe dire queste cose senza cadere nei soliti cliché. Non è impossibile: l’ha fatto Camus, per esempio, con “Lo straniero” e “La peste”. Non si tratta di rifiutare il genere (noir, giallo, rosa, ecc.) per partito preso, ma di mandare in soffitta il buonismo consolatorio, l’espulsione del cattivo dal genere umano, la rituale scoperta del colpevole e conseguente riaffermazione dell’Ordine Costituito.

    Per guarire dalla sindrome fiabesco-pedagogica il romanzo deve tornare a dire la verità, a raccontare le cose come stanno. Non è in questione il genere, ma l’atteggiamento mentale.

 

                                         Il romanzo epico

 

    Riprendo da altri siti il saggio di Wu Ming 4 su Tolkien. Il sottotitolo è “il romanzo come incanto e comunità”. So che anche Giovanni Agnoloni, critico specializzato in hobbitshire, lo riprenderà sul suo blog. Da parte mia, vi anticipo che non mi convince l’insistenza di Wu Ming 4 sulla creazione multipla e pluriautoriale della saga (come se il collettivo Wu Ming avesse bisogno di cercarsi degli illustri precedenti). A proposito del “Signore degli anelli” posso dire questo: io detesto scrivere favole ma quando sono fatte bene mi piace leggerle. In particolare, apprezzo la capacità di inventare storie di ampio respiro, che vadano oltre il singolo personaggio e che illustrino il senso della vita sottostante a una intera cultura. Wu Ming 4 trova nel “Signore degli anelli” incanto, viaggio in un labirinto di altre storie accennate ma non dette, impressione di profondità, ecc. ecc. Secondo me, questi sono semplicemente effetti della scrittura epica. A che serve tirare in ballo Omero e Beowulf se poi si sottace la parola-chiave? Epica, epica! Tolkien sapeva concepire le storie in modo epico. Hai detto niente!   

 

                                  TOLKIEN E I COHABITERS

 

Se vuoi la mia opinione, il fascino [del Signore degli Anelli] consiste in parte nell’intuizione dell’esistenza di altre leggende e di una storia più ampia, di cui quest’opera non contiene che un accenno. (J.R.R. Tolkien, lettera 151, settembre 1954)

Senza falsa modestia è stato lo stesso Tolkien a riconoscere uno dei segreti del proprio successo di pubblico. Da studioso della letteratura antica e medievale sapeva quale enorme attrattiva possa esercitare su chi legge l’ingresso in un mondo e in un’epoca sconosciuti. Nella sua opera ha infatti saputo rendere quella che Tom Shippey chiama la “beowulfiana impressione di profondità”, riscontrabile nelle grandi epopee letterarie.

In questo senso Tolkien non si differenzia molto da un romanziere storico, tanto più perché proprio con attitudine “storica” si è avvicinato alla narrativa fantastica. Prima ancora che un inventore di mondo, si considerava l’indagatore di un passato mitico, per quanto ipotetico (”ho sempre avuto la sensazione di registrare qualcosa che c’era già, da qualche parte: non di inventare.” – lettera 131, autunno 1951). Si considerava cioè il narratore di un “tempo immaginario”, ma “con i piedi ben puntati sulla nostra madre terra” (Lettera 211, ottobre 1958).
Da questo punto di vista è relativamente secondario che le fonti indagate da Tolkien fossero prodotte da lui medesimo. Anche un romanziere storico classicamente inteso infatti compie un’operazione creativa più che mimetica, non solo immaginando la psicologia dei personaggi, che devono risultare tanto storicamente plausibili quanto comprensibili agli occhi dei lettori contemporanei, ma anche scegliendo quali zone del passato illuminare e quali lasciare in ombra, attraverso quale angolazione – quali occhi – far vedere un dato contesto, quali singole storie far risaltare sul fondale della grande Storia.
A questa si aggiunge un’altra affinità. Sia che si tratti di resuscitare un mondo passato, sia che se ne voglia immaginare uno fantastico, le vicende narrate si svolgeranno in un contesto in buona parte ignoto, dai confini inevitabilmente vaghi per un pubblico non specializzato. Se sfruttata al meglio – ad esempio attraverso il rimando a piani e vicende ulteriori – questa “vaghezza” fornisce facilmente alla narrazione un effetto di profondità, di tridimensionalità, che ne aumenta il fascino. Lasciando intendere che la storia non si esaurisce nelle pagine del romanzo che si sta leggendo, si allude a una sua potenziale espansione in molte direzioni. Il romanzo diventa portale d’accesso a un mondo tutto da scoprire, nel quale la vicenda narrata rappresenta solo uno dei sentieri percorribili.
È questa, per Tolkien, la prospettiva dell’artista creatore di universi narrativi, ovvero del “subcreatore”.
Il subcreatore si pone nel ruolo di guida, di apripista attraverso una landa inesplorata. Insieme al lettore compie un viaggio, dalla prima all’ultima pagina, che li vede ineluttabilmente uniti nella condivisione dell’avventura e della scoperta. Scoperta di quel mondo e di come andrà a finire la storia che in esso si dipana.
Tolkien definiva questo processo “Incantesimo”:

L’Incantesimo genera un Mondo Secondario nel quale possono entrare sia l’artefice sia lo spettatore, a soddisfazione dei loro sensi mentre vi si trovano. (J.R.R.T., Sulle fiabe)

Questo movimento di condivisione e di esplorazione congiunta, questo farsi compagnia ed essere compagnia, nella buona e nella cattiva sorte, è qualcosa di unico, che già connota e contraddistingue la narrativa-Incantesimo, o se si preferisce la narrativa-mondo.
L’Incantesimo, precisa Tolkien, è cosa assai diversa dalla Magia. A differenza dell’incanto, che spinge a credere, che trasporta altrove, che fa uscire dal proprio sé particolare, la Magia è un mero gioco di abilità. Essa non crea mondi secondari:
La Magia produce, o finge di produrre, un’alterazione nel Mondo Primario […]. Non è un’arte ma una tecnica… (Ibidem) C’è il mago, sotto i riflettori, e di fronte a lui, nel buio, il pubblico che assiste e contempla la sua bravura. I ruoli sono distinti e ben marcati. Lo spettatore sa che nulla di ciò che sta vedendo è vero, ma decide razionalmente di sospendere l’incredulità e godersi lo show. Sa perfettamente che il Mondo Primario non verrà davvero alterato e che alla fine del prestigio tutto tornerà come prima: la donna segata verrà ricomposta e ciò che è sparito riapparirà. Il messaggio è catartico e rassicurante: tutto finisce bene, l’ordine delle cose viene ripristinato, il sé è salvo e può tornare alla vita di sempre.
La narrativa-Incantesimo, al contrario, vuole essere fondativa: ci chiede di abitare un altro spazio-tempo dai confini tratteggiati, di condividerlo, di mapparlo. E’ uno dei motivi per cui facilmente intorno a certi romanzi, o saghe letterarie (e cinematografiche) nascono comunità di “coabitanti”, cioè di persone che vogliono partecipare al racconto. Il cosiddetto fandom e la fan fiction rappresentano appunto questo tipo di fioritura comunitaria.

La critica letteraria raramente riesce a cogliere e analizzare questo aspetto vitale di certa narrativa. Più spesso tende a stigmatizzarlo come effetto collaterale, o addirittura degenerazione feticistica. Questo è particolarmente vero in Italia, dove il pregiudizio ideologico e idealistico rispetto alla letteratura è ancora forte. Critici e accademici guardano troppo spesso con freddezza e snobismo ai fenomeni culturali che nascono dal basso e che bypassano il loro ruolo castale di mediatori. Tanto più tendono a denigrare la passione popolare che spinge le persone a partecipare all’impresa creativa.
Un esempio eclatante di questo atteggiamento è L’Anello che non tiene (Minimum Fax, 2003), in cui gli autori, Lucio Del Corso e Paolo Pecere, irridono spocchiosamente la fan culture tolkieniana. L’intero capitolo 2 del saggio in questione, «Società Tolkieniane», è un caso perfetto di equivoco, di incomprensione, nonché – è il caso di dirlo – di ignoranza del fenomeno fandom e di ciò che esso rappresenta. Un esempio valga per tutti: i due autori prendono in giro il “fanatismo” che a loro dire spinge alcuni appassionati a comporre vocabolari, grammatiche o glossari delle lingue della Terra di Mezzo. Dimostrano così di ignorare come l’opus tolkieniano abbia avuto origine proprio dall’invenzione di lingue fantastiche. Già un quarto di secolo fa uno studio dirimente come quello di Verlyn Flieger (Splintered Light, 1984) ha dimostrato che proprio la filologia fantastica (o meglio, ipotetica) costituisce l’architrave dell’intera costruzione narrativa di Tolkien, nonché la sua principale chiave esegetica. Che qualcuno voglia cimentarsi su quello stesso terreno quindi può essere un modo filologicamente corretto di affrontare la materia in questione, e senz’altro è un tentativo di dare compimento a qualcosa a cui Tolkien teneva moltissimo.

Al di là della diffidenza nei confronti delle forme più o meno pittoresche di passione partecipativa, il problema di fondo è forse un altro. Gli studi letterari nella scuola e nell’accademia italiana hanno sempre prediletto un approccio autoriale alla narrativa. L’analisi delle opere avviene alla luce vincolante della biografia e del pensiero dei singoli autori, delle correnti letterarie a cui fanno riferimento e della loro storicizzazione. Questo rende difficoltoso considerare l’opera come qualcosa che trascende l’autore stesso e che non si limita a rispecchiare il suo pensiero o lo spirito dell’epoca in cui viene scritta, nonostante sia proprio ciò che accade per la grande letteratura.
Paradossalmente si potrebbe dire che l’autorialità è il vero effetto collaterale della narrativa. I narratori passano, le storie restano e continuano a essere raccontate. L’autore è un ricettore, un elaboratore di archetipi e stilemi che l’hanno preceduto e che gli sopravvivranno. La sua originalità risiede nella capacità (sub)creativa di ridare vita, di ricombinare e rideclinare l’ininterrotto flusso di storie prodotto dall’umanità. Per dirla ancora con Tolkien, l’arte narrativa consiste nella capacità di cogliere il nocciolo di “verità” presente nel mito e riproporla in forme non scontate e poeticamente affascinanti. In questo senso la mitopoiesi di Tolkien è quanto mai paradigmatica.
Nella sua costruzione narrativa confluiscono svariate tradizioni mitiche e letterarie, nonché filosofiche, abilmente miscelate attraverso l’utilizzo di almeno tre generi letterari: il romanzo, il legendarium, la poesia.
Conseguenza diretta di questa concezione della narrativa è che, una volta resa pubblica l’opera, l’autorità dell’autore su di essa viene meno e le storie che ha saputo raccontare rientrano nel flusso delle narrazioni, per diventare patrimonio collettivo:

Naturalmente Il Signore degli Anelli non mi appartiene. E’ stato portato a termine e ora deve andare per la sua strada, nel mondo, benché sia naturale che io provi molto interesse per le sue fortune, come un genitore si interessa a un figlio. (Lettera 328, autunno 1971)

L’indipendenza dell’opera dall’autore è una delle ragioni d’essere della narrativa stessa.
Cosa sarebbe successo se i servitori avessero eseguito le disposizioni di Virgilio sul letto di morte e avessero bruciato i libri dell’Eneide?
Certo se Tolkien fosse stato affetto dalla stessa paranoia autoriale e avesse distrutto le proprie storie incompiute per impedire che gli sopravvivessero, oggi potremmo leggere forse meno di metà della sua produzione narrativa (e negli ultimi trent’anni Christopher Tolkien avrebbe avuto molto più tempo libero!). Fortunatamente non solo Tolkien non ha fatto nulla del genere, ma ipotizzava che prima o poi le ampie zone da lui lasciate in ombra nella storia della Terra di Mezzo avrebbero potuto attirare nuovi esploratori disposti a illuminarle, facendo addirittura convergere differenti media:

Alcuni dei racconti più vasti li avrei raccontati interamente, e ne avrei lasciati altri solo abbozzati e sistemati nello schema d’insieme. I cicli sarebbero stati legati in un grande insieme, e tuttavia sarebbe rimasto lo spazio per altre menti e altre mani che inserissero pittura e musica e dramma. (Lettera 131, autunno 1951)

Viene da chiedersi cosa il vecchio professore avrebbe pensato se gli avessero predetto che alle soglie del XXI secolo l’attitudine coabitativa tra autori e pubblico, l’interscambio paritetico e la condivisione di mondo, sarebbe stata favorita dai creativi dell’industria culturale, e che in questo senso proprio la Terra di Mezzo sarebbe stato uno degli universi narrativi più popolosi:

La narrazione è divenuta sempre più l’arte della creazione di mondi, dal momento che gli artisti creano ambientazioni affascinanti non completamente esplorabili e non concluse in un unico lavoro o su un singolo medium. Il mondo è più grande del film, e perfino del franchise, dato che le elaborazioni e le congetture dei fan lo espandono in varie direzioni. (H. Jenkins, Cultura Convergente, 2007).

Soprattutto grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie e alla loro grande accessibilità, è oggi possibile l’intervento di “altre menti” e “altre mani” auspicato da Tolkien. Per dirla con Shippey, le vie per la Terra di Mezzo si sono moltiplicate.
Le storie di Tolkien non sono soltanto contemplate e feticisticamente mimate – come vorrebbero Del Corso e Pecere -, ma vengono anche integrate e raccontate secondo modalità e prospettive diverse. La qualità dei risultati ovviamente dipende dalla perizia e dal talento di chi si cimenta nell’impresa, ma del resto questo vale sempre e comunque per ogni narrazione.
Peter Jackson ad esempio ha scelto di violare il vincolo che Tolkien si era imposto, cioè quello di raccontare le vicende legate alla Guerra dell’Anello dall’esclusiva visuale degli hobbit. Cambiando medium cambiano le esigenze narrative e certe cose è preferibile farle vedere in presa diretta, anziché farle raccontare dai personaggi in lunghi flash-back.
Non solo. Jackson ha inserito nel flusso della narrazione episodi che comparivano nelle Appendici del romanzo (come la storia d’amore tra Aragorn e Arwen) e ne ha espunti altri (Tom Bombadil, la liberazione della Contea da parte degli hobbit, etc.). Il regista neozelandese non ha soltanto “tratto liberamente” un film dal romanzo, bensì ha raccontato la stessa storia in un modo nuovo, fornendo la propria lettura dei temi sottesi all’opera, che non coincide con quella dell’autore. Per fare questo si è avvalso proprio delle comunità di tolkieniani sparse per il mondo, andando in mezzo a loro, spiegando le proprie scelte sui forum degli appassionati, addirittura usando la loro forza d’urto contro i tagli draconiani che la produzione avrebbe voluto imporre alla storia (vedi il bel saggio di Kristin Thompson The Frodo Franchise: The Lord of the Rings and Modern Hollywood, Berkeley 2007). Inutile dire che solo un fan avrebbe potuto farlo.

Un altro esempio interessante è naturalmente quello di Alex Lewis, fondatore della rivista di fan fiction tolkieniana Nigglings, che ha prodotto alcuni spin off e perfino ucronie interne all’opera di Tolkien, provando a immaginare l’inversione di destini tra alcuni personaggi (Una radura nell’Ithilien) o raccontando le stesse storie sotto una luce differente (come Il Libro Nero del Mastio Rosso, originale rilettura della storia del principe Isildur). Uno spunto notevole lo forniscono anche i creativi della Electronic Arts, che hanno sfruttato una delle fenditure lasciate aperte da Tolkien per illuminare una zona d’ombra della Guerra dell’Anello e ideare il videogioco La Battaglia per la Terra di Mezzo II (EA Games, 2006). Anche in questo caso si tratta di uno spin off del Signore degli Anelli, nato da poche righe nell’Appendice A del romanzo, dove lo stesso Tolkien fornisce notizie su una vicenda parallela a quella principale. Mentre la narrazione segue la Compagnia che si sposta e combatte a sud, un grande scontro avviene anche a nord, dove l’offensiva di Sauron incontra la resistenza di nani e uomini:

Quando infine sopraggiunse la Guerra, l’assalto più massiccio fu rivolto a sud; e tuttavia allungando molto la mano destra Sauron avrebbe potuto creare grossi danni a nord, se non avesse incontrato la resistenza di Re Dàin e di Re Brand. (Il Signore degli Anelli, Appendice A)

Il fatto che non si tratti di un episodio bellico secondario è dimostrato dalle parole che Tolkien fa pronunciare a Gandalf:

Eppure le cose sarebbero potute andare assai diversamente, e molto peggio. Quando penserete alla grande Battaglia del Pelennor, non dimenticate le Battaglie della Valle e il coraggio del Popolo di Durin. Pensate a ciò che sarebbe potuto succedere. Fuochi di Draghi e spade selvagge nell’Eriador, notte cupa a Gran Burrone. Potrebbe ora non esserci una Regina a Gondor. E noi al nostro ritorno dalla vittoria avremmo potuto trovare nient’altro che cenere e distruzione. (Ibidem)

Il videogioco La Battaglia per la Terra di Mezzo II vede protagonisti di questa campagna collaterale due personaggi di seconda linea del romanzo: il nano Glòin e l’elfo Glorfindel, già presenti al Consiglio di Elrond in rappresentanza dei loro popoli, ma che non si uniscono alla Compagnia dell’Anello. Insieme guideranno una spedizione per intercettare e arginare l’avanzata degli eserciti di Sauron a nord, fino a distruggerli completamente.
Tuttavia la storia sottaciuta da Tolkien che forse più di tutte si presta a essere “scoperta” è quella dei due Stregoni Blu inviati nella Terra di Mezzo insieme a Saruman, Gandalf e Radagast, e che si persero nelle lande orientali. Quanto più perigliosa (e vana) rispetto a quella di Gandalf deve essere stata la loro impresa, sulle sponde del Mare di Rhun, nelle steppe degli Esterling. E certo qualche solerte fan ha già provato a immaginarla. Del resto, già da molti anni la comunità dei più tradizionali giocatori di ruolo pratica un’attività di complemento e compendio creativo, nonché un modo ludico – e non per questo banale – di coabitare la Terra di Mezzo, come dimostra il grande lavoro della Middle-Earth Role-Playing Community.

Infine è il caso di citare il fan film autoprodotto dal giovane regista Chris Bouchard con un budget di appena 3000 sterline, The Hunt for Gollum (2009). Il cortometraggio di 45 minuti racconta un episodio che si colloca nel periodo di interregno tra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, a cui si accenna di sfuggita nel romanzo e negli scritti collaterali. Si tratta dell’inseguimento di Gollum da parte di Aragorn per ottenere informazioni sul possessore dell’Anello. Visto il successo dell’operazione (dovuto all’eccellente qualità del prodotto amatoriale), Bouchard si è subito messo all’opera per girare un secondo episodio, Born of Hope, che ha visto la luce nell’autunno 2009.

Si potrebbe continuare a lungo citando esempi su esempi di come nel caso della Terra di Mezzo il fandom abbia saputo rivelarsi una risorsa viva e prolifica. L’opera dei lettori prosegue quella dell’autore, rendendola a tutti gli effetti una narrazione corale con la quale interagire e alla quale porre sempre nuove domande.
In questo modo il movimento reale dei fan, la loro “class action”, sta dando risposta ai dubbi che Tolkien stesso aveva avanzato riguardo allo sviluppo della propria architettura narrativa:

Non sono del tutto sicuro, ora, che la tendenza a trattare tutto come una specie di grande gioco sia veramente buona – certamente non per me, che trovo questo genere di cose fatalmente affascinante. È, suppongo, un tributo da pagare visto il curioso effetto di questa storia, basata su una geografia, una cronologia e un linguaggio molto elaborati e dettagliati, che tanta gente debba chiedere a gran voce “informazioni” o “cognizioni”. Ma le domande che la gente fa richiederebbero un libro per rispondere… (Lettera 160, marzo 1955)

E ancora:

Il fascino del Signore degli Anelli è in parte dovuto, penso, all’intuizione di una storia più ampia sullo sfondo: un fascino simile a quello esercitato dalla visione di un’isola lontana e inesplorata, o a quello delle torri di una città che brillano in lontananza nel pulviscolo del sole. Andare fin là significa distruggere la magia, a meno che non si rivelino altri irraggiungibili panorami. (Lettera 247, settembre 1963)

Tolkien temeva due cose: da un lato di essere fagocitato dal processo di specificazione e indagine del mondo da lui stesso creato; dall’altro di rovinare l’effetto di profondità guadagnato con la pubblicazione del Signore degli Anelli, svelando “troppo” (nelle Appendici e nel Silmarillion) della storia pregressa della Terra di Mezzo.
Ebbene, si può dire che se oggi fosse qui vedrebbe svanire i suoi timori.
Se suo figlio Christopher ha raccolto il testimone, dando compimento all’opera del padre e mantenendolo un autore prolifico durante i trentasei anni che ci separano dalla sua morte, l’impresa titanica di approfondimento e trattazione dei singoli aspetti della Terra di Mezzo – compito immane per un uomo solo e forse anche per due – è stata presa in carico da un’intera comunità. È infatti diventata responsabilità collettiva dei lettori più appassionati proseguire l’esplorazione laddove Tolkien non ha avuto il tempo e il modo di farlo. Ma questo è ben lungi dall’impedire l’avvistamento di “altri irraggiungibili panorami”, poiché se è vero che molta parte della storia in questione è stata lasciata in forma di legendarium e di cronologia, proprio questo garantisce un serbatoio inesauribile di vicende romanzabili. Basti pensare alla Seconda Era (quella più oscura), o alla Quarta, dopo la Guerra dell’Anello, il lungo tempo storico che dal regno di Re Elessar giunge fino a noi. Romanzieri, fan writers, registi, ideatori di videogiochi, potenzialmente hanno ancora moltissimo materiale su cui cimentarsi e si può ben sperare che continuino a farlo, a prescindere dal fatto che “feticisticamente” si travestano da elfi o pretendano di fumare erba-pipa.
A conti fatti è proprio questo che colloca il ciclo della Terra di Mezzo nel solco delle grandi saghe epiche a cui tanto deve la subcreazione tolkieniana. Saghe che sono giunte fino a noi grazie al passaggio di mano e al contributo di generazioni di “fan”.

In fondo se si dovesse trovare un punto d’origine di questa lunga vicenda letteraria, si potrebbe risalire a un piccolo studio del Magdalen College, a Oxford, un giorno di tanti anni fa, quando C.S. Lewis espresse a Tolkien una celebre quanto semplice considerazione: “Se nessuno scrive quello che noi vorremmo leggere, dovremo essere noi a scriverlo.” (Lettera 159, marzo 1955) Va da sé che se invece qualcuno scrive ciò che vogliamo leggere, e se anche a noi piace scrivere, non c’è niente di meglio che farlo insieme.

 

    Una recensione di Fabrizio Centofanti su La Poesia e lo Spirito

 

a Riccardo Ferrazzi, Gli occhi di Caino, Eumeswil Edizioni, 2009.

 

    Ecco un libro giunto da Milano: un’edizione assai piacevole, con sovraccoperta bordeaux e segnalino di identico colore. Eumeswil fa le cose per bene.

    Nella scrittura si entra a poco a poco: all’inizio fatichi a decifrare persone e situazioni, distribuite in capitoli rapidi alla Kundera: poi, ogni pagina aggiunge il tassello che mancava, i volti diventano più chiari, la trama prende corpo coinvolgendoti al di là delle tue disposizioni. L’identificazione con il protagonista si realizza presto: è un uomo con le fragilità, le paure e i desideri incisi nella nostra carne; in lotta con i mostri, come Padre Juan de Sahagun, che riesce a dominarli con una formula semplice: Tente necio!, fermati bestia!, – grida al toro che getta nel terrore i malcapitati in cui s’imbatte per la strada.

    Impresa più difficile per Vittorio Fabbri, protagonista di una storia sempre sul punto di mutare, metamorfosi mai paga di stupire il lettore e forse lo stesso autore che dovrebbe reggerne le fila. Grovigli di intenzioni e azioni si sovrappongono e sfumano le une dentro le altre costringendo a divorare le pagine, a inseguire gli eventi con lo stesso ritmo con cui i personaggi del romanzo si inseguono tra loro, in un continuo trapasso fra il presente e un passato di vent’anni prima, destinato a presentarsi a intervalli più o meno regolari.

    Salamanca è il prototipo di un mondo che si sottrae a interpretazioni conclusive, perché in fondo nessuno ne conosce l’anima, e tutto rischia di finire deformato da una maschera, come quella trovata sul cadavere di don Augustin, capro espiatorio di un popolo incapace di qualunque fedeltà, che dal peccato e la cacciata dall’Eden corre senza sosta verso occidente, incurante di ogni ostacolo.  

    L’enigma resiste fino in fondo, in spirali vorticose da cui si dipartono riflessi inquietanti, come dagli occhi di Caino: riuscì Abele a vederli, prima di venire assassinato? E’ questa la domanda centrale del romanzo, che intreccia un fuoco di fila di equivoci e rivelazioni privi di un approdo di consapevolezza decisiva: il Nulla che entrò dalla ferita della costola di Adamo sembra averne segnato per sempre la possibilità di afferrare il senso della storia. Resta la lotta per la libertà, il cui fantasma si aggira di pagina in pagina in questo libro che consiglio di non perdere.

                    

                               Un divertissement à la Angiolini

 

    Non aveva sottomano “Gli occhi di Caino”. Non poteva leggerlo. Ma come trattenere Lucio Angiolini quando decide di promuovere il libro di un amico riservandogli uno dei suoi tipici sberleffi? Ecco qua: Angelini legge la nota di presentazione, coglie un verbo espressionista e ci ricama sopra una delle sue proverbiali, irriverenti sghignazzate.

 

RICCARDO FERRAZZI E L’ASPHYXOPHILIA.

«L’asphyxophilia o asfissia autoerotica è un tipo particolare di parafilia che consiste nel gratificarsi sessualmente tramite auto-strangolamento o asfissia: è un gioco erotico pericolosissimo, tanto è vero che uno studio dell’FBI ha stimato che la morte per asfissia autoerotica costituisce il 31 % dei moventi nelle impiccagioni di tutti i giovani adolescenti. Lo strangolamento o l’impiccagione (anche incompleta) durante la masturbazione sembra che dia delle forti sensazioni erotiche: il problema è che se non viene arrestata in tempo può causare stati di incoscienza e impedire al soggetto di smettere questo gioco erotico, inducendo un decesso per asfissia… ».

Da http://www.bodyweb.com/forums/caffetteria/88481-l-asphyxophilia-o-asfissia-autoerotica.html

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Mi è venuto in mente tutto ciò leggendo la nota di presentazione del nuovo libro di Riccardo Ferrazzi qui:

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http://www.ibs.it/code/9788889378618/ferrazzi-riccardo/occhi-caino.html

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Conclude, infatti, la nota:

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«Sapori iberici e l’inevitabilità di un sentore da Santa Inquisizione SOFFOCANO il lettore sino all’ultima parola scritta.»

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Amanti dell’asphyxophilia, dunque, fatevi sotto!

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Ve lo consiglia anche RAUL MONTANARI, che nella prefazione ricorda:

«Solo facendosi altro da se stesso, solo guardando la propria vita dall’alto (dall’altro) un uomo può orientarsi e, se non altro, limitare i danni… »

 

 

                                               Blackout

 

    Qual è la tassa più odiata (e più evasa) d’Italia? Il canone Rai. Possibile che non si sia ancora trovato il modo di eliminarla? Pare proprio di no. Personalmente, sospetto che la sopravvivenza di questo balzello dipenda dal fatto che non ci sono due italiani che si trovino d’accordo sul modo di eliminarlo. E sì che siamo sessanta milioni.

    Eppure non sarebbe neanche una cosa complicata: basterebbe togliere il tetto pubblicitario per la Rai. Gli introiti pubblicitari aggiuntivi sarebbero sicuramente pari o superiori al gettito del canone e con un minimo di razionalizzazione nelle spese la Rai farebbe utili, pagherebbe dividendi, potrebbe essere messa sul mercato permettendo allo Stato di ridurre (in piccola parte) il debito pubblico. Con il risparmio sugli interessi passivi lo Stato potrebbe mantenere un canale all news con pochissimi dipendenti, niente canone e niente pubblicità.

    Macché. Troppo facile! Così sarebbe danneggiata Mediaset, che verrebbe ad avere meno pubblicità. Una riforma così la destra non la farà mai.

    Però, proprio per questo, avrebbe dovuto farla la sinistra quando è stata al governo. Invece anche la sinistra se n’è ben guardata. Come mai? Sperava di restare al potere per sempre, così la Rai sarebbe rimasta eternamente “cosa sua”? Oppure ha temuto che gli imprenditori amici non avessero abbastanza spiccioli per comprare il controllo di una Rai quotata in Borsa? 

    Mi sbaglierò, ma secondo me il motivo vero è un altro. Una Rai senza canone, anche se restasse pubblica, dovrebbe essere gestita in modo economico, e questo non lo vuole nessuno (salvo i contribuenti, ma di quelli chi se ne frega?). La Rai non è un’azienda pensata per fare un prodotto da vendere a chi lo vuole. Nasce come Eiar per produrre una informazione gradita alla politica. Quindi può essere soltanto un carrozzone da finanziare a pié di lista. Di gestire la baracca in modo economico per fare utili e distribuire dividendi non se ne parla neanche. Come si giustifica tutto ciò? Naturalmente con il “servizio pubblico” e la “vocazione a produrre cultura”.

    Ma il risultato è che, per sopravvivere senza aumentare troppo il canone, la Rai deve rincorrere Maria De Filippi e il Grande Fratello, coccolare insigni nullità come Carlo Conti e Antonella Clerici, produrre fiction di serie C, imporre ai telespettatori la vanagloria e l’inconsistenza di mille sbrodolatori della propria nullità. Il tutto per arrivare a un bilancio programmaticamente in pareggio (quando non in deficit), che dovrebbe costituire una prova a contrariis: se non riusciamo a guadagnare è perché facciamo tv di qualità. Menzogna spudorata.  

    Tutto questo i politici di destra e di sinistra lo sanno benissimo, e si rendono conti di non farci una bella figura. Ma si domandano: supponiamo di privatizzare la Rai; anche se riuscissimo a collocarla in mani amiche, chi ci garantisce che autori, conduttori e giornalisti non prendano andazzi fuori dal nostro controllo? Nessuno. E allora perché privatizzare? Per togliere ai telespettatori il fastidio del canone? Ma si fottano i telespettatori! Perché rinunciare a usare la tv per supportare il governo pro tempore? Per togliere una tassa ai cittadini? Oh, beata ingenuità!

    Eppure, se l’alternanza di destra e sinistra al potere fosse una cosa scontata, una sostanziale neutralità televisiva sarebbe di vantaggio anche per la politica. Una volta eliminato il tetto pubblicitario e quotata in Borsa la Rai, si potrebbe estendere la competenza della Commissione Parlamentare di Vigilanza a tutte le tv a copertura nazionale. La politica finirebbe per esercitare un controllo non solo sulla Rai, ma anche su Mediaset, Sky e la7. Qualcuno griderebbe alla censura. Ma (almeno in teoria) un controllo parlamentare, anche se diventasse una censura di fatto, dovrebbe essere un elemento di garanzia democratica. 

    Insomma: in teoria si potrebbero fare un sacco di cose. Peccato che siano tutte utopie. In pratica, una riforma della Rai è impossibile: i veti incrociati bloccano sul nascere qualunque iniziativa. E dunque rassegnamoci a tenercela così com’è. Continueremo a pagare il canone, ad aspettare il bollettino, a fare la fila in Posta. Che tristezza!

    Ma davvero non si può fare niente? A livello di intervento legislativo proprio no. A livello individuale qualcosa ci sarebbe: potremmo spegnere la tv quando i programmi fanno schifo. Ma sono anni e anni che si predica questo rimedio e non pare che abbia molto successo. Quando uno torna a casa, accende la tv e si becca quel che c’è. Se gli viene il voltastomaco, non gli resta che abbaiare alla luna.

    Con la certezza di non essere ascoltato, propongo un rimedio paradossale: quando un qualunque canale ha in programma Fede, Santoro, Floris, Vespa, Lerner e compagnia cantante, lasciamo spenta la tv “a prescindere”. Non limitiamoci a guardare un altro canale: facciamo blackout. Se il livello medio dei programmi fa pietà, è anche per spingere gli spettatori verso i cosiddetti “programmi di approfondimento” (che sono quelli che interessano alla politica). Ebbene, rifiutiamoci. Facciamo disobbedienza civile. Guardiamo la tv solo negli orari in cui non ci sono “programmi di approfondimento”.  

    Questa proposta vi scandalizza? Volete a tutti i costi stare seduti davanti al teleschermo? Oppure non vi va l’idea di rinunciare ai dibattiti politici? Be’, provate a pensare: a che servono programmi che carezzano il pelo agli uni e fanno incazzare gli altri? Si è mai sentito di qualcuno che dopo aver visto una puntata di Anno zero o di Porta a Porta si sia convertito sulla via di Damasco e sia passato da destra a sinistra o viceversa? E voi (sì, proprio voi), avete davvero bisogno di ascoltare gli uomini politici litigare come lavandaie per farvi le vostre idee? Non credo.

    Sbaglierò, ma ho l’impressione che i “programmi di approfondimento” abbiano più che altro lo scopo di fare audience solleticando la pancia a questa o a quella parte del pubblico. E anche quando la pancia è la nostra, sai che soddisfazione.       

   

                                                 Rai 

 

    Lasciando da parte l’irrisolvibile problema del canone, un altro dilemma sembra angosciare gli intellettuali italiani: come tollerare il penoso livello della “prima industria culturale del Paese”? Già risulta insopportabile sui canali Mediaset la presenza (e lo share!) di personaggi come Maria De Filippi, Barbara D’Urso e veline assortite; perché mai, si domandano gli acculturati, dobbiamo sopportare sulla Rai le fiction di don Matteo, i telefilm simil-Chuck Norris, il talk show di Bruno Vespa e i tigì di regime?                 

    Nessuno si accontenta della ricetta della nonna: se un programma non ti piace, non guardarlo. Ciò che irrita e deprime l’intelligentzia nostrana è il fatto che quel programma sia visto da milioni di “altri”. Come faranno quei poveri di spirito, quei minus habentes, a sottrarsi al fascino canagliesco e soporifero dell’incultura? Ah quanta nostalgia per la Rai didattica di Bernabei (benché democristiana), a canale unico, che ogni venerdì sera edificava l’Italia con una pièce teatrale (ma mica sempre era roba d’alto livello: propinava anche fior di baggianate), che arricchiva lo spirito dei telespettatori con gli sceneggiati (ma non c’erano soltanto Dostoevskij e Balzac: capitavano anche insigni porcherie), che intratteneva con i quiz nozionistici di Mike Bongiorno (ma Umberto Eco, alzando minaccioso il sopracciglio, lo indicava come un perverso corruttore). Insomma, l’eterno ritornello italiano: si stava meglio quando si stava peggio. 

    In questo discorso qualcosa non vi torna? Ci credo: come gli antichi pitagorici, gli intellettuali parlano un linguaggio esoterico, destinato a chi è “del giro”. Ma niente paura: il significato dei loro discorsi viene sempre alla luce. Prima o poi qualche neofita lo svela ingenuamente coram populo.

    E infatti non so più su quale blog ho letto un commento di un candore disarmante. Diceva più o meno così: “Io guardo solo Anno zero, Ballarò e Report. Ma ogni tanto, inavvertitamente, casco sul Tg1 e vengo colto da conati di vomito ascoltando gli editoriali di Minzolini. Come è possibile che la Rai trasmetta roba di così basso livello? La qualità della Rai è una vergogna che non può essere tollerata oltre!”

    Di Minzolini si può pensare tutto il male possibile, naturalmente; però non si può dire che faccia un editoriale al giorno. Il candido blogger non guarda il Tg1 “ogni tanto, inavvertitamente”, ma tutte le sere; e si secca perché non lo trova allineato sulle posizioni di Anno zero.

    Ne ha tutto il diritto. Ma la qualità dei programmi non c’entra. Semplicemente, l’indignato apprendista intellettuale si ribella all’idea che altri non la pensino come lui. Eppure è inevitabile che sessanta milioni di esseri umani si dividano in tante fasce, ciascuna con gusti e opinioni diverse. C’è chi guarda a sinistra, chi a destra, e chi di politica non vuole neanche sentir parlare. Dunque, che senso ha indignarsi per le veline e i tronisti? Non sarebbe il caso, semmai, di studiare cosa vogliono i telespettatori e darglielo (in versione possibilmente non becera), invece di imporre le solite Corazzate Potemkin? Non è impossibile: Renzo Arbore l’ha sempre fatto. Possibile che lo sappia fare soltanto lui?

    E poi, scusate l’impertinenza, ma come mai non esiste una risposta intelligente a Maria De Filippi? Non sarà perché l’intellettuale “non si abbassa”? Non sarà che si crede chissà chi e, quando si ritrova oscurato da chi gioca al ribasso, invece di rimboccarsi le maniche trova più comodo indignarsi?  

    Faccio del mio meglio per trattenermi dal rispondere a queste domande. Nel frattempo, sono consolato da alcune certezze che vorrei condividere con voi.

    1) Le tv inglesi, tedesche, francesi sono noiosissime, piene di documentari sugli squali o sui facoceri. La cultura latita (il fin troppo famoso “Bouillon de culture” era una goccia nel mare). Di politica si parla molto meno che da noi.  

    2) L’intrattenimento sulla Rai c’è sempre stato. “Canzonissima” non era un veicolo di cultura come non lo è “Ballando con le stelle”. E meno male! Se la tv fosse tutta “di qualità”, sarebbe un mortorio.

    3) Il livello generale dei programmi è decaduto? Può darsi. La comunicazione va tarata sul livello più basso dell’audience. Quando la platea si allarga, il livello della comunicazione si abbassa. È inevitabile.

    4) La cultura è drammaticamente assente? Certo. Ma la cultura è aristocratica e interessa a pochi.  

    5) I partiti dovrebbero smettere di usare la tv come strumento di propaganda. Ma questo non succederà mai: nel paese dei guelfi e dei ghibellini si fa politica come si fa il tifo, e la politica in tv resterà un eterno “Processo del lunedì”.   

   

                                          Il furto in politica               

 

    Ho dichiarato varie volte che questo blog non si occupa di politica. Mi riferisco alla politica in senso stretto: lotte di potere, defezioni, riunificazioni, eccetera; insomma, la politica quotidiana di cui danno conto giornali e tg. I risultati delle elezioni regionali non mi interessano.

    Ma non sono un eremita, non posso ignorare i problemi del vivere in comunità e coltivo il gusto di ragionare finché è possibile farlo in termini generali. Mi piace prendere spunto dai problemi concreti per risalire al diritto costituzionale oppure agli usi e costumi. Il che, per dirla in modo marxiano, significa grosso modo studiare le condizioni in cui l’ideologia si fa prassi. Mi limito a questo. Quindi, se fra i miei ventitre lettori ce ne fosse uno deciso a proseguire la lettura di questo post, sappia che ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale.

    Dopo questo alato proemio, passo subito a una dichiarazione magari scandalosa che però ha il pregio della chiarezza: in politica mi fanno più paura gli incorruttibili che i ladri. La corruzione va limitata per quanto è possibile, ma chi pretende di eliminarla del tutto fa più danni di chi chiude un occhio.

    I politicanti ladri non svaligiano casseforti. Esigono bustarelle per concedere favori di vario genere: appalti, aiuto diplomatico per commesse all’estero, esproprii, licenze, ecc. Chi ha buona memoria sa che l’ENI è nato e cresciuto così. Così sono state costruite le autostrade. È meglio non fare il calcolo dei fiumi di denaro che in cinquanta e più anni sono usciti dal metano e dall’asfalto per prendere la strada di Piazza del Gesù e di altre sedi di partito. Se non altro l’ENI esiste, è la più grande azienda italiana e si fa valere all’estero; così come esistono le autostrade, senza le quali l’economia nazionale non sarebbe mai decollata.

    Gli incorruttibili hanno un punto di vista diametralmente opposto. Per loro la politica è una questione morale a priori in senso kantiano, del tutto indipendente dal risultato economico. Il furto va perseguito quia peccatum est. Meglio morire di fame che sporcarsi le mani. Ovviamente, gli incorruttibili sono intransigenti. E siccome sanno che l’occasione fa l’uomo ladro, ritengono cosa buona e giusta far mancare le occasioni, visto che ogni opera pubblica genera appalti e ogni appalto è occasione di intrallazzo.

    Perché costruire nuove centrali elettriche? Se serve più energia di quanta ne produciamo, importiamo quella che manca. E tutto si blocca. Ma, più o meno, le cose continuano a funzionare fino a quando capita un blackout. Solo a questo punto qualche editorialista comincia a domandarsi: valeva la pena di imbalsamare il Paese pur di salvare l’anima? E poi, l’abbiamo salvata davvero? Dura constatazione: anche a minacciare la pena di morte, le bustarelle girano sempre. E la domanda sorge spontanea: all’estero come fanno? Come funziona all’estero l’andazzo degli appalti?

    L’ex presidente Cossiga sostiene che le cose vanno dappertutto come da noi, con la differenza che all’estero su cinque “casi” ne viene a galla uno, in Italia sei o sette (cioè tutti, più qualcuno inventato).

    Avendo lavorato per alcuni anni in un’azienda che si occupava appunto di appalti in giro per il mondo, sono portato a credere che Cossiga abbia ragione. Sarà forse per questo che a proposito di centrali elettriche (e di opere pubbliche in genere) coltivo una scandalosa opinione: se ne avessimo costruite in proporzione al fabbisogno, sicuramente sarebbero girate fior di bustarelle, ma oggi non dovremmo importare elettricità dall’estero pagando miliardi e rischiando continuamente il blackout.

    Lo ammetto: sono un cinico. Non credo che sia possibile estirpare la corruzione e mi accontenterei di circoscriverla in ambiti ristretti, come si fa con la prostituzione e con la malavita. Questa amara ammissione fa di me un ipocrita? Non direi proprio. Ipocrita è chi pretende dagli altri il rispetto di leggi che lui per primo trasgredisce. Il cinico si limita a dire quel che pensa.

    Il cinico, per esempio, si domanda: sarebbe poi uno scandalo se una legge costituzionale sancisse il principio che la moralità in politica va giudicata più dai risultati che dal modo di ottenerli? Cavour ebbe a confessare che, se avesse osato in proprio ciò che aveva fatto per il Regno, sarebbe finito al bagno penale. Sapeva benissimo di aver mentito, imbrogliato, truffato. In compenso fece l’Italia (hai detto niente!). Del resto, cos’è che convince gli elettori a confermare un governo o a cambiarlo? I risultati o la moralità?

    Gli uomini politici sono chiamati a gestire un sistema, e il sistema è quello che è. Chi dice di volerlo cambiare dalla sera alla mattina o è illuso o è in malafede. Certo, i politici non dovrebbero adagiarsi su certi andazzi fino a diventarne complici. Ma dall’ultimo assessore comunale fino ai più alti fastigi del palazzo tutti sono consapevoli di come stanno le cose e sanno pure, al di là delle sparate propagandistiche, che le riforme sono sempre lente e di esito incerto. Del resto, cosa si pretende dalla politica? Nemmeno le rivoluzioni hanno la bacchetta magica (anche se vogliono far credere di averla) e per cambiare da cima a fondo la gestione di uno Stato ci vogliono decennii.

    E allora, già che ho confessato di essere cinico e che ho deciso di essere scandaloso, mi voglio rovinare: forse non è neanche importante che gli uomini politici rubino poco o tanto, purché non lo facciano sfacciatamente. Settimo non rubare, ottavo farla franca.

    Questa sì che è grossa! Eppure è una tesi che non manca di pezze d’appoggio: Richelieu e Mazarino rubarono a mani basse accumulando patrimoni smisurati, ma furono i migliori governanti nella storia di Francia. Cavour, il paladino della libera concorrenza, appaltò la costruzione delle ferrovie piemontesi ad amici e parenti. Enrico Cuccia, deus ex machina della finanza italiana, diceva che in banca si può essere licenziati solo in due casi: se si ruba o se si parla troppo, ma aggiungeva: dei due casi il primo non è il più grave.

    Intendiamoci, non sono così pazzo da sostenere tout court che un governo disonesto sia meglio di uno onesto. Politici capaci e che non rubino sarebbero l’ideale, è ovvio. Ma il guaio è che i politici incorruttibili sono di norma degli incompetenti. Quando vanno al governo fanno disastri e durano poco. E la ragione è quella che diceva Machiavelli: chi vuole fare professione di buono conviene ruini infra tanti che buoni non sono. La natura umana non si cambia. Ci hanno provato con la minaccia dell’inferno, con la tortura, con la ghigliottina, con il gulag, eppure non hanno cavato un ragno dal buco. Sarà pure sgradevole e dirlo sarà magari immorale, ma è la realtà dei fatti. Chi non l’ha ben chiara in testa fa soltanto castelli in aria.  

    Realisticamente, alla politica si possono chiedere poche cose: servizi efficienti, opere pubbliche utili, riforme graduali. Costeranno care. Ma una classe politica incompetente costa molto di più, anche se non ruba.

 

                                              Gli occhi di Caino

 

Recensione di Franz Krauspenhaar apparsa su lapoesiaelospirito il 31 Marzo 2010

 

    Vittorio è un manager milanese spesso in Spagna per lavoro. Ma non solo per questo. La sua passione per la grande nazione iberica si mischia agli affari, così che Salamanca, la città castigliana famosa soprattutto per l’università, diventa la sua seconda patria, o forse addirittura il suo luogo d’approdo dell’anima.

    Nella Spagna e nella tauromachia Vittorio trova quello che l’insipida monotonia di Milano non potrà mai offrirgli. Il cinismo da commendatori, la sveltezza dell’incedere affaccendato dei milanesi, lui lo sa bene, non portano da nessuna parte. Certo, Vittorio è lì, nella città natale, che prende il lavoro; ma poi, per fortuna, si tratta di svolgerlo altrove. E la Spagna si è formata in lui come il luogo della realizzazione. Un mondo pieno di passioni che coinvolgono a tal punto i nativi che anche uno straniero si puo’ fare prendere facilmente da questo morbo vitale, tra il simbolico e il surreale. La plaza de toros è il luogo-non luogo dove tutto puo’ succedere: soprattutto che la morte sia compiuta in un preciso rituale.

    Ecco, la morte, ritualizzata dalle corride, entra in gioco, nel gioco della vita dell’italiano “locale fuori patria”, quando un noto prete di Salamanca, don Agustin viene ucciso. Il protagonista trova il corpo, assieme ad alcuni amici spagnoli. E poi la vicenda, sviluppata in una narrazione parallela tra il 76 e il 96, quando Vittorio torna dopo tutto quel tempo a Salamanca e tutto, o molto, è cambiato, si muove in un modo che, attenendo piuttosto al giallo, è meglio per il lettore di questo pezzo non sapere.

    Basti dire che i personaggi tratteggiati da Ferrazzi sono risplendenti di cruda verità, che il genere giallo qui viene usato per essere scavalcato, un po’ come nel migliore Duerrenmatt, e che il romanzo – di cui forse il titolo è la cosa meno riuscita – racconta principalmente del passaggio del tempo, della ricerca di una patria della vita, dell’anima, della morte alle cinque che avviluppa non solo un rituale, ma anche un modo di vivere, di pensare, di crescere. La Spagna di Ferrazzi è vera e brutale ma anche mitica.

    Come non pensare all’Hemingway sonoro, baluginante e infine immenso di Morte nel pomeriggio? Dal grande romanziere americano Ferrazzi ha preso l’amore per le corride, un certo gusto intenso per le cose della vita, una capacità di orizzontarsi in bilico guidato tra la smagatezza di un’esperienza robusta e la voglia, tutto sommato, di sorprendersi a ogni stoccata del destino.

    In questo equilibrio tra opposti sta il sapore intenso di questo romanzo, che si fa notare soprattutto per la scrittura. Una scrittura dosata e allo stesso tempo mai risicata nello sprizzare in frittura dei sapori, una scrittura che ci riporta a una letteratura classica, così come certi film di oggi – pochi, per sfortuna – ci portano al cinema classico dei grandi registi che hanno fatto la storia dello spettacolo. Gli occhi di Caino si fa leggere con gli occhi di una visione letteraria ma anche cinematografica, e questo non può che essere salutato con entusiasmo. Le emozioni e i demoni dei personaggi sono tratteggiati con cura e sorretti proprio da quella scrittura”classica”, che rimanda a una letteratura passata e vincente, che è garanzia per ogni avveduto lettore che non cerchi avventure librarie low cost.

    Una nuova tappa editoriale di Eumeswil, giovane casa editrice che punta sicuramente alla qualità non solo dei titoli e degli autori, ma anche in quella del manufatto libro, presentato in vesti inattese.

    Apre il tutto una brillante prefazione di Raul Montanari.

 

                                       Il piacere di distruggere

 

    Si dice che quando i Vandali entrarono a Roma, oltre che a saccheggiare si dedicarono a sporcare e guastare. Di fronte allo spettacolo di una città piena di monumenti, statue, terme, teatri, che esprimevano una civiltà mille volte più evoluta della loro, intuirono di non poter mai e poi mai essere all’altezza di Roma e non trovarono di meglio che abbassarla al loro livello. 

    Erano gli antesignani dei writer. Non avevano a disposizione bombolette di vernice e non pretendevano di spacciare per arte la grafica da fumetto, però avevano in comune con i graffitari la pulsione a svilire il decoro, la pulizia e la civiltà. Come tutti i frustrati, non si accorgevano di mettere in piazza la loro impotenza. 

    Purtroppo la libidine del vandalo non si è esaurita con le invasioni barbariche e non si limita al degrado del paesaggio urbano. I writer, tutto sommato, sono soltanto dei ragazzini maleducati. Chi non trova di meglio che imbrattare muri, anche se ha più di vent’anni, è rimasto psicologicamente un bambino. I veri vandali lasciano stare i muri e se la prendono con le persone. In che modo? Calunniando.

    Tizio ha successo? Gli invidiosi sfigati lo bersagliano con i loro escrementi, lo sommergono sotto una valanga di leggende metropolitane, di voci incontrollabili, di maldicenze. Come garantisce don Basilio, la calunnia è un venticello che si propaga, si raddoppia e produce un’esplosione come un colpo di cannone. La tecnica è collaudata, al punto che ha prodotto perfino dei luoghi comuni.

    Tizio è uno scrittore? Se pubblica i suoi libri presso un grosso editore è oggettivamente complice del potere. Se scrive una recensione su un giornalaccio (che paga in contanti e non a chiacchiere), è un traditore, un sicofante, un infame. Lo si intervista per travisare ogni sua frase, per leggerla a rovescio fino a darle significati maliziosi, ambigui, malvagi.

    Oppure. Tizio è un industriale? I suoi affari prosperano? È perché ha venduto l’anima all’Opus Dei (quella del Codice da Vinci), alla massoneria (quella deviata), alla CIA (quella dei Tre giorni del Condor).  

    Oppure. Tizio è un politico? Tira la coca, va a puttane o a travestiti, è un pedofilo, è un assassino, ha baciato in bocca Totò Riina.

    Certo, i criminali esistono. E niente vieta che ci siano criminali fra i politici, gli industriali e perfino (perché no?) fra gli scrittori. Ma i collusi con la malavita, i corruttori e i concussori, non vanno in cerca di visibilità. Di solito chi ha interessi in affari illeciti tiene un basso profilo. E quando viene pescato, le prove saltano fuori. Ma non c’è scrittore, industriale o politico che non abbia i suoi vizi e non frequenti persone discutibili, proprio come un sacco di brava gente più che rispettabile (professori, professionisti, artigiani, operai e impiegati) va a puttane o a travestiti, ogni tanto si fa una canna, o più banalmente ha un’amante (con o senza apostrofo).

    Naturalmente, quando i vizi privati di qualcuno vengono alla luce, la regola dovrebbe essere: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Invece c’è sempre qualche altro peccatore che si illude di lavare le sue colpe facendole pagare agli altri e non resiste all’impulso di dare il via alla lapidazione. Così la vittima va in prima pagina, e alé con la sagra del vandalismo.

    Ma cosa deve pensare chi è fuori dal gioco, chi legge i giornali e – un giorno sì e l’altro pure – li trova pieni di testimonianze e intercettazioni? Come fa a dire: “Questo è vero” e “Questo è farlocco”?

    Io uso due criteri. Non pretendo che siano meglio di altri, ma è quanto di meglio ho trovato finora.

    Il primo: l’accusa è tirare coca, essere omo o bisessuale, avere figli segreti o amicizie discutibili? Se faccio notare che sono affari privati e mi sento rispondere che l’accusato è un pezzo grosso e non si possono affidare responsabilità a uno così, allora comincio a sospettare che ci sia sotto il vandalismo.

    Ricordo un ministro campano incriminato insieme alla moglie con l’accusa di corruzione e voto di scambio (cosa che, incidentalmente, fece cadere un governo e provocò la fine di una legislatura). Ultimamente mi pare di aver letto che l’incriminazione è finita in niente; ma intanto la reputazione dell’ex ministro è compromessa. Anche l’accusatore ha dovuto lasciare il suo posto, però ha beneficiato della notorietà, si è messo in politica e fa il deputato. Insomma: chi ha scatenato la lapidazione aveva uno scopo: far carriera. Ma gli altri? Che scopo avevano gli integerrimi cittadini che al bar, dal barbiere e su internet ne hanno dette di tutti i colori sul conto del ministro (e oggi si guardano bene dal fare ammenda)?

    Il secondo criterio consiste nel domandarsi: a prescindere dall’accusa, che cosa ha combinato nella vita il soggetto preso di mira? Nove volte su dieci la risposta è sconfortante. Se è uno scrittore, avrà scritto un libro di successo. Non necessariamente un capolavoro e nemmeno un best seller: è sufficiente che abbia avuto un po’ di risonanza, lo stretto necessario per diventare oggetto di invidie. Se il bersaglio è un imprenditore, c’è da scommettere che avrà soffiato qualche affare ai concorrenti. Se poi è un politico, avrà fatto qualcosa che gli ha procurato una certa visibilità. Tanto basta per avviare il gioco al massacro.

    Provate ad andare un po’ in là con la memoria: di tutti gli scandali apparsi sui giornali negli ultimi dieci o vent’anni, quanti sono finiti in niente? Quanti hanno riempito le prime pagine, suscitato cori di indignazione, pianti e vesti strappate su internet, per poi concludersi con archiviazioni e senza neanche l’ombra di scuse o di provvedimenti disciplinari?

    È inutile far finta di non vedere: i vandali sono tra noi. C’è chi sul vandalismo ha costruito una carriera, ma sono molti di più quelli che urlano crucifige! per pura e semplice invidia, per il piacere di rovinare chi ha avuto più fortuna di loro. È una cosa molto triste e molto vera. Tirar fuori il mio solito cinismo per commentare “è così che va il mondo e non puoi farci niente” mi è di scarsissima consolazione.

    Non avevo un’alta opinione dell’ex presidente Leone e non sono mai stato un fan di Andreotti. Lelio Luttazzi mi stava simpatico, ma Enzo Tortora non era il mio conduttore preferito e Gigi Sabani non mi divertiva più di tanto. Con tutto ciò, detesto profondamente chi si accanì a screditarli, chi rovinò le loro vite ed ebbe pure il cattivo gusto di vantarsene. Qualcuno è ancora vivo e, anche se si atteggia a guru e pontifica sui giornali o in televisione, si meriterebbe la pena del contrappasso. Ma ancora più colpevoli sono i milioni di sadici incoscienti che, per puro vandalismo, si uniscono al coro. 

 

                                             Il feticcio

 

    Si torna a parlare di riforme costituzionali e solo Dio sa se le chiacchiere approderanno finalmente a qualcosa di concreto. Probabilmente no, ma niente mi impedisce di fantasticare. Per esempio: vorrei tanto suggerire a tutti i parlamentari, di destra, sinistra, centro, sopra e sotto, di abolire l’intera prima parte della attuale costituzione e di sostituirla con un unico articolo che dica testualmente:

    “Il popolo italiano è costituito in Stato repubblicano e democratico.”

    E stop.

    Visto che questo post è un mio sfizio personale e niente più, lasciatemi precisare i motivi di questa mia scelta, che a molti apparirà senz’altro bizzarra o addirittura sacrilega. (Già mi par di sentire le grida scandalizzate: Giù le mani dalla prima parte della costituzione! La prima parte della costituzione è sacra! Guai a chi la tocca! All’armi, all’armi! Eccetera eccetera.)

    Intanto, un’osservazione marginale: mai come in questi casi si sente la mancanza, nella lingua italiana, dell’imperativo futuro. Il latino sarebbe cento volte più preciso: Populus italianus in republica democratica constitutus esto. Sfortunatamente il latino, anche se non è totalmente defunto, è pur sempre una lingua morta. Pazienza.

    Ma, si dirà, perché “è costituito” e non, per esempio, “si costituisce”? Be’, intanto perché il momento costitutivo è già avvenuto in passato. E del resto, anche se la formulazione costituzionale fondasse un nuovo contratto sociale (il che non è), deve comunque chiarire fin dall’articolo uno che il contratto è quello, è già entrato in vigore, e non si discute.

    E allora perché non dire “si è costituito”? Perché sarebbe una dizione da libro di Storia, mentre un dettato costituzionale deve prendere atto del passato in funzione del futuro. (Per questo ci starebbe bene l’imperativo futuro).

    Ma lasciamo perdere le questioni di stile e veniamo al fatto. Perché abolire tutta la prima parte? Perché cambiare il primo articolo?

    Per rispondere a questa domanda devo farne una io.

    Come mai l’attuale costituzione è costretta a dichiarare minutamente e diffusamente che la repubblica riconosce questo e quel principio, tutela il tal diritto, esige il tal dovere, promuove una cosa, ripudia quest’altra, ecc. ecc.?

    Così facendo, finisce per volere cose contraddittorie, costringe il legislatore ordinario a contorcersi per legiferare salvando capra e cavoli, e mette in croce la corte costituzionale (che si trova a dover conciliare un testo vecchio di cinquant’anni con l’evolvere del comune sentire, e a distanza di tempo finisce per emettere sullo stesso tema sentenze diverse). Tanto per fare un esempio, si pensi a cosa dice la costituzione in materia di famiglia (e a come la intendeva: basta leggere il Codice Civile in vigore nel 1948). Ci sono voluti stiracchiamenti di senso, interpretazioni estensive e perfino qualche sofisma per accogliere le riforme (divorzio, aborto, contraccezione, ecc.).

    Ebbene, come mai i “padri costituenti” (espressione bugiarda che li fa immaginare in toga bianca, con volti pensosi ornati da barboni altrettanto candidi, mentre furono dei politicanti ognuno dei quali cercava di tirare l’acqua al suo mulino e che spesso vennero pure alle mani) non immaginarono che una costituzione così zeppa di “sacri principi” avrebbe rischiato di ingessare la vita dello Stato? 

    Io credo che lo abbiano non soltanto immaginato, ma lucidamente previsto. Non pensarono neanche per un attimo di scrivere qualcosa che dovesse durare per l’eternità. Si preoccuparono soprattutto di stilare una dichiarazione di buoni sentimenti per dire agli Americani (cioè agli occupanti) che gli italiani erano brava gente: se gli era capitata sulle spalle una dittatura non era colpa loro (?) e adesso prendevano tutte le precauzioni possibili per evitare di ricascarci.

    E così l’articolo 1 recita “L’Italia è una repubblica democratica…” Una espressione che evita implicitamente di dire in che cosa consista l’Italia (un popolo? un territorio? una storia? una cultura?) e da dove derivi il suo diritto di essere repubblica e democratica. È vero che l’articolo prosegue dichiarando nel secondo comma che “La sovranità appartiene al popolo…”, ma si guarda bene dal chiarire se questa benedetta sovranità il popolo ce l’ha per diritto divino, o se l’è presa con la forza, o l’ha trovata per terra e l’ha raccattata. In altre parole, l’attuale costituzione non dice se lo Stato deriva da un libero contratto fra cittadini uguali oppure da un plebiscito di sapore vagamente hobbesiano.

    La costituzione redatta in modo da piacere agli Alleati resta nel vago sul principio fondamentale. Per questo deve poi scolpire nel marmo che la repubblica ripudia la guerra ma considera sacro dovere del cittadino la difesa della patria, tutela il paesaggio ma promuove l’attività economica, tutela la famiglia ma anche la libertà individuale. Eccetera eccetera. È tutto un “ma anche”. Legislatore e magistrati di ogni ordine e grado si arrangino a districarsi. Lo fanno, lo hanno fatto, cambiando interpretazione più o meno a ogni cambio di generazione. Era logico che avvenisse così. 

    I nobili principi sono cose da prendere con le molle. Possono essere studiati e disposti in modo da sovrapporsi armonicamente, ma col passar del tempo si contraddicono e confliggono. Tutto dipende dalle circostanze e da come evolve la pubblica opinione; e siccome è impossibile prevedere fatti e opinioni con cinquanta e più anni di anticipo, è impossibile prevedere le modalità dei futuri conflitti.

    Quando si scrive una carta fondamentale è meglio lasciare alla legislazione ordinaria il compito di dirimere conflitti imprevedibili. Ma i “padri costituenti” (in larga maggioranza comunisti e cattolici) da un lato non erano favorevoli a una impostazione contrattualista, dall’altro non potevano avallare una riedizione dello stato etico (che avrebbe avuto un inequivocabile sapore fascista). Decisero di ignorare il problema e se la cavarono elencando una sfilza di buoni propositi.

    Solo uno Stato che nasca da un libero contratto fra uguali può permettersi di lasciare alla legge ordinaria il compito di ripudiare, tutelare, promuovere, ecc. ecc. Solo in uno Stato così fatto la sovranità non deriva da un atto di forza e non viene raccattata lungo la strada, ma nasce nel preciso momento in cui il popolo stipula il contratto e ogni singolo cittadino riconosce reciproci diritti e doveri agli altri contraenti. E fondare lo Stato su un contratto significa anche impegnarsi a fronteggiare nello stesso spirito i problemi che sorgeranno in futuro.

    D’altronde, non è affatto vero che uno Stato contrattualista non abbia ideali e valori. Al contrario: un contratto fra uguali comporta di necessità l’ideale dell’uguaglianza di fronte alla legge, della difesa degli interessi comuni, della tutela di tutto ciò che è percepito come tradizione condivisa. In più, presenta il vantaggio di potersi adeguare di volta in volta alle circostanze e al mutare della pubblica opinione senza impiccarsi a una legge fondamentale scolpita nel marmo.

    Mi piacerebbe che l’Italia si desse finalmente una costituzione snella, che si limiti a definire organi e funzioni dello Stato, e che non si trasformi in un totem intoccabile. Ma soprattutto che sia concisa. Che sia una costituzione, e non un libro dei sogni.

 

                                           Pret(re) à porter

 

    Avrebbe senso incapsulare Fabrizio Centofanti e il suo ultimo libro negli schemi di una scuola critica? Che cosa ci rivelerebbero l’analisi della struttura o della forma? Probabilmente finirebbero per portarci fuori strada: le meditazioni contenute in questi testi sfuggono alle definizioni critiche, volano più alto.

    Le prime riflessioni, quelle che aprono il libro, prendono spunto da pagine di vita (spesso tratte dalla cronaca quotidiana di una Italia eccessiva, paradossale e incurante fino alla crudeltà). E la chiave di lettura non è una cifra stilistica, ma un atteggiamento: l’autore si schiera. Entra nella testa e nel cuore delle vittime, legge il mondo con i loro occhi, senza pretese di obbiettività, senza dare spazio alle ragioni degli altri. Ciò che preme all’autore è la voce degli umili, dei perdenti, perché anche le loro ragioni hanno diritto di essere sentite e tenute in conto; e invece restano travolte, soffocate, “perché così va il mondo”. Perché la Storia la scrivono i vincitori.

    Da qui, dalla constatazione della (ingiusta?) casualità della vita, l’analisi si eleva a un livello filosofico. Il capitoletto intitolato “Alla fine di tutto” si sofferma sull’eterna domanda: perché esiste il male? E con una sincerità sconcertante riconosce: non lo so.

    È un momento centrale nello sviluppo del libro. A che serve porre la domanda con malizia per concludere che, se Dio permette un mondo che non ci piace, allora Dio non esiste? Se questa fosse la risposta, se tutto fosse giudicabile con la ragione umana, sarebbe una condanna non per Dio ma per noi. E si tratterebbe di una condanna definitiva, inappellabile, già decisa da prima che venissimo al mondo.

    Invece l’uomo vive, si affanna, progredisce; non soltanto perché usa la ragione, ma anche perché spera. Che motivo avremmo di usare la ragione se non sperassimo in futuro migliore? Ecco il senso del richiamo a Gesù Cristo con cui l’autore chiude la sua riflessione: anche Cristo sulla croce gridò “Signore, perché mi hai abbandonato?”. La natura umana non sopporta l’ingiustizia della morte eppure deve patirla. Quando saremo sulla croce (e ci saremo tutti, che si creda in Dio oppure no) l’unico conforto sarà la speranza: “Nelle tue mani consegno il mio spirito”.  

    È questa la logica in cui si inseriscono, da un lato, le pagine in cui l’autore ricorda don Mario, vittima di un attentato stupido e crudele; dall’altro, i commenti agli episodi della Bibbia in cui si esalta, secondo l’esegesi tradizionale, il favore di Dio per gli ultimogeniti: la speranza è un dono di Dio, il male può farci soffrire ma non vincerà, la ragione mossa dalla speranza sconfiggerà le ingiustizie e migliorerà il mondo.

    Se è vero che lo spirito progredisce a forza di tesi, antitesi e sintesi, Fabrizio Centofanti ha scelto l’antitesi. Non gli interessa discutere, confrontare, mettere sui due piatti della bilancia le ragioni degli umili e quelle dei potenti: ha sposato la causa di chi si oppone, di chi non “si allinea”. Sa che non ci può essere progresso senza conflitto e che le ragioni dei vincitori hanno già fin troppi mezzi a disposizione. Scegliendo di schierarsi con l’antitesi, deve dedicarsi anima e corpo alle ragioni dei perdenti.

    Nella eterna battaglia dell’umanità contro il caos, Platone predicava la vittoria dell’uomo grazie alla ragione. Cristo ci ha dato anche la speranza. Questo libro testimonia come vive questi due insegnamenti, semplici eppure rivoluzionari, un uomo di oggi che ha fatto una scelta radicale, ed è un libro che provoca, aggredisce, costringe a combattere corpo a corpo con le placide certezze nelle quali troppo spesso finiamo per adagiarci.

 

Fabrizio Centofanti – Prêt(re) à porter – Effatà Editrice   pagg.160   €12,00

 

                                Alti e bassi alla Scala

 

    Nella prima didascalia dell’Oro del Reno Richard Wagner scrive esplicitamente che la scena deve essere allestita in modo da raffigurare il fondo del Reno con le acque mosse dalla corrente che scorre da destra verso sinistra.  

    Non è una notazione banale o pedante: la saga che dà origine all’intera Tetralogia narra fatti della storia dei Burgundi, in parte accaduti, in parte mitizzati. I Burgundi furono un popolo di stirpe gotica che nel V secolo era stanziato nella zona di Worms, Spira e Magonza, cioè sulla sponda sinistra del Reno. Vista da lì, la corrente del fiume scorre da destra verso sinistra. Tanto per dare un’idea dello scrupolo con cui un autore serio confeziona le sue opere.

    Il minimo che si richieda a un regista che mette le mani nell’opera di un grande autore è approfondire testo, musica, didascalie e contesto storico-sociale per tirarne fuori una rappresentazione coerente. Siccome, in genere, a questo ha già provveduto l’autore, un regista dotato di un minimo di cultura non dovrebbe incontrare difficoltà a mettere in scena l’opera così come l’autore l’ha pensata e scritta, pur conferendo alla messa in scena la sua impronta personale.

    Purtroppo da almeno una cinquantina d’anni i registi sono in preda alla smania di stravolgere i testi. È una sciagura senza rimedio, ma sarebbe più sopportabile se almeno mostrassero di conoscere ciò che stravolgono e dessero un senso logico ai loro stravolgimenti. Macché: anche il mestiere del regista è ormai arrivato agli estremi intellettualistici delle arti figurative e per capire cosa diavolo vorrebbe significare una certa messa in scena bisogna affidarsi alle agiografie dei critici, i quali (si spera) hanno avuto il privilegio di recepire interpretazioni autentiche e verità rivelate dalla viva voce del regista di turno. 

    In questa temperie culturale, la Scala ha affidato la messa in scena dell’Oro del Reno a un certo Guy Cassiers e ai suoi accoliti. Stando alle note di presentazione stampate sul programma, costoro hanno esperienza soltanto di qualche opera contemporanea (di quelle che si rappresentano una volta e spariscono subito dal cartellone) dove ogni stramberia è concessa. Non hanno mai messo in scena un Don Giovanni, una Traviata, un Barbiere di Siviglia. E si vede.  

    Il risultato è quello che ogni persona di buon senso avrebbe potuto prevedere. Regista, scenografo e costumista hanno fatto a gara nel deprimere la più scenografica opera wagneriana, riducendo il palcoscenico a un manicomio nel quale gente nuda o vestita nei modi più improbabili si aggirava senza scopo proiettando ombre su fondali privi di senso. A simboleggiare il Reno c’era una vasca di acqua stagnante e probabilmente fetida. Niente Walhalla all’orizzonte: Wotan e i giganti ne parlavano indicando il nulla. Niente vapori sulfurei, caverne dei Nibelunghi, draghi e rospi, temporali e arcobaleni: perché mai l’autore avrà perso tempo con queste cose, l’emerito Cassiers non prova neanche a domandarselo.

    Wagner si affanna a spiegare nel testo e nelle didascalie che, in assenza di Freia e delle sue mele d’oro, gli dèi perdono il loro splendore. Loge, il tenore, si sgola a cantare che la luce si spegne, che i volti degli dèi ingrigiscono. Ma il regista se ne frega: le luci si abbassano in modo impercettibile; niente ombre minacciose; niente di niente. Lo spettatore, oltre a pagare (salato) il biglietto, deve anche immaginarsi la scenografia. Deve intuire, per esempio, che certi pannelli al neon vorrebbero rappresentare il tesoro di Alberich (e, giuro, non è stato facile: sul momento mi sono rifiutato di credere a una simile idiozia).

    È tutto? No, ahimé. Qualcuno potrebbe illudersi che la regia sia stato l’unico tormento inflitto al pubblico. E invece Barenboim, che pure ha diretto con un po’ meno della sua consueta tendenza a livellare la musica in una noiosissima pappa, non ha mancato di fare il possibile per dissuadermi dal tornare l’anno prossimo per la Valchiria. Spiace dirlo, ma nessuno dimostra meglio di lui che l’intellettualismo rovina tutto, anche i capolavori. Possibile che l’affanno di distinguersi da Karajan, Sawallisch, Solti e molti altri, impedisca di imparare da loro? Esistono decine di registrazioni, da Furtwaengler ai giorni nostri, in cd e in vinile. Mi rifiuto di credere che Barenboim non le abbia ascoltate. Davvero non ci ha trovato niente da imparare? 

    La maledizione della musica contemporanea è che gente nata per fare il critico o il musicologo pretende di fare l’artista. Ed ecco cosa ci tocca ascoltare: le direzioni alla Barenboim sono il prodotto di sofisticatissime seghe mentali il cui effetto complessivo è un brodo lungo, di quelli che si possono ascoltare nei teatri di provincia dove le orchestre non hanno colore, suono e personalità. È questo che si merita l’orchestra della Scala? Certo, le orchestre italiane non hanno una tradizione wagneriana, ma la Scala ha avuto un Lohengrin con Abbado e con Muti un Parsifal e l’intera Tetralogia.

    In mezzo a tanti motivi di rammarico – grazie al Cielo! – la compagnia di canto è stata davvero superba. Wotan e Alberich hanno sfoderato voci piene, profonde, e interpretazioni azzeccate. Loge ha brillato per coerenza nel ruolo. Fasolt è stato bravissimo. Erda ha incantato tutti. Cantanti come questi avrebbero meritato ben altro direttore e tutt’altra messa in scena.

    Ma, con i tempi che corrono, bisogna sapersi accontentare.

 

 

                   Saviano sì, Saviano no: la terra dei cachi.

 

    Vorrei svolgere una metafora su una abitudine pericolosa: quella di rinchiudersi nei propri blog, nelle proprie riviste, nei propri “giri” ristretti, come se fuori da quelle torri d’avorio non ci fosse il mondo ma solo una massa di imbecilli, ignoranti e venduti. All’interno di quei fortini, sedicenti isole di intelligenza in partibus infidelium, non si monta la guardia sugli spalti (perché il nemico se ne frega di un fortino che non gli dà fastidio): si passa il tempo a gareggiare in “purezza” (per quanto tu sia puro, c’è sempre qualcuno più puro che ti epura), ci si divide tra “palude” e “montagna” come ai tempi del Terrore giacobino. Ci si dedica, insomma, all’antropofagia. Il bersaglio di questi giorni è Saviano, ma domani sarà qualcun altro e dopodomani qualcun altro ancora.

   Come metafora ho scelto la questione delle lingue e dei dialetti. Anche se la linguistica non vi affascina, seguitemi, vi prego, e non perdete di vista “il velen dell’argomento”. Come si formano i dialetti? Perché resistono agli assalti del tempo? Come mai non confluiscono nella lingua?

    Ogni grammatica di greco antico avverte che, nell’area di influenza culturale ellenica, esistevano almeno cinque famiglie di dialetti e quello che per convenzione si studia a scuola è l’idioma parlato ad Atene più o meno ai tempi della guerra del Peloponneso. Non altrettanto succede con il latino, che cambia sì dai tempi di Nevio a quelli di Rutilio Namaziano, ma non distingue un dialetto romano, uno cordovese o uno delfico (rintracciare nella letteratura latina influenze dialettali africane o spagnole è roba da sommelier alla ricerca del retrogusto di fiore d’acacia). Ebbene, come mai il greco era tutto dialettale e il latino no? La risposta dipende dalla mentalità dei due popoli.

    I greci non concepivano che la polis. Atene poteva fondare colonie o tentare guerre di conquista, ma le imprese di ammiragli e generali erano importanti, più che per se stesse, per come si ripercuotevano nelle chiacchiere dell’agorà e nelle deliberazioni della bulé. L’unica cosa che contava, insomma, era la vita cittadina: ogni polis viveva ermeticamente chiusa alle influenze esterne, sviluppava il suo dialetto e ci si affezionava come a un simbolo di indipendenza.

    I romani invece concepivano l’impero come un’industria: ogni provincia parli pure la sua lingua o il suo dialetto, purché paghi i tributi. Di conseguenza, tutto ciò che contava ai fini pratici doveva esser detto e scritto in latino se si voleva che fosse compreso a Roma. In tutto l’impero si parlavano diosaquante lingue, ma a noi è arrivato quasi solo il latino perché le altre non erano scritte e non avevano circolazione. Il poeta del villaggio di Astérix non ha alcun interesse a scrivere nella lingua dei Galli Parisii e, se lo fa, i suoi poemi vanno perduti. Probabilmente il latino era poco parlato fuori di Roma, e di questo esistono testimonianze indirette (per esempio: quando i Cimbri e i Teutoni invasero la Provenza si scoprì che si intendevano con i Liguri perché parlavano dialetti alto-tedeschi abbastanza simili); però se un mercante di Londra voleva comperare grano da uno di Cartagine doveva scrivergli in latino. Le lettere rimangono, le chiacchiere no.                                     

    Dunque, il destino di chi si rinchiude fra le mura di un fortino è rischioso, e il rischio è la morte per consunzione. La Storia è piena di esempi: chi perde lo spirito di conquista sfoga la sua residua aggressività contro se stesso. Il greco resta una lingua parlata perché i Romani lo assunsero come lingua ufficiale dell’Impero d’Oriente (altrimenti avrebbe fatto la fine della lingua ittita). Il latino invece è importante per sé, perché ha trasfuso la sua struttura logica nel diritto, nella storia e nella politica. Il greco era una lingua piena di sfumature e di espressività, ma chiusa nel suo presente e in una dimensione provinciale. Il latino puntava a includere, aperto a una dimensione mondiale e al futuro. Il risultato fu che l’egemonia di Atene, Sparta, Tebe e Macedonia messe insieme, durò due secoli scarsi, mentre l’egemonia romana durò il triplo e si perpetuò culturalmente fino ai giorni nostri.

    Rinchiudersi nei fortini non ha senso se non per attendere rinforzi; e mentre si aspetta bisogna organizzare sortite efficaci (militari o culturali). Ma se ci si abbandona al vizio di sbranarsi in nome di chissà quale purezza, tutte le forze si concentrano nel bellum intestinum e a far sortite in campo avversario non si pensa più. Quello è il principio della fine. 

 

                                               Zang tumb tumb   

 

    Marzo. Un martedì di sole, un anticipo di primavera. Sull’autostrada c’era poco traffico. Invece a Como era un disastro: deviazioni, semafori interminabili, code irritanti. Davanti al capolavoro di Terragni, l’ex Casa del Fascio oggi sede della Guardia di Finanza (un gioiello che sta su tutti i libri di storia dell’arte insieme ai grattacieli di Mies van der Rohe), ho dovuto contentarmi di un’occhiata: non c’era neanche un buco dove lasciare la macchina per scendere a guardare con calma. 

    Ho proseguito sulla strada costiera. Lago a sinistra; palme, pini e camelie a destra. Rari fiori appena sbocciati nelle aiuole dei villini liberty. Sulla riva opposta il sole metteva in risalto le magioni monumentali di villa Olmo e villa d’Este con due o tre secoli di Storia imbalsamati nei loro frontoni neoclassici o rococò. Poco più avanti si vedeva Laglio, assurta agli onori delle cronache per via di George Clooney. Questo è il mondo: un miscuglio di oves et boves.

    Mi è venuto in mente che, agli inizi del V secolo, un generale vandalo al servizio dell’impero romano si trovò a fronteggiare l’arrivo di un’orda visigota. Stilicone saltò a cavallo a Ravenna, corse fino a Como e qui si imbarcò, risalì il lago fino a Chiavenna, passò le Alpi, richiamò le legioni di stanza nella Rezia e le condusse in Italia a marce forzate. Raggiunse i visigoti quando erano già a Firenze e li fece a pezzi.

    Anche l’esercito del Barbarossa passò lungo la sponda occidentale del lago quando Milano rialzò la testa e i comuni lombardi giurarono a Pontida. Nessuno ebbe la forza di chiudere le porte in faccia all’imperatore e ad Alberto da Giussano non rimase che annunciare: “Como è coi forti e abbandonò la lega”.

    E infine ho ricordato che sulle rive di questo stesso lago, fra Dongo e Giulino di Mezzegra, si è compiuto l’ultimo atto, cruento e in parte ancora misterioso, della seconda guerra mondiale.

                                                          ***

    Pensavo a queste cose mentre guidavo lungo la strada stretta e tortuosa, fra villule pastrufaziane (come le avrebbe chiamate Carlo Emilio Gadda) e riferimenti storici disparati. Mi domandavo se è mai possibile che lo spirito della Storia vada soggetto a qualcosa di simile alla coazione a ripetere.

    Come mai la Storia passa spesso in certi luoghi e mai in certi altri? Certo, un po’ è anche colpa della geografia: ponti, valichi di montagna, vie di comunicazione, sono tutti colli di bottiglia attraverso i quali è giocoforza passare. Ma una via è un percorso che va da un luogo a un altro: non dovrebbe conservare un interesse strategico solo finché i punti di partenza o d’arrivo mantengono la loro importanza? Sì e no. Ci sono luoghi che continuano a fungere da baricentro anche in piena decadenza: Roma, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto. La geografia e l’economia hanno il loro peso, ma l’importanza dei luoghi la fanno gli uomini, le tradizioni, la Storia.  

    I miei pensieri oziosi erano più o meno a questo punto quando sono arrivato a Bellagio e mi sono incamminato verso l’imbarcadero con l’idea di voltare le spalle al lago per dare uno sguardo panoramico al paese. E appena l’ho fatto mi è caduto l’occhio su una lapide: Filippo Tommaso Marinetti, definito sbrigativamente “poeta futurista”, è morto qui a Bellagio nei primi giorni del dicembre 1944.

    Toh. Non lo sapevo. Un altro pezzo di Storia venuto a parare sul lago di Como.

    Di colpo intorno a me il paesaggio si è offuscato: la primavera incipiente ha lasciato il posto a un inverno di guerra, una guerra perduta, con il coprifuoco e l’oscuramento, i passi della GNR sui marciapiedi vuoti, le staffette tedesche nelle moto col sidecar, l’orzo tostato invece del caffè, il razionamento del pane, del latte, della carne, di tutto. La borsa nera. Il Corriere della Sera fatto di un unico foglio. La sirena che annunciava le incursioni aeree e ingiungeva di scendere nel rifugio. Radio Londra ascoltata di nascosto.

    Rientrato dalla campagna di Russia (a sessantasei anni!), Filippo Tommaso Marinetti era sfollato a Bellagio ricalcando in modo più o meno consapevole le orme di d’Annunzio, altro poeta-soldato che aveva chiuso i suoi giorni sulle rive di un lago, e più fortunato di lui non solo per i successi mietuti in vita ma anche per il tempismo con cui era morto. Il “Vate” aveva chiuso gli occhi convinto di aver avviato l’Italia ai suoi “immancabili destini”, senza immaginare lo sfacelo al quale le sciagurate teorie superomiste avrebbero condotto nel giro di pochi anni.

    Marinetti non fu altrettanto favorito dalla sorte e gli toccò di veder andare a catafascio tutto ciò in cui aveva creduto. “Guerra, sola igiene del mondo!” aveva tuonato fin dal 1911, quando l’Italietta di Giolitti aveva allungato le mani sulla Libia e sul Dodecanneso. Pochi anni dopo, insieme a d’Annunzio, aveva contribuito a gettare l’Italia nella fornace della Grande Guerra. Sulla spinta di “Zang tumb tumb” e di “La fiamma è bella!” l’Italia liberò Trento e Trieste al prezzo di seicentomila morti e diosaquanti mutilati.

    Ebbene, non bastava. D’Annunzio volle Fiume. Poi fu la volta dell’Etiopia e Marinetti si arruolò per la “vittoria affricana” (con due effe). Infine scoppiò il secondo conflitto mondiale e la coerenza condannò il tonitruante Marinetti a gridare “Guerra!” anche in età di pensionamento, sfidando il ridicolo, e lo incatenò a una causa persa.

    Mi è venuto in mente tutto questo in un lampo, mentre stavo lì, con le spalle al lago, contemplando un paese che i piani regolatori hanno congelato nel suo look fin de siècle (quell’altro siècle: l’Ottocento). E mi è sembrato di vedere il vecchio rompiscatole quasi settantenne, che usciva dall’hotel con gli occhi bassi, nell’inverno del ’44, mentre il suo mondo crollava e il lago era grigio, percorso da un vento gelato. Il pastrano di fibra Viscosa pesava una tonnellata e non teneva caldo. A metter piede nella pasticceria sotto i portici, anche solo per bere un orzo, c’era da sentirsi addosso gli occhi di tutto il paese, c’era quasi da sentirne la voce che gli bisbigliava all’orecchio: “Quanti morti hai sulla coscienza, Marinetti? Quanti ragazzi hai mandato al macello con le tue fantasie velleitarie, con il tuo attivismo malato, con le tue provocazioni infantili? Guardati attorno: tutti quanti stiamo pagando per la tua follia”.

    L’infarto arrivò pochi mesi prima del collasso della RSI, e gli risparmiò il plotone di esecuzione o forse il linciaggio.

    Sono rimasto a guardare la lapide con in testa la mia domanda senza risposta: cos’ha di speciale il lago di Como? Perché la Storia passa di preferenza in certi luoghi e non in altri? Poi, all’improvviso, mi è venuto in mente che le domande, come le medaglie, hanno un rovescio. E mi sono chiesto: quale sarà mai il senso delle vite come la mia, vissute in tempi e luoghi pressocché tagliati fuori dalla Storia? Non rispondetemi che non ha senso cercare un senso dove il senso non c’è. Se fosse così, se fossimo al mondo per puro caso, avremmo il dovere di essere noi a dare un senso alla vita. Ma da noi dipende soltanto la buona volontà; tutto il resto, ed è il 99%, dipende dalle circostanze. Ebbene: per dirsi soddisfatti, per andare all’altro mondo convinti di aver speso bene i propri anni, sarà sufficiente non aver fatto troppi guasti?

    Quando mi vengono in mente queste cose non posso fare a meno di pensare che la parabola dei talenti andrebbe integrata con il caso di un servo che, tentando di trafficare i talenti, li perde tutti senza rimedio. Cosa sarà di lui? Il padrone lo farà gettare dove è pianto e stridor di denti oppure sarà così magnanimo da perdonarlo perché, quantomeno, ci ha provato?

                                          

 

                                               Voglio essere intercettato!

 

    Partendo dal principio che le persone oneste non hanno niente da temere, qualcuno ha costituito il comitato “Voglio essere intercettato!”.

    Una volta ho scritto anch’io che, in uno Stato dove c’è la mafia, correre il rischio di essere intercettati lo considero una doverosa prestazione sociale come pagare le tasse e assolvere il servizio militare (che ormai non c’è più, ma io l’ho fatto).

    Quanto al testo della legge approvata in Senato, ancora da discutere alla Camera, non ho perso tempo a leggerne il testo, anche perché ha già subito parecchie variazioni e altre ne subirà (ammesso e non concesso che alla fine venga approvata). Confesso di non aver letto neanche il testo della proposta di legge che, anni fa, era stata avanzata dalla attuale opposizione. Per conto mio, se telefonando a qualcuno che conosci per normali e plausibili ragioni vieni intercettato (perché lui è sotto indagine) e magari ti tocca spiegare ai magistrati che cosa intendevi quando hai detto una certa frase, è un fastidio, una grana, addirittura un rischio (perché un magistrato non è Dio e può sbagliare eccome). Però immagino che sia sempre meglio avere a che fare con un magistrato che con un mafioso.

    Se in Italia non ci fosse la mafia, sarei scandalizzato dalla quantità di intercettazioni che si fanno (più che negli USA, a quanto pare; e negli USA la mafia c’è, eccome). Ma finché la criminalità organizzata sarà un problema (e finché lo Stato catturerà i mafiosi e li metterà dentro) limitare la possibilità degli inquirenti di intercettare le telefonate non mi sembra una buona idea.

                                                              ***

    Quello che invece non posso sopportare è che una telefonata fra un sospettato e il cittadino Mario Rossi, magari inframmezzata da pettegolezzi e storie di figa, finisca dritta sparata sui giornali (dove non è neanche possibile riprodurre l’intonazione con cui vengono dette certe frasi).

    Il pubblico ha il diritto di essere informato? Fino a un certo punto. Certo non ha il diritto di conoscere i fatti privati di Mario Rossi, intercettato senza che un magistrato abbia emesso uno specifico mandato a suo carico.

    I giornali hanno il dovere di informare? Di alcune cose sì, di altre sicuramente no. Di tutto ciò che pubblica Novella2000 non esiste alcun dovere di informare. Anzi: di molte cose ci sarebbe il dovere morale di tacere. Quando una notizia viene pubblicata al solo scopo di solleticare i bassi istinti del pubblico pur di vendere copie, di quale dovere di informare stiamo parlando? Ognuno la pensa come gli pare, siamo d’accordo; ma proprio per questo anch’io ho diritto di pensarla come pare a me, e a me pare che i maggiori organi di informazione ultimamente si comportino come Novella2000.

    Insomma: non so se questo progetto di legge arriverà a essere promulgato (ne dubito assai). Ma prima o poi una qualche legge bisognerà pure farla. Ormai le intercettazioni telefoniche sono diventate ricostituenti per la tiratura dei giornali, argomenti di gossip più che strumenti di indagine. Non è una cosa seria.

    Se Tizio è sospettato di intrallazzi ci penserà la magistratura a incriminarlo e a giudicarlo. Non c’è alcun bisogno che le sue telefonate finiscano in prima pagina. E se è così, come mai le intercettazioni filtrano dalle procure come da un colabrodo? L’unico motivo immaginabile, oltre a far vendere i giornali, è far sì che l’indagato arrivi in tribunale già condannato da un’opinione pubblica assordata da una sola campana. Ma allora perché stiamo a celebrare processi, addirittura in tre gradi di giudizio? Nominiamo tribunale il popolo e drizziamo la ghigliottina in piazza. Si fa prima.

    Per colmo di ingiustizia, se Tizio è un pezzo grosso ci sarà sempre qualcuno che lo difenderà gridando alla manovra; ma se Tizio è un privato qualsiasi (magari uno di quelli che in buona fede aderiscono al comitato “Voglio essere intercettato!”) chi lo salverà dallo sputtanamento? Che fine farà la sua credibilità con amici e parenti, quale banca gli farà un mutuo, chi si fiderà di lui dopo anni di sospetti, incriminazioni, processi e una assoluzione che arriva sempre tardi, magari con formula dubitativa?

    E la libertà di stampa? Be’, vorrei spenderci soltanto due parole. In un Paese civile non esiste diritto che non sia soggetto a regole. Per tutelare un diritto, la legge non ha altro modo che definirlo, cioè mettergli dei limiti. Se i giornalisti fossero stati capaci di darsi un codice e rispettarlo, non ci sarebbe stato bisogno di una legge. Non l’hanno fatto, e questo è il risultato.

 

                                         Lippi…s et tonsoribus                          

 

    Dunque, le abbiamo prese. Evabbe’. C’era forse qualcuno che si illudeva di rivincere il mondiale con Montolivo e Iaquinta? Ma neanche con Cassano e Balotelli. (Figuriamoci: nel giro di una settimana sarebbero venuti a galla tanti di quegli scazzi che, in confronto, Anelka e Domenech sarebbero parsi dei sofisticati gentlemen).

 

    La verità è un’altra. Il calcio che da almeno vent’anni ci è stato imposto da allenatori e giornalisti è una porcheria fatta di passaggi indietro (per “allungare” gli avversari, si dice), di “squadre corte”, di gente che corre all’impazzata per novanta minuti senza combinare un accidente. Il risultato è che i nostri giocatori non sanno più dribblare e si sentono morire dentro quando si tratta di “andare all’uno contro uno”. Che problema, andare all’uno contro uno! Che rischio mortale! Guai a commettere una stupidaggine simile! Piuttosto, gira la barra di 180° e passa indietro, magari anche al portiere.

    E voi vorreste andare a vincere il campionato del mondo con questa filosofia?

Lo proclamo lippis et tonsoribus: dirigenti del calcio nazionale incollatevi al televisore, studiatevi il Brasile, pretendete il bel gioco. Potete anche perdere, ma non fateci incazzare.

 

                   Su “Libero” una recensione a “Gli occhi di Caino”

 

    Sono due omicidi non risolti a spingere Vittorio Fabbri a lasciare Milano per tornare dopo vent’anni a Salamanca, la città dove ha abbandonato le cose importanti della sua vita: l’amore, l’amicizia, la gioventù e le grandi ambizioni per il futuro. Tutto pur di trovare la risposta a una sola domanda: le uniche persone che sono state importanti per lui in realtà sono degli assassini?

    È questo il dilemma al centro di Gli occhi di Caino (Eumeswil, pp 172, euro 13) di Riccardo Ferrazzi. Il romanzo, ambientato a cavallo fra 1976 e il 1996, parte come un classico giallo, ma presto si trasforma nella storia di un uomo vicino alla mezza età che ha perso le sue illusioni. E che, dopo due decenni, affronta il passato nel tentativo di risolvere i dubbi che lo tormentano. Il suo è un viaggio a ritroso in cerca dei fantasmi dei compagni di un tempo: Miguel Angel, figlio di una famiglia influente con il solo sogno di fare il torero; Mayte, la donna amata da entrambi; Javier, Fernando e Lola. Un gruppo apparentemente indissolubile fino a quando, una sera, tornando dalla discoteca, Vittorio scopre il cadavere di don Agustin, giovane prete famoso per i suoi sermoni. Il suo corpo è abbandonato sulla strada davanti alla cattedrale, colpito con una banderilla, e l’assassino ha lasciato una maschera da toro sul luogo del delitto.

    Inizia così il girotondo dei sospetti: che cosa nasconde chi gli sta attorno? Perché tutti sembrano sapere qualcosa che a lui sfugge? Che rapporto può esserci fra degli universitari disinibiti e un austero religioso? All’improvviso il protagonista non sa più di chi fidarsi, mentre la polizia gli suggerisce di sparire per sempre.  

    Quando Miguel Angel, il capro espiatorio, muore durante la sua prima corrida, Vittorio segue il consiglio. Ma vent’anni dopo capisce che è arrivato il momento di scoprire la verità e camminare di nuovo per le strade di Salamanca, una città ricca di intrighi dove sono ancora vive antiche tradizioni e la legge sembra non esistere. E dove qualcuno ha deciso di non dimenticare e di coltivare l’odio e la vendetta. Sullo sfondo, un mondo che parla soltanto per allusioni, popolato di personaggi incapaci di abbandonare il passato.

    Mentre Vittorio, costretto ad accettare che non esiste risposta alle domande importanti, deve rassegnarsi a convivere con i suoi dubbi perché “Chi è solo deve mortificare se stesso” aveva detto Miguel Angel, “ma chi fa parte di un branco può aizzarlo a sacrificare una vittima”. Ecco la verità. Tutti hanno ucciso. Tutti hanno avuto un ruolo. È stato un omicidio collettivo. Salamanca ha immolato don Agustin perché ognuno trovasse nuove ragioni per vivere.

 

                                                                                     Emanuela Meucci

 

 

PRO/VOCAZIONIwww.lapoesiaelospirito.wordpress.com

 

 

Sei uno scrittore. Chi te lo fa fare?

 

Omammamia! Mi tocca raccontarti la storia della mia vita! Fino a quarantacinque anni ho fatto il bravo ragazzo che lavorava e si ulcerava le pareti dello stomaco per la carriera; poi è successo qualcosa (tu sai che cosa) e, guardandomi allo specchio, mi sono detto: ma sai che della carriera non me ne frega un accidente? Ed è stato poco piacevole rendersi conto di aver passato la parte migliore della vita a rincorrere un falso scopo.

Beh, cosa puoi fare quando senti sotto i piedi la botola che si apre? Frughi nel passato per cercare di aggrapparti a una passione sincera colpevolmente messa da parte. E così ho fatto. Sono andato in cerca delle cose che avevo, un po’ troppo frettolosamente, mandato in soffitta. Appena ho aperto la porta del solaio mi è venuta incontro la scrittura.

Oggi per me non c’è niente di più gratificante che imbattermi in uno spunto, lasciare che mi intrida fino a cambiare la percezione della vita, e lavorarci sopra fino a sviluppare una storia. Mi piace, mi fa sentire vivo, mi dà (immagino) lo stesso piacere che provavano gli scultori di una volta (quelli che lavoravano il marmo con martello e scalpello), in tutte le fasi della lavorazione, dall’invenzione fino al limae labor et mora.

Produco relativamente poco proprio perché continuo a lavorare sui miei testi per anni, e probabilmente non lo faccio perché ne abbiano bisogno, ma perché mi piace, perché in quel momento non ho altri spunti, o perché mi sento in the mood per la revisione piuttosto che per la creazione.

 

 

Amori e odi letterari. Per favore alla voce odi non citare solo gente defunta.

 

Per me è difficilissimo evitare i defunti. Il primo di tutti i miei amori è Eschilo. Il secondo è Dante. Il terzo è Shakespeare. Capisci bene che, prima di arrivare ai giorni nostri, la strada è lunga. Se vuoi qualcosa di più vicino a noi, ti cito Hemingway. Proprio in questi giorni ho riletto “Fiesta!” e ho preso nota di quanto Hemingway ha ricavato dall”Ulisse” di Joyce, nel bene e nel male.

Se vuoi dei nomi di italiani, ti cito Piero Chiara e Giuseppe Pontiggia. Magari ti meraviglierai perché non cito Gadda. Il fatto è che credo nella cosiddetta “ricerca sul linguaggio” solo quando è ricerca della forma per raccontare qualcosa di vero; quando è fine a se stessa diventa stucchevole. In questo senso “La cognizione del dolore” è un grande libro, mentre nel “Pasticciaccio” e negli altri scritti gaddiani non riesco a togliermi il sospetto che la voglia di parodiare d’Annunzio abbia prevalso su tutto.

Il capitolo odii in realtà è vuoto: odiare è una perdita di tempo. Semmai posso indicare scrittori che considero sopravvalutati. Secondo me McCarthy (anche se è molto discontinuo) vale tre volte più di Roth e Pynchon vale almeno il doppio di De Lillo. In Italia non saprei: forse sono io che vivo fuori dal mondo ma non riesco ad appassionarmi alle tematiche correnti. A esser sincero, non capisco neanche quali siano, a parte la solita, eterna, autoreferenziale “ricerca sul linguaggio”. Per esempio, sono stufo di Camilleri, delle sue macchiette nivure e nirbuse che si scantano, si susono e dicono nonsi. 

 

 

Quanto pensi di valere? Per favore rispondi non in scala da 1 a 10 ma con un discorso articolato.

 

Giuro: non ne ho la più pallida idea.

Fammi prendere il discorso alla larga. Io mi sono fatto l’idea che la forma-romanzo abbia perso la sua modalità originaria di tragedia borghese e mantenga un senso solo come introduzione a un mistero. Se questo è vero, le residue modalità disponibili sono soltanto il giallo (con la sua variante noir) e il viaggio iniziatico/bildungsroman. Ma anche i gialli e i romanzi di formazione dovrebbero dire qualcosa di più che “il colpevole è il maggiordomo” oppure “il protagonista, fattosi uomo, sposò la figlia del visconte di LaPatonne”. Di romanzi così abbiamo fatto indigestione. Io cerco di forzare la gabbia del giallo e della bildung per portare alla luce temi più profondi: la morte, il senso della vita, i limiti della verità.

Dunque, quanto penso di valere? Non lo so. Dipende. Il mio programma è valido? L’ho svolto in modo da renderlo interessante anche per i lettori? Se sì, allora valgo molto. Se no, no. 

 

 

Cosa pensi dell’amore? (Rispondi a parole tue)

 

A quindici anni è un mistero appassionante. A trenta è bulimia sessuale. A quarantacinque è fretta di ricuperare tutto ciò che si crede di aver trascurato. A sessanta è rimpianto, rassegnazione, voglia di tenerezza. A settantacinque non lo so: fammici arrivare, poi te lo dico.

 

 

 

Pensi che Dio, che tu ci creda o no, è ancora “materiale letterario”?

 

Che uno ci creda o no, Dio è l’unico “materiale letterario” che val la pena di maneggiare.  Saramago, per esempio, a Dio non ci credeva, ma non ha mai smesso di farsi domande e di scriverne. Lo ha fatto con certe intenzioni? Non importa: buon pro gli faccia.

In realtà tutti quanti, atei e credenti, scrivono per cercare una risposta alle domande: “Che senso ha la vita?”, “Perché le cose stanno così?”. Dio non è l’unica risposta possibile e non è neppure definitiva, non taglia la testa al toro, lascia aperta una quantità di domande. Ma il guaio è che le altre risposte non sono messe meglio.

E se non ci occupiamo del senso della vita, del perché non possiamo cambiare le cose come stanno, di cosa vogliamo occuparci? Del campionato di calcio? 

 

 

Sei invidioso?

 

Non pretendo di essere imperturbabile. Davanti a certi battages pubblicitari resto perplesso. Davanti alle vendite di certi libri devo fare uno sforzo per ricordare che si tratta di segmenti di mercato tutti particolari.

Però in genere non me la prendo per i successi altrui. Anche se uno/a va a letto con l’editor e così pubblica, ottiene recensioni, visibilità, premi, e grazie a tutto questo magari vende anche, beh, che ci vuoi fare? Mica toglie spazio a nessuno. Mi sbaglierò, ma secondo me in Italia c’è spazio per una ventina di successi editoriali all’anno, intendendo per successo editoriale non il best seller ma il libro che vende bene, diciamo 100.000 copie.

A me non interessa andare a pavoneggiarmi in tv o vincere il premio vattelapesca. Mi interessano le recensioni intelligenti, scritte da chi ha letto il libro. Insomma: se il mio libro è buono, se chi lo pubblica ci crede, se l’ufficio stampa fa il suo lavoro, avrò comunque quel che merito, poco o tanto che sia; e se nel frattempo qualcun altro avrà venduto un milione di copie, avrà vinto il premio Pincopalla e si sarà fidanzato con Elisabetta Canalis, saremo contenti tutti e due.

 

 

Preferisci una notte d’amore stupenda con il partner ideale o una maxirecensione di D’Orrico?

 

La risposta corretta sarebbe, ovviamente, la notte d’amore. Ma, anche se il Viagra può fare qualcosa, dubito che possa ridarmi l’efficienza di trent’anni fa. Per la povera partner la “stupenda notte d’amore” rischia di essere un supplizio!

Tutto sommato, preferisco adeguare le mie speranze ai miei mezzi. Anche senza pastiglie c’è stata qualche gentile signora che mi ha onorato dei suoi sentimenti e anche senza recensioni c’è stato qualcuno a cui sono piaciuti i miei scritti. Mi basta. 

 

 

Cosa pensi del Nobel della Letteratura a Bob Dylan? Sei favorevole o contrario?

 

A Bob Dylan? E perché non a Mogol?

Personalmente sono favorevole all’abolizione del Premio Nobel. Tanto per cominciare, un premio serio non dovrebbe essere assegnato se non c’è in vista nessuno all’altezza (il che si è verificato piuttosto spesso). Se poi volessimo entrare nel merito, cosa dovremmo dire dei criteri di assegnazione? Alzi la mano chi aveva sentito parlare di Saint John-Perse o di Le Clézio prima che fossero premiati e chi ne ha letto una pagina, dopo. Alzi la mano chi è convinto che Gabriel Garcia Marquez meritasse il premio e Borges no. Alzi la mano chi è convinto che Dario Fo stia all’altezza di Pirandello. Eccetera eccetera.

 

 

Da un punto di vista estetico ti sembra giusto che lo Strega l’abbia vinto Pennacchi e non l’Avallone?

 

Non saprei giudicare. Ho cominciato a leggere “Canale Mussolini”. Per ora ho sospeso la lettura, ma fin dove sono arrivato mi sembra un manuale di storia, il che dal punto di vista estetico non mi sembra azzeccatissimo. Riconosco che, volendo raccontare quei fatti, da quel punto di vista, forse le scelte estetiche di Pennacchi sono state le più logiche. Ma, visto il risultato, mi domando se non era il caso di scegliere un diverso punto di vista oppure, se proprio voleva mantenerlo, di evitare quel tono fintamente colloquiale che, di tanto in tanto, scade nel becero gratuito.     

Della Avallone ho visto una foto. Sembra una bella ragazza.

 

 

Progetti per il futuro?

 

I progetti di vita contemplano principalmente: pesce al cartoccio, vino Pigato, coniglio alla ligure.

Quanto ai progetti letterari, sto lavorando su “I nomi sacri”: uno straordinario mattone di circa 600 pagine (la prima parte è già gratuitamente scaricabile da Vibrisselibri) nel quale non è mai facile capire se il protagonista è vivo o è morto. Se salta fuori un editore tanto pazzo da pubblicarlo, vi consiglio di approfittarne e leggerlo!

 

 

Per favore aggiungi una breve nota biobibliografica.

 

Sono nato nella prima metà del secolo scorso. Sono laureato alla Bocconi (sigh!) e ho fatto l’impiegato, il dirigente, l’imprenditore. Una discreta carriera, basata sul principio che, per andare avanti, bisogna adattarsi a risolvere le grane che gli altri non sono in grado o non hanno voglia di affrontare. A quarantatre anni ho deciso di averne piene le tasche delle grane altrui e mi sono messo a fare le cose che piacevano a me.

Raul Montanari mi ha fatto pubblicare due racconti insieme a due suoi in un libretto ormai introvabile intitolato Il tempo, probabilmente (Literalia). Miei racconti sono apparsi su blog come Nazione Indiana e La Poesia e Lo Spirito. Faccio parte della redazione della rivista di poesia, arte e cultura La Mosca di Milano.

È da qualche mese in libreria il mio romanzo Gli occhi di Caino (Eumeswil).

 

                               

 

                                           Il popolo è sovrano?

 

    In pieno agosto, per non più di una settimana, si è dibattuta sui media una questione che meriterebbe ben altro risalto. Ma non si sa mai, può darsi che la faccenda torni di attualità. I termini del problema sono questi: se il voto popolare esprime una certa maggioranza, può il parlamento scomporla e ricomporne un’altra, diversa da quella indicata dal popolo con libere elezioni? È ammissibile che il parlamento ignori la volontà popolare fino a mandare al governo chi è stato messo in minoranza dal voto?

    Tre legislature fa Romano Prodi vinse le elezioni con la coalizione dell’Ulivo ma fu sbalzato dalla scissione di Rifondazione e dalla nascita di una nuova formazione messa in piedi da Cossiga pescando deputati qua e là. Sostituendo Prodi con D’Alema alla testa di una diversa coalizione, la designazione popolare fu disattesa. Eppure tutto avvenne nel rispetto formale della Costituzione.

    Il problema sottostante è: in che cosa consiste la sovranità?

 

    Articolo 1.    … …  La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

    La Costituzione ha più di sessant’anni e risente del momento storico in cui fu scritta. Le “forme” e i “limiti” che pone all’espressione della sovranità popolare sono tali che, per cinquant’anni, di fatto (ma non a chiare lettere), l’ha ridotta a un periodico sondaggio. In sostanza, la Costituzione permetteva al popolo di “sfogarsi” ogni cinque anni dichiarando in che percentuale era favorevole a questo o quel partito. A fare il governo ci pensavano altri, non eletti dal popolo, e cioè il presidente della repubblica, di diritto; i segretari dei partiti, di fatto (dopo aver ottenuto l’assenso di Agnelli, Cuccia, Lama e Carniti, nonché dei segretari di stato USA e Vaticano).

    Questa impostazione era difficilmente separabile da una legge elettorale proporzionale. Infatti la Costituzione non predetermina un sistema elettorale, ma qualche indicazione la dà.

 

    Articolo 56.     …     …         La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo censimento generale della popolazione, per seicentotrenta e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.

    E altre quasi analoghe disposizioni dà per il Senato.

    In questo modo la legge elettorale proporzionale, basata sul principio “cittadini sfogatevi col voto che a fare i governi ci pensiamo noi”, conteneva un seppur minimo correttivo maggioritario grazie ai quozienti ed ai resti. Tanto è vero che per eleggere un democristiano o un comunista bastavano venti-trentamila voti, per eleggere un liberale ce ne volevano cinquantamila. Capitò perfino che un intero partito, lo PSIUP, non ottenne neanche un seggio e scomparve, pur avendo raccolto quasi mezzo milione di voti. Ma pur con questi elementi di maggioritario la legge proporzionale non consentiva maggioranze stabili. Negli anni ‘50 si avvertì la necessità di un premio di maggioranza (che, siccome avrebbe beneficiato il partito di maggioranza relativa, fu bollato come “legge truffa”).

    Alla prova dei fatti, l’impostazione costituzionale/proporzionale ebbe come esito l’instabilità dei governi e la conseguente impossibilità di impostare politiche di lungo periodo.

    L’attuale legge elettorale, discutibile, discussa, e mediaticamente nota come porcellum, è intesa a far sì che gli elettori diano una esplicita indicazione di governo. Non consiste in uno sfogo e in una dichiarazione di appartenenza ideologica, ma chiede ai cittadini di indicare da chi vogliono essere governati. Non consente all’elettore di individuare chi corrisponde in pieno alle sue opinioni, ma gli impone di scegliere chi fra tutti i candidati disponibili è (dal suo punto di vista) “il meno peggio”.

    Una legge così fatta è coerente con la Costituzione? 

    Forse sì, ma solo perché la Costituzione stessa non è un modello di coerenza. Il porcellum si fa forte dell’articolo 1, che proclama la sovranità del popolo. Il sistema proporzionale si rifà all’articolo 67, che dà agli eletti il diritto di ignorare le indicazioni del popolo.

 

     Articolo 67. Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.

    “Senza vincolo di mandato” significa appunto questo: il popolo mi elegge sulla base della mia storia personale, del partito a cui dichiaro di appartenere, delle promesse che faccio in campagna elettorale, ma una volta eletto io rispondo unicamente alla mia coscienza (e al mio interesse). È un principio comprensibile se la legge elettorale è proporzionale e la sovranità popolare è limitata a un periodico sfogo ideologico. Al contrario, se si pretende che la sovranità comprenda l’esplicita indicazione di una coalizione e di un programma, il vincolo di mandato (qualunque cosa sia scritta sui sacri testi) di fatto c’è.

    In conclusione: il sovrano è il popolo o il parlamento? Se si vuole che la sovranità del popolo non si riduca a un sondaggio, bisogna cambiare la Costituzione. Se ciò non è possibile, tanto vale tornare al sistema proporzionale e alla prima repubblica. Altrimenti si fanno soltanto papocchi.

 

                                         Leggi e inganni

 

    Avete fatto caso a come guidano i tedeschi a casa loro e come si comportano quando vengono in Italia? A nord delle Alpi sono tutti bravi, obbedienti come soldatini, se vedono in lontananza una striscia pedonale inchiodano: non sia mai che un passante decida improvvisamente di attraversare senza neanche guardare la strada. Ma appena passano la frontiera è come se sul cartello invece che ITALIA ci fosse scritto FAR WEST e invece del tricolore sventolasse sul pennone la bandiera nera col teschio e le ossa incrociate. I bravi tedesconi, repressi a casa loro, in Italia si sentono come evasi dal carcere.

    Perché faccio questo discorso? Perché, quando si disquisisce sul contenuto della sovranità, bisogna anche prendere in considerazione la natura umana.

    È fuor di dubbio che un sistema elettorale strettamente proporzionale favorisca il frazionamento delle forze politiche e che un sistema maggioritario tenda invece a ridurlo. Ma, si sa: fatta la legge, trovato l’inganno. Col maggioritario all’inglese (winner takes all) scattano le desistenze, col proporzionale scattano le alleanze per blindare i collegi. Poi, una volta passata la frontiera delle elezioni, ognuno per sé e Dio per tutti.

    D’accordo. La natura umana è fatta così, e noi italiani siamo i più umani di tutti. Però resta il fatto che i tedeschi, gli stessi che quando vengono in vacanza da noi credono di essere sull’isola della Tortuga, quando stanno a casa loro rigano dritto. Come mai? Evidentemente, almeno fin dove si estende la sovranità territoriale, deve pur essere possibile costringere (signorsì: proprio costringere) i cittadini a rispettare, se non la legge in tutti i suoi codicilli, almeno nella sostanza.

    E come si fa? Oh perbacco! Facendo poche leggi, di buon senso, e facilmente controllabili. È inutile e controproducente prescrivere cose che poi non si è in grado di far rispettare. Si ottiene l’effetto delle grida manzoniane: più se ne emettono, più ci si sputtana. Non solo: si regala a qualunque dipendente o funzionario municipale, provinciale, regionale o statale la possibilità di fare il concussore o di divertirsi a vessare i cittadini, con il bel risultato che il cittadino, insieme al funzionario stronzo, finisce per odiare anche il comune, la provincia, la regione, lo stato e le istituzioni tutte, in genere e in particolare.  

    Ma come fanno in Germania? Usano un sistema che qui da noi è inapplicabile: educano i funzionari pubblici a usare il buon senso, merce rarissima a sud delle Alpi. Noi invece educhiamo i nostri funzionari a usare l’articolo tale, nel combinato disposto con l’articolo talaltro, come modificato dalla legge 123 del 5/5/55, eccetera eccetera…

    Non che serva a molto, ma sono convinto che, fra le tante modifiche costituzionali che sarebbe ora di fare, la prima e più urgente sia questa:

    “Ogni nuova legge indicherà nell’articolo 1 lo scopo che intende perseguire. In sede di giudizio nessuna interpretazione letterale potrà contraddire tale scopo.”  

    Non servirà a molto, ripeto. Ma credetemi: sarebbe già un passo avanti.

 

                                            Sistemi elettorali

 

    Sono stato a un pelo dal sottoscrivere l’appello per una legge elettorale a collegio uninominale, come in Inghilterra e negli USA. Non l’ho fatto perché immaginavo che nel giro di pochi giorni sarebbero usciti allo scoperto quelli che dicono di volere il sistema francese, tedesco, spagnolo, ecc. ecc. insomma: quelli che vogliono soltanto lo status quo e per questo fanno polverone. Infatti è andata proprio così.

    Invece l’appello per l’uninominale meriterebbe di essere discusso seriamente (e integrato con qualche necessario accorgimento).

    Innanzitutto: perchè il collegio uninominale?

    Per le ragioni evidenziate da Mani Pulite (ce le siamo già dimenticate?). Il sistema proporzionale con liste e preferenze fa salire enormemente le spese di una campagna elettorale. Non solo: il meccanismo porta da un lato al ricatto elettorale del partito sul deputato, dall’altro a un’ampia immunità parlamentare, alle votazioni a scrutinio segreto e ai “franchi tiratori”. Con il proporzionale le segreterie dei partiti fanno e disfanno, mentre i parlamentari diventano una casta di impuniti. I candidati cercano finanziamenti occulti e voti di scambio (cioè commistioni con la criminalità organizzata), gli eletti dilapidano il denaro pubblico per pagare i debiti contratti in campagna elettorale.

    Con il collegio uninominale è più facile controllare le spese dei candidati, imporre un tetto, esigere un rendiconto. Inoltre il candidato è meno dipendente dal “franchising” di partito e ha maggiore agio di dire e fare quel che pensa.

    Quali sono gli inconvenienti del collegio uninominale?

    Ne vengono indicati due: 1) il fenomeno delle desistenze, con cui si torna alla frammentazione dei partiti e 2) la più o meno inconscia pretesa da parte degli elettori di un “vincolo di mandato” sugli eletti.

    Per questi motivi il professor Sartori (e non molti altri nella sua scia) sostengono il sistema francese: collegio uninominale con secondo turno di ballottaggio. È vero che così le desistenze sembrano un pochino più difficili, ma nella situazione italiana le desistenze impazzerebbero anche se adottassimo il sistema francese. Qual è il partito che, in uno specifico collegio, non si alleerebbe con il demonio pur di non far vincere il principale avversario? In Italia, paese del Palio di Siena, più che vincere è importante far perdere l’avversario; e se per questo è necessario appoggiare in un certo collegio un candidato del quale già si sa che, una volta eletto, se ne andrà per un’altra strada, beh, sarà sempre meglio che regalare il seggio all’avversario. Come credete che sia arrivato a Montecitorio quel Turigliatto che fece cadere Prodi?  

    Come ho già detto, non ho titoli per contestare un illustre cattedratico. Ma posso dire da semplice cittadino che la soluzione proposta dal professor Sartori non mi convince? Io non credo affatto che eviterebbe il frazionamento. Per lo meno, non in Italia. E in più presenta un difetto: si sa che ai ballottaggi partecipa circa la metà dei votanti del primo turno. Praticamente, al secondo turno votano  solo gli iscritti ai partiti. Non mi sembra proprio il massimo della democrazia affidare la scelta dei parlamentari agli elementi più politicizzati: si rischia di avere, in certi momenti storici, un Parlamento tutto giacobino o tutto reazionario.

    Mi sembra invece più democratico invitare i cittadini a votare una sola volta, con regole chiare e semplici. Chi prende più voti viene eletto. E stop. Chi non va a votare si rimette al parere dei votanti. Se i candidati sono dieci e il più votato viene eletto con solo il 20% dei voti, la stampa avrà agio di spiegare ai sette o otto candidati minoritari quale danno hanno fatto e quanto saranno benemeriti della patria se alle prossime elezioni non si faranno vedere. Con le votazioni il popolo esercita la sua sovranità: sarebbe utile che la esercitasse dando una indicazione di governo e non una indicazione dei pii desideri di ciascuno. Dopo sessanta e più anni di sovranità puramente formale, è ora che i cittadini italiani comincino a prendersi la responsabilità di indicare, non il governo dei loro sogni, ma un governo concretamente possibile: il meno peggio.

 

    E le desistenze? E il frazionamento?

    Per evitarle mi permetterei di suggerire, oltre alla legge elettorale basata sui collegi uninominali, un paio di integrazioni.

    1) All’atto della presentazione della candidatura, i candidati dichiarino formalmente a quale gruppo parlamentare si iscriveranno. Se, una volta eletti, cambiano idea e decidono di passare a un altro gruppo, decadono ipso facto da deputati o senatori e si convocano elezioni suppletive nei loro collegi (dove, ovviamente, possono ricandidarsi e spiegare agli elettori i motivi del loro comportamento).

    Questa proposta non impedisce all’eletto di votare in difformità dalle indicazioni del suo gruppo (e quindi resta valida la formula “senza vincolo di mandato”), ma rende più difficili le scissioni dei gruppi parlamentari e i salti della quaglia da un gruppo all’altro: se fosse applicata, renderebbe problematico sostituire un governo eletto dal popolo con uno privo di legittimazione popolare.

    Non pretendo di sostenere che sia la panacea di tutti i mali, ma sono convinto che, con questo accorgimento, gli uomini politici sarebbero meno disinvolti e agirebbero con maggior senso di responsabilità.

    2) Se poi l’unica modalità di voto in Parlamento fosse il voto palese, l’accorgimento risulterebbe ancora più efficace.

    È vergognoso che un rappresentante del popolo abbia paura di votare in modo difforme dal suo gruppo, quando le sue personali convinzioni (che ha manifestato agli elettori e in base alle quali è stato eletto) lo porterebbero a distinguersi dagli altri. È disgustoso che voti contro ricorrendo a sotterfugi, al riparo del voto segreto, da “franco tiratore”. È molto meglio che sostenga le sue opinioni a viso aperto, senza paura di rappresaglie.

    Il sistema proporzionale con liste e preferenze rende il parlamentare elettoralmente schiavo del partito. Il sistema del collegio uninominale rovescia il rapporto: se il partito pretende che il parlamentare voti SI, lui può sempre rispondere: “I miei elettori si aspettano che io voti NO.” 

    Il partito può anche minacciare di non ricandidarlo, ma il parlamentare eletto in un collegio uninominale sa che i voti sono più suoi che del partito. Insomma: rimane “senza vincolo di mandato” e in più “con il coraggio di dichiararsi”.

 

                                                 Lieto fine

 

    Perché non sono capace di scrivere una storia “normale”, con un protagonista che, passando attraverso una serie di guai, alla fine la spunta e ottiene la meritata ricompensa? Perché, quando leggo un romanzo e arrivo al “lieto fine”, mi viene voglia di buttarlo dalla finestra? Nelle storie che racconto io i finali sono sempre aperti, interlocutorii; lasciano capire che la storia non è finita lì, ma si guardano bene dal dire cosa succederà, anche perché è probabile che non succeda altro che la vita di tutti i giorni, con le sue grane, i suoi fastidi, il suo carico di noia.

    Eppure dovrei saperlo: chi lavora tutto il santo giorno e sì e no legge un libro all’anno, il lieto fine lo vuole, lo esige, lo pretende. Se non lo trova, ci resta male. E siccome i redattori lo sanno, quando mandi un manoscritto a una casa editrice, se non c’è il lieto fine lo cestinano e manco ti scrivono perché.

    Hanno ragione loro: una casa editrice non è un ente di beneficenza. Prima ancora che ai dividendi, deve pensare a pagare fatture, stipendi, affitti e bollette. Quindi deve pubblicare roba che si venda. E il tuo manoscritto può essere anche un capolavoro, ma se sei uno sconosciuto ci devi mettere il lieto fine. Altrimenti non si vende. Le tragedie o, peggio ancora, i finali insignificanti (che sono i più veri) te li potrai permettere solo se e quando sarai diventato un nome, uno che vende a prescindere da ciò che ha messo nel libro.

    E allora perché non mi faccio furbo? Potrei scrivere un romanzetto scaltro, che contenga sottili ironie, qualche situazione francamente comica e tanti personaggi classici: un “cattivo” che farà una brutta fine, un “buono” simpatico, una “lei” affascinante e un po’ sciocchina, un “amico fedele”, eccetera eccetera; insomma: il supermarket dei luoghi comuni. Perché non lo scrivo?

    Perché non ce la faccio.

    Perché mi vergogno.

    Perché non so dire le bugie.

    Porca miseria, non lo scrivo perché il lieto fine sputtana qualunque discorso serio e lo riduce al livello della fiaba.

    Io di fiabe nella vita vera non ne ho mai viste. Non ho mai visto che uno, facendosi il culo, ottenga ciò che voleva e riesca a goderselo in pace. Tutti quelli che conquistano qualcosa escono dalla lotta esausti e frastornati: spesso non si rendono neppure conti di averla spuntata. Lo capiscono solo più tardi, quando un ladruncolo qualsiasi gli scippa ciò che avevano ottenuto con sangue sudore e lacrime, e li rispedisce nel girone degli scontenti.

    Questa è la verità, e la sappiamo tutti; ma è proibito scriverla in un romanzo. Il pubblico vuole fiabe. Gli editori devono dargliele. Gli scrittori devono scriverle.

    Tutti bugiardi, al servizio di lettori che muoiono dalla voglia di essere ingannati. 

 

                                             Il fascino dell’ignoto 

    Mai sentito parlare dei Nasamoni? Dovevano essere dei personaggi un po’ particolari. Secondo Erodoto erano una popolazione libica autoctona che viveva sulla costa della Sirte, ai confini della Cirenaica (cioè più o meno un centinaio di chilometri a sud di Bengasi). I Nasamoni praticavano un moderato nomadismo e mettevano in comune le donne (!).

    Erodoto scrisse le sue Storie verso il 450 a.C. e in un passo del secondo libro, dedicato all’Egitto, si sofferma sul problema delle fonti del Nilo (problema che, per inciso, fu definitivamente risolto solo ventitre secoli più tardi). Ebbene, Erodoto narra a questo proposito un episodio che doveva risalire a non più di due o tre generazioni prima di lui. Indicativamente, potremmo datarlo fra il 500 e il 550 a.C.

    Etearco, re degli Ammoni, raccontò di aver ricevuto una volta la visita di alcuni Nasamoni (i quali raccontarono) … che c’era stato fra i Nasamoni un gruppo di giovani temerari, figli di notabili (che) … avevano tratto a sorte cinque di loro perché andassero a esplorare i deserti della Libia. … I giovani attraversarono la zona abitata, la superarono, raggiunsero la zona popolata da fiere, e da qui si spinsero attraverso il deserto sempre procedendo verso il vento zefiro.

    Lo zefiro corrisponde grosso modo al libeccio: può essere la brezza che soffia dal mare al tramonto ma anche un vento umido e impetuoso che dura giorni e giorni. Fatto sta che usarlo come indicazione di un punto cardinale è quanto meno approssimativo. È ragionevole pensare che Erodoto intendesse dire che i Nasamoni erano andati più o meno in direzione sudovest. Dal resto del racconto risulta evidente che i cinque esploratori andarono a sud ma accostando di preferenza a sudovest.

    Dopo aver superato un vasto tratto sabbioso, in capo a molti giorni videro degli alberi cresciuti in una landa pianeggiante; si avvicinarono e presero a coglierne i frutti; ma mentre li coglievano sopraggiunsero uomini piccoli, di statura inferiore alla media umana, che li catturarono e li condussero via; i Nasamoni non conoscevano la loro lingua ed essi non conoscevano la lingua dei Nasamoni. Li condussero attraverso immense distese paludose; terminate le paludi giunsero a una città i cui abitanti erano tutti alti quanto gli uomini che li conducevano e avevano tutti la pelle scura. Lungo la città scorreva un grande fiume proveniente da ovest e diretto a est, dentro al quale si vedevano dei coccodrilli.

    Letteralmente Erodoto dice che il fiume scorreva “da vespero verso il sole” (intendendo evidentemente il punto in cui nasce il sole, cioè l’est). Ma, a parte il fatto che ben pochi fiumi dell’Africa subsahariana scorrono in questa direzione, restano validi i dubbi relativi ai punti cardinali così come erano intesi dai greci antichi (e dai Nasamoni). Erodoto sostiene che quello doveva essere il corso superiore del Nilo, ma è evidente che così non è. Studiosi moderni hanno opinato che fosse il Niger (che però scorre in tutt’altra direzione). Secondo il vostro umilissimo, è probabile che il “grande fiume” fosse un affluente del lago Ciad (ce n’è uno abbastanza grande da essere riportato sugli atlanti) e che le paludi menzionate nel racconto fossero i contorni del lago. A quei tempi il lago Ciad era sicuramente più esteso di quanto non sia oggi e la zona circostante doveva essere molto più ricca d’acqua. 

    Semmai sono da notarsi alcune circostanze.

    Duemilacinquecento anni fa i pigmei non erano ignoti: se ne parla anche nell’Iliade. All’epoca dovevano essere stanziati ai limiti meridionali del Sahara. Oggi i pochi rimasti si trovano più a sud.

    Dal racconto di Erodoto non è possibile ricostruire quanto sia durato il viaggio dei Nasamoni, ma è verosimile che la zona desertica fosse meno ampia di quanto non sia al giorno d’oggi. Del resto, è noto che il Sahara non fu sempre un luogo arido e spopolato. Sono state ritrovate tracce di popolazioni che l’hanno abitato quando era ancora fertile.

    Ciò che stupisce è che duemilacinquecento anni fa un popolo tutt’altro che progredito e civilizzato, e che poteva contare in tutto qualche migliaio di esseri umani, abbia intrapreso una simile spedizione nell’ignoto. Quasi negli stessi anni il faraone Neco, con ben altri mezzi e sostenuto da una cultura ben più sviluppata, finanziò una spedizione di fenici che circumnavigò l’Africa in tre anni, ma non pensò neppure a esplorare il deserto per sapere cosa ci fosse al di là. 

   Queste testimonianze storiche mi convincono che il fascino dell’esplorazione è qualcosa di intimamente connesso con la natura umana. È probabile che il gusto di inoltrarsi nell’ignoto non sia mai venuto meno e che la stasi di quindici secoli nell’esplorazione del mondo, da Alessandro Magno a Marco Polo, sia più apparente che reale. Sono portato a credere che i viaggi di esplorazione per mare e per terra non abbiano mai avuto delle vere e proprie battute d’arresto. Se non se ne è mai saputo gran che, c’è un motivo: gli esploratori erano mercanti che miravano ad assicurarsi il monopolio su certe rotte e si guardavano bene dal renderle pubbliche con resoconti scritti.   

    Purtroppo in questo modo le scoperte venivano facilmente dimenticate. Se percorsi, pericoli, soste, rapporti di commercio, amicizia e ospitalità fossero stati messi a disposizione del pubblico, i viaggi avrebbero potuto svolgersi in condizioni di maggiore sicurezza e con maggiore frequenza. Invece è probabile che le stesse rotte siano state aperte più volte da diversi mercanti in concorrenza tra loro, ciascuno dei quali cercava di assicurarsi dei vantaggi sugli altri, senza accumulare le conoscenze acquisite, senza lasciarne memoria alla posterità.

 

                                        Niente più esplorazioni?

    Verso la fine del terzo secolo d.C. Roma esaurì la spinta imperialista, esplosero le guerre civili, la politica estera si ridusse a sporadiche e fallimentari spedizioni contro i Persiani. Le scorrerie delle orde barbare venivano respinte con sempre maggiori difficoltà. Arrivarono Visigoti e Vandali, e se ne andarono. Arrivò Teodorico con i suoi Ostrogoti, e rimase. Poi arrivarono i Longobardi. Da Costantinopoli l’imperatore Giustiniano mandò Belisario a riconquistare l’Africa e l’Italia, ma l’impero d’oriente non riuscì a imporsi e, per farla finita con i Longobardi, si dovette chiamare Carlomagno.

    In questa secolare girandola di guerre non c’è da meravigliarsi se l’esplorazione del mondo non fece grandi progressi: la struttura economica dell’impero era andata a catafascio. Le coste tunisine erano passate dai Vandali ai Bizantini agli Arabi e il grano africano non arrivava più a Roma. I manufatti fabbricati in Campania non riuscivano più a raggiungere la Gallia perché il mare era pieno di pirati e le strade erano infestate da bande di briganti. Fare il mercante era sempre più pericoloso. Rimaste senza clienti, le manifatture chiusero bottega. Migliaia di occupati si trovarono senza lavoro. Diventò impossibile vivere in città e i più poveri sfollarono in campagna.

    Ma bisogna tener presente lo stato della tecnologia di allora, tutt’altro che avanzato: i romani erano cento volte più civili dei barbari, ma anche per loro l’unico mezzo di locomozione era il cavallo, da montare a pelo, senza sella e senza staffe; il fuoco era l’unico mezzo per cuocere, per far luce e per riscaldare; le case non avevano acqua corrente e le finestre non avevano infissi né lastre di vetro; le notizie erano trasmesse da corrieri e a Roma arrivavano deformate dalle voci (altrove non arrivavano neanche). In queste condizioni, finché fu possibile,  vivere a Roma consentiva se non altro di fruire dei servizi comuni come le terme: bagno, piscina, lavatoio e cesso. Quando si dovette sfollare, tutto diventò più difficile.

    Le campagne, in realtà, erano bosco e palude. Non esisteva una rete diffusa e interconnessa di paesi, borghi, villaggi; non esistevano casolari isolati (gli uni e gli altri sarebbero stati visitati dai briganti un giorno sì e l’altro pure), ma solo ville patrizie arroccate come fortezze. Città come Torino, Piacenza o Verona erano castra, campi trincerati militari distanti centinaia di chilometri l’uno dall’altro. A cento metri dal vallum cominciavano le terre vergini, mai coltivate: foreste attraverso le quali correvano gli stretti nastri delle strade consolari, con una stazione di posta ogni tot miglia. Qualcosa di simile all’attuale Sudamerica, dove la popolazione è concentrata nelle città, mentre il resto del territorio è giungla inesplorata.

    Ai tempi della sua gloria Roma era la testa elefantiaca di un corpo disabitato. A partire dal V secolo d.C. la vita nei campi precipitò a livelli di pura sussistenza: vasi, tegole, tessuti, utensili di ferro e di cuoio sparirono insieme alle manifatture che li fabbricavano. Chi non sapeva produrli da sé dovette farne a meno. Chi perse il mantello tornò a vestirsi di pelli di animale. Migliaia di persone morirono di stenti perché non avevano la benché minima esperienza di lavori agricoli (che richiedono una tecnologia molto più sofisticata di quanto comunemente si creda).

    Non è esagerato dire che sotto Ostrogoti e Longobardi l’Italia ripiombò nell’età della pietra.

 

                               Ma quanti erano gli antichi Romani?

 

    È opinione comune che fra guerre, epidemie e decadimento economico, nei cinque secoli che vanno dalla deposizione di Romolo Augustolo all’anno mille la popolazione sia calata in tutto il territorio dell’ex impero romano. Nessun libro di storia rinuncia a far rilevare che gli abitanti di Roma erano calati da un milione a ventimila. Ma chi calcola che ai tempi di Carlomagno vivessero in Italia sei-sette milioni di esseri umani non dice quanti fossero ai tempi di Nerone.

    Non lo dice perché non lo sa: i romani facevano i censimenti con criteri assai diversi dal nostro e dai loro dati è impossibile ricostruire il totale della popolazione stanziata sul territorio. Ogni studioso fa le sue stime, ma di questo si tratta: stime, ipotesi, proiezioni.

    Dunque, su che base si afferma che la popolazione sia calata drasticamente? L’evoluzione demografica dell’impero romano (nascite, morti, migrazioni interne) è tutta congetturale. In realtà è problematico stabilire quanta gente abitasse nelle campagne quando a Roma (si dice) viveva un milione di abitanti.  

    Non sono uno storico e non ho fatto studii specifici sull’argomento, ma personalmente sospetto che in tutto il territorio dell’attuale Italia ci fossero non più di due o trecentomila schiavi nei latifondi dei patrizi romani, poche migliaia di coloni nei poderi ottenuti come ricompensa per fortunate campagne militari, forse diecimila addetti alle stazioni di posta lungo le vie consolari, qualche migliaio di briganti sparsi qua e là, e due o tre milioni di cittadini concentrati soprattutto nella Magna Grecia, dove le città come Pompei e Siracusa erano forse una trentina. Le altre città, a nord di Roma, erano accampamenti militari intorno ai quali viveva qualche famiglia di artigiani. E stop.

    Fra una città e l’altra c’era il nulla: boschi e terre spopolate. I quattro-cinquecento latifondi dei patrizi romani erano in gran parte incolti, pascolo per greggi e armenti; il resto, compresa quasi tutta la pianura padana, era foresta vergine e paludi.

    Tutti gli sfaccendati, i diseredati, i toccati dalla sorte, andavano a Roma a ingrossare la suburra: massa dannata che campava di espedienti, distribuzioni gratuite di grano e giochi del circo.

    I cives romani furono sempre pochi: fin dai tempi del ratto delle Sabine la politica di Roma fu di espansione ma anche di inclusione, proprio perché i romani erano dannatamente pochi. I popoli italici, anche i più ostici come i sanniti, non vennero soltanto sconfitti: furono integrati (probabilmente con metodi piuttosto spicci) perché Roma aveva bisogno di uomini, altrimenti non avrebbe potuto andare al di là del Lazio. Già ai tempi di Augusto le legioni erano imbottite di barbari e i soldati che difendevano il limes erano reclutati fra la gente del posto; a partire da Traiano salirono sul trono imperatori spagnoli, africani, geti; ai tempi di Teodosio erano romani meno di metà degli ufficiali; nel V secolo barbari come Ezio e Stilicone diventarono generali e comandanti in capo dell’esercito.

    Se Caracalla si decise a estendere la cittadinanza a chiunque vivesse entro i confini dell’impero, vuol dire che 1) i cives romani erano pochi, 2) i non-cives dovevano essere più o meno altrettanti, e 3) la popolazione complessiva dell’impero in rapporto con l’estensione dei confini e la necessità di presidiarli doveva essere appena sufficiente o (più probabilmente) scarsa.

    Del resto, basta tener conto di un fatto: i Visigoti che saccheggiarono Roma e gli Ostrogoti che occuparono l’Italia per centocinquant’anni, erano bande di quaranta-cinquantamila persone di cui meno di metà erano combattenti. I Longobardi saranno stati di più, ma mica tanto. Se Ostrogoti e Longobardi riuscirono a impadronirsi dell’Italia fu perché si trovarono di fronte un esercito di scarse dimensioni, già fiaccato dalle scorrerie di chi li aveva preceduti. L’impero d’occidente cadde, un po’ perché non aveva un bastione naturale come il Bosforo, ma soprattutto perché non aveva una popolazione sufficiente per formare un esercito in grado di respingere assalti frequenti e ripetuti.

                                         Il mistero dell’alto medioevo

    Cosa successe a partire dal V secolo d.C.? Chi viveva di espedienti a Roma (ed erano tanti) non trovò più da mantenersi e cercò fortuna in campagna (finendo per darsi al brigantaggio). Chi fuggì dalla città con qualche soldo e acquistò un podere andò in rovina per mancanza di know how o perché i barbari glielo tolsero con la forza. Quando Romolo li condusse a fondare una città, i Romani erano schiavi e briganti: quando Roma crollò tornarono a essere banditi e servi della gleba. A parti invertite, si riprodusse la situazione in cui i patrizi facevano coltivare dagli schiavi i loro latifondi. Con la differenza che i nuovi padroni ostrogoti e longobardi, invece di stare a Roma, vivevano sul territorio e venivano di persona a riscuotere i tributi con la spada in mano. In queste condizioni, il massimo che i romani superstiti potevano sperare era la sopravvivenza. Esattamente come gli schiavi.

    Nonostante ciò, non credo che la popolazione nell’alto medioevo sia diminuita rispetto a quella del basso impero. Fra il V e il X secolo guerre e pestilenze fecero la loro parte, come l’avevano sempre fatta. Ma dubito che la popolazione sia diminuita. Anzi, sono convinto che, senza epidemie, guerre civili e invasioni barbariche, la popolazione sarebbe esplosa anche nei secoli bui. In campagna si facevano figli fino a sfinire le donne: servivano braccia. Le condizioni economiche generali erano peggiorate fino a livelli di pura sussistenza (e anche al di sotto), ma è risaputo che i maggiori tassi di natalità si verificano nelle regioni più povere. Semmai doveva essere altissima la mortalità infantile (ma in epoca imperiale non doveva andare molto meglio).

    A meno che non saltino fuori prove convincenti, continuerò a pensare che la popolazione dell’alto medioevo sia rimasta più o meno la stessa che ai tempi dell’antica Roma, solo che invece di concentrarsi in città (vivendo di panem et circenses a spese delle province conquistate) si era sparpagliata nelle campagne per sfuggire agli eserciti barbari, alle carestie e alle epidemie. Ma in campagna, tagliata fuori dal mondo civile, la gente si abbrutì nell’ignoranza e nella fame.

    Cosa successe al patrimonio di conoscenze accumulate nella Roma e nella Grecia classica? Si assottigliò, ma non scomparve. Già nei secoli d’oro la cultura era patrimonio di poche élites: se in oriente resistevano centri di cultura come Alessandria, Atene e Antiochia, in occidente c’era soltanto Roma.

    Anche le tecnologie produttive erano patrimonio di pochi distretti specializzati. Con lo sfollamento verso le campagne le élites si ridussero ancor di più. Lo stesso fenomeno si produsse anche nell’impero d’oriente. Le conoscenze si concentrarono a Costantinopoli: a corte, nel clero e nell’esercito.

    I Romani avevano spinto le loro armate in tutto il mondo conosciuto, e anche al di là, dovunque ci fosse qualcosa da rapinare. Nell’alto medioevo i viaggi diventarono più difficili e più rischiosi, eppure continuarono. Le esplorazioni non finirono. Si viaggiava in carovana per i pellegrinaggi, per commerciare, per fare la guerra. Si viaggiava per mare comportandosi da pirati con i pirati, si viaggiava in tutti gli angoli d’Europa per andare a convertire i pagani. La conoscenza della geografia era necessaria. Carlomagno era analfabeta ma la geografia la conosceva bene, e così i suoi consiglieri.

    Se nel nuovo millennio Marco Polo poté andare in Cina e Goffredo di Buglione poté portare un’armata a Gerusalemme, fu perché l’uno e l’altro avevano alle spalle una tradizione ininterrotta di viaggi mercantili e militari per mare e per terra. Se i secoli dal VI al X fossero stati un totale blackout, le spedizioni veneziane e crociate si sarebbero perse nel deserto o sarebbero finite contro qualche scoglio nel Mediterraneo.

    Il vero problema dell’alto medioevo è la scarsità di fonti attendibili e informate. Cosa sia veramente successo nei secoli bui (demografia, stratificazione della società, evoluzione dell’economia e del costume) è qualcosa che in gran parte ci sfugge e che probabilmente non sapremo mai.

 

                               I Templari, Dante e la Croce del Sud      

 

    Ben prima del 1315, data in cui si suppone che le prime due cantiche della Divina Commedia siano state completate, Dante sapeva che:

 

1) la terra è una sfera e tutti i corpi sono attratti verso il suo centro.

 

    Quand’io mi volsi, tu passasti il punto

    al qual si traggon d’ogni parte i pesi

    e sei or sotto l’emisperio giunto

    ch’è opposto a quel che la gran secca

    coverchia…

                                       (Inferno canto XXXIV)

 

2) esiste un equatore che divide la terra in due emisferi.

 

    … il mezzo cerchio del moto superno

    che si chiama Equatore in alcun’arte

    e che sempre riman tra il sole e il verno…

                                  (Purgatorio canto IV)   

 

3) nel cielo dell’emisfero australe si vedono altre stelle.

 

    Tutte le stelle già dell’altro polo

    vedea la notte, e il nostro tanto basso

    che non surgeva fuor del marin suolo

                                           (Inferno, canto XXVI)

 

4) esiste una costellazione tipica dell’emisfero australe (la Croce del Sud) composta da quattro stelle molto brillanti disposte in forma di rombo.

 

    Io mi volsi a man destra e posi mente

    a l’altro polo, e vidi quattro stelle

    non viste mai fuor ch’a la prima gente.

    Goder pareva il ciel di lor fiammelle:

    oh settentrional vedovo sito

    poi che privato sei di mirar quelle!

                                     (Purgatorio canto I)

 

    La Divina Commedia non è un testo di astronomia dedicato agli specialisti, ma un poema didascalico che raccoglie in compendio tutto lo scibile umano dei suoi tempi. Non risulta che all’epoca qualcuno abbia rimproverato a Dante di seguire teorie fantasiose, quindi bisogna pensare che agli albori del Trecento l’idea che la terra sia una sfera fosse nota e accettata da tutte le persone capaci di leggere. Altrimenti chiunque avrebbe potuto alzare la mano e replicare: “Ma che ne sa Dante di quali e quante stelle ci sono nell’altra parte del mondo? C’è mai andato, lui?”

    Da dove venivano queste conoscenze? Ai tempi di Dante non si credeva che il mondo finisse alle Colonne d’Ercole? Un fiorentino nato nel 1265 e mai uscito dall’Italia dove poteva aver sentito parlare di una costellazione australe?

    Per quasi tutte queste domande non esistono risposte certe. Ai tempi di Dante la cultura greca e romana non era completamente sparita. Anche se il latino era stato spodestato dal provenzale, le corti conservavano buona parte del bagaglio di conoscenze che proveniva dai tempi dell’impero. Per quanto corrotto dalle favole, paure e notizie false che hanno costellato l’alto medioevo, il sapere degli antichi stava per tornare alla luce con i testi originali conservati nelle biblioteche. Ma dovevano esistere anche altre fonti di informazione. In particolare, le notizie riguardanti l’emisfero australe non potevano risalire a Greci e Romani.

    La costellazione della Croce del Sud non è visibile nel nostro emisfero se non al di sotto del 27° parallelo (cioè all’altezza del Senegal e delle Isole del Capo Verde), ben più a sud delle Isole Canarie. Però le Canarie furono raggiunte solo verso il 1350, quando Dante era già morto da un pezzo, e il Capo Verde addirittura un secolo più tardi. Sembra accertato che fino al 1471 nessuno sia sceso sotto l’equatore costeggiando l’Africa Occidentale. E allora come faceva Dante a sapere tutte queste cose (cose vere, tra l’altro!) e a raccontarle, sicuro che i suoi lettori e ascoltatori non avrebbero sollevato obiezioni?

    L’unica notizia di un viaggio nell’emisfero australe prima di Bartolomé Diaz e Vasco de Gama è riportata da Erodoto: più o meno verso il 700 a.C. una flottiglia fenicia al servizio dei faraoni avrebbe circumnavigato l’Africa in tre anni.

    Dante aveva letto Erodoto? Improbabile, visto che non conosceva neanche l’Odissea (ma sapeva che Ulisse era stato un gran viaggiatore). Inoltre, nel riportare la notizia del viaggio dei fenici, Erodoto non fa alcun cenno della Croce del Sud (perlomeno, nel testo che ci è pervenuto).

    Ma i versi di Dante che ho citato sopra sono espliciti. E se già nel 700 a.C. esistevano naviganti capaci di circumnavigare l’Africa, è illogico pensare che da allora fino a Cristoforo Colombo non ci siano più stati navigatori, spedizioni commerciali, esplorazioni. Se Marco Polo è andato in Cina via terra, perché altri viaggiatori non avrebbero potuto spingersi a sud attraverso il deserto oppure via mare?  

    L’obiezione è: di Marco Polo sappiamo tutto, di questi ipotetici viaggiatori non sappiamo niente. In realtà non è del tutto vero. Pare che viaggiatori romani si siano addentrati parecchio nel Sahara e nello Yemen. Però di questi viaggi non abbiamo resoconti di prima mano: solo notizie per sentito dire. Come mai? E come mai i bizantini non hanno continuato in queste missioni esplorativo/commerciali?

    Anche questa obiezione ha una risposta: può darsi che questi viaggiatori non fossero europei; così come può darsi che non abbiano lasciato scritti, giornali di bordo, resoconti dei loro viaggi, perché nella loro cultura non si usava (o magari perché erano analfabeti).

    Gli arabi, per esempio, furono grandi mercanti e viaggiatori, non solo conducendo carovane attraverso i deserti ma anche navigando per mare (ne resta una traccia letteraria nelle Mille e una notte: i viaggi di Sindbad). Quando Vasco de Gama, dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza, arrivò in Kenya, a Mombasa e poi a Malindi (era già il 1498) trovò la piazza commercialmente monopolizzata dai mercanti arabi. Erano là da secoli e conoscevano tutto: rotte, porti, re africani e maharajah dell’India. Fu uno di questi mercanti a guidare Vasco de Gama nell’Oceano Indiano e a presentarlo al re di Calicut.

    Ebbene: Mombasa e Malindi stanno a sud dell’equatore. Da lì si vede la Croce del Sud. I mercanti arabi stanziati in Kenya (e anche più a sud: per esempio a Zanzibar) trafficavano con altri arabi che, via Gibuti e Yemen, rientravano alla Mecca, a Damasco, a Gerusalemme. Qui raccontavano i loro viaggi ai pellegrini arabi, che rientrando alle loro case ne parlavano con altri pellegrini e mercanti cristiani, i quali poi tornavano a Roma e a Costantinopoli. Inutile dire che in tutti questi passaggi le notizie si arricchivano di invenzioni, fantasie, sogni, miraggi.

    Da questi racconti nacque, fra l’altro, la leggenda del Prete Gianni, fantomatico re di un popolo cristiano in Etiopia (il re-prete non c’era, ma i cristiani sì). Mercanti e carovanieri dovettero parlare anche con i Templari (sui quali si favoleggia fin troppo, ma che indubbiamente in Palestina ci andarono e ci rimasero per un bel po’).

    Ricapitolando: ai tempi di Dante nessuno aveva visto la Croce del Sud navigando lungo le coste africane dell’Atlantico, ma lungo quelle dell’Oceano Indiano sì. Le informazioni che arrivavano in Europa erano di terza o quarta mano, ma non erano campate per aria: avevano basi reali.

    L’alto medioevo fu sicuramente un’epoca di decadenza economica e la cultura ne risentì circolando con difficoltà, rinchiudendosi in ambienti ristretti. Ma non sparì del tutto: gli uomini non rinunciarono mai a “seguir virtute e conoscenza”.                         

 

                                        Poesie per un no

 

    Quando T.S. Eliot diede alle stampe la versione definitiva di “The waste land” aggiunse alcune pagine di note esplicative per ciò che nel testo poetico non era di immediata evidenza (e ce n’era parecchio!). Anche “Poesie per un no” di Roberto Rossi Testa, edito da Avagliano, contiene numerosi richiami, dotti e ghiotti come quello citato in postfazione sul funerale di Averroé o come quello che credo di cogliere nell’ultima poesia del libro, dove mi par di leggere in trasparenza il mito gnostico di Sofia, caduta dall’iperuranio degli Eoni fin quaggiù e rimasta imprigionata nella materia. Ma penetrare nei riferimenti, nelle citazioni, nelle allusioni, nelle allegorie, se dà una più compiuta comprensione del singolo verso, può far smarrire il senso generale dell’opera. I sei poemetti di Roberto Rossi Testa hanno infinite letture possibili, che non vanno intese separatamente ma coordinate in un’unica visione cosmica. E questo è un compito che richiede tempo, perfino anni, diverse letture e meditazione. Ma senza perdere la freschezza delle prime idee e sensazioni.

    Nella postfazione c’è una domanda alla quale, come spesso accade in poesia, è impossibile o arbitrario dare una risposta: che cosa significa “Poesie per un no”? Quel “per” è causale (poesie scritte in seguito a un “no” ricevuto) oppure finale (poesie il cui scopo è quello di pervenire a un rifiuto totale, senza eccezioni né seconde chances)? Apparentemente, da come è formulata la domanda, parrebbe che la risposta sia possibile e di capitale importanza per penetrare il senso del libro. Invece, la chiave di lettura suggerita dall’autore è (tacitamente, giustamente) l’assenza di risposta. I no sono dappertutto, i no sono gli avvenimenti più memorabili della vita. Dunque, ognuno legga quel “per” a modo suo, così come gli detteranno l’esperienza, le speranze, le delusioni del momento. La vera poesia va letta e riletta varie volte nel corso della vita, e ogni volta dice altre cose, e soltanto verso la fine fa capire che le cose non sono mai “altre”: siamo noi a cambiare, mentre la realtà, di cui pure facciamo parte, è immutabile (e inconoscibile).

    E così, per questa poesia è praticamente impossibile una recensione. Ogni rilettura dà nuovi esiti e continua a darne fino all’ultimo inesorabile “no” che tutti quanti riceveremo, prima o poi. Certo, da qui all’eternità, la poesia può farci ripercorrere o indovinare tutte le sensazioni causate dai prodromi, dagli impatti e dalle conseguenze dei tanti “no” che la vita riserva. E anche questo è vivere.

    Per esempio: l’eterno tema dell’amore non corrisposto. Dante l’ha sublimato. Petrarca ne ha fatto il tema principe della poesia lirica. Ariosto è partito di lì per sbrigliare una fantasia lussureggiante. Migliaia di altri poeti, delle più svariate levature, hanno indagato minuziosamente le forme, le cause e gli effetti dell’amore non corrisposto mirando a commuovere, a suscitare nel lettore un sentimento di com-passione, e a far scattare il meccanismo consolatorio del “mal comune, mezzo gaudio”.

    Rossi Testa sceglie una strada tutta diversa. Al di là di quanto riferisce lo stesso autore sulla genesi dei suoi componimenti, è impossibile sapere se un episodio di amore non corrisposto abbia dato il via alla trasposizione del sentimento su un piano universale, e cioè se l’afflato cosmico di queste poesie nasca dall’elaborazione di un lutto. Tutto sommato, l’origine è ininfluente. Per quanto mi riguarda (per quanto riguarda la mia lettura di oggi), ho sentito i sei poemetti che compongono il libro come i movimenti di una specifica sinfonia, che illustra l’amore come la forza sottostante alle metamorfosi dell’universo. Leggere nella nota dell’autore un richiamo a “Il corno magico del fanciullo” mi ha confermato nella mia sensazione: sei poemetti come i sei movimenti della terza sinfonia di Mahler, la sinfonia-mondo che dalla roccia delle montagne e dai fiori di un prato sale fino agli angeli per finalmente sciogliersi nell’impronunciabile Amore.  

 

                                      Niente di nuovo sotto il sole

 

    Capita spesso che sedicenti “anime belle” vadano a ripescare frasi di questo o quello storico antico per mostrare come le indegnità dei tempi presenti siano simili a quelle dell’alto o basso impero, indegnità che l’illustre Pinco Pallino aveva già lucidamente denunziato mille e mille anni or sono.

    Ho visto fare questo giochetto tante di quelle volte che mi è venuto a noia. Il più delle volte i moralisti con le loro sussiegose citazioni cercano solo un paravento per la propria faziosità. Lo si capisce dal fatto che, con gli estratti che propongono alla nostra meditazione, pretendono di suscitare sentimenti diversi da quelli che pervadono, nel loro complesso, le opere da cui estraggono i brani. La tecnica di isolare una dichiarazione dal suo contesto per farle dire tutt’altro è vecchia come il mondo. Le “anime belle” – che non sono poi così belle come vorrebbero far credere – contano sull’ignoranza di chi non conosce l’originale (non si può mica aver letto tutto!) e cercano di far apparire profetico ciò che l’autore aveva scritto con tutt’altre intenzioni.

    Per esempio, leggendo Tacito (tutto quanto) ci sarebbe semmai da pensare che i politici contemporanei siano dei seminaristi. Per quanto depravato appaia il costume politico dei giorni nostri, possiamo ritenerci favoriti dalla sorte in confronto con l’orgia di omicidi scatenata dai primi imperatori. Usare le cronache dei tempi di Tiberio e Nerone per deplorare la corruzione dei giorni nostri è una stupidaggine che non fa neanche ridere.

    Quando Tacito comincia a narrare la storia di Roma, lo stato è appena uscito da una serie di guerre civili sanguinose. Augusto ha garantito decennii di pace con la sua personale autorevolezza. Ma ormai è morto, e Tiberio non ha neanche un decimo del suo carisma. Qual è il passato che i Romani hanno alle spalle? Le tre generazioni precedenti hanno visto Mario e Silla che si sono combattuti con ferocia, Cesare e Pompeo che hanno fatto altrettanto, Antonio e Augusto che hanno applicato su vasta scala il metodo delle liste di proscrizione. Ogni guerra civile ha spinto un po’ più in là il malcostume nella lotta politica, e per malcostume non si intendono le bustarelle, gli appalti, la corruzione e lo sfacciato uso del potere, ma l’omicidio sistematico.

    Ormai questo era l’andazzo. Alla morte di Augusto c’era da aspettarsi che ricominciassero le guerre civili e i bagni di sangue. Cosa poteva fare Tiberio, cosa potevano fare i suoi successori, se non tenere in pugno lo stato con ogni mezzo, inventando il delitto di lesa maestà, stroncando sul nascere anche i semplici sospetti? E come potevano evitare la paranoia? La successione degli imperatori non era affatto pacifica. Non esisteva una legge dinastica. C’erano fratelli e cugini che aspiravano al principato. C’erano gli intrighi delle donne, i veleni, le congiure. C’erano centinaia di senatori ambiziosi. L’unica tecnica valida era l’antico mors tua, vita mea.

    Tacito registra gli omicidi e le ingiustizie, si lamenta, deplora, si indigna. Ma non indulge ai toni da “anima bella”. Quando si indigna non se la prende con Tizio o Caio ma con il fatto di vivere in un periodo in cui le cose vanno così (e non potrebbero andare altrimenti). Non si nasconde che questa è la situazione in cui i Romani si sono cacciati. È colpa loro, e sta a loro tirarsene fuori, se mai ci riusciranno.

    Inutile dire che Tacito è pessimista, ma ne ha ben donde, visto che conosce bene la natura umana. I moralisti, che sembrano vivere nell’iperuranio delle idee platoniche, quando la realtà fa a pugni con i loro modelli semplicemente fingono di ignorarla. Tacito, invece, resta attaccato alla realtà effettuale della cosa (come direbbe Machiavelli). E ce lo dice apertamente.

    Chissà perché le “anime belle” non citano mai questo passo:

 

    Tutte le nazioni e le città sono rette o dal popolo o dai potenti o da un monarca. Un misto di queste forme di governo sarebbe magari encomiabile ma è difficile da mettere in pratica e se mai si verificasse durerebbe ben poco.

    Una volta, quando la plebe era forte, bisognava conoscere la natura della folla e i mezzi adatti per tenerla a bada. Quando l’iniziativa passava ai patrizi, ci volevano saggezza ed esperienza per intuire gli umori del senato. Ora che Roma è diventata di fatto una monarchia, mi sembra il caso di riferire i fatti e tramandarne il ricordo perché, a dir le cose come stanno, pochi sanno distinguere le cose oneste da quelle deplorevoli e le cose importanti dalle baggianate: di solito la massa segue bovinamente ciò che dicono gli altri.

    D’altra parte, più una cosa è utile meno risulta piacevole. I racconti di viaggi o di battaglie, la morte di condottieri famosi: queste sono le cose che invogliano i lettori e li fanno continuare a leggere. Invece a me toccherà raccontare di ordini scellerati, false accuse, false amicizie, rovine di innocenti; e tutto questo, cause ed effetti, fino alla sazietà. 

 

    Tacito – Annali – IV, 33 – traduzione mia

 

                                            Genio e banalità

 

    La connotazione più sorprendente del genio è la capacità di rigenerare la banalità, di farle ritrovare senso. Fateci caso: i grandi non rifuggono dalla banalità. Omero fa litigare gli dei come bambini viziati. Virgilio, Dante e Shakespeare usano spesso effetti da grand guignol. Goethe manda Faust fuori misura spesso e volentieri. Balzac carica gli effettacci. Tolstoi è didascalico. Joyce è pedante (e non entriamo nella questione se sia davvero un genio oppure no: riparliamone fra un paio di secoli). 

    E non solo: la rigenerazione del banale non è una privativa della letteratura. Picasso ha parodiato se stesso mille volte, Bernini è arrivato quasi a prefigurare il pompier, Canova non ha risparmiato in compiaciute leziosaggini e, tanto per uscire dal seminato artistico, Robespierre non ha mai rinunciato alla parrucca incipriata, Mosé faceva trucchi e magie da prestigiatore, Napoleone portava e tollerava gigantesche corna borghesi. Eccetera eccetera.

    Perché ammiriamo questi uomini? Perché li chiamiamo genii? Solo perché hanno fatto questo e quello, oppure anche (parafrasando Machiavelli) perchè hanno saputo intrare nella banalità, necessitati?

    Parliamoci chiaro: le corna possono toccare a tutti, ma Napoleone oltre a portarle le ha messe a frutto meglio di chiunque altro. Mosè non si è vergognato di usare i trucchi praticati dai maghi del faraone: li ha battuti sul loro terreno. Robespierre è rimasto attaccato alla moda dell’ancien régime perché non se ne curava: aveva da pensare a tagliar teste. E così Canova scolpì una farfalla anche se la cosa aveva senso solo come sfoggio di tecnica, e lui lo sapeva; Bernini attorcigliò le colonne e appesantì la gloria di San Pietro anche se capiva di fare più che altro scenografia, Picasso compose una testa di toro con un sellino e un manubrio di bicicletta ridendo dei cretini che l’avrebbero pagata milioni. Allo stesso modo Joyce affetta pedanteria per fare il verso ai pedanti veri, Tolstoi fa il didascalico per calibrare la testardaggine di Levin con la progressiva perdita di controllo di Anna Karenina, Balzac sottolinea gli effetti perché la voglia di esagerazione fa parte della commedia umana a Parigi nella prima metà dell’Ottocento, Faust avrebbe poco da dire se non ci fossero le banalità delle due Notti di Valpurga, Omero e Virgilio ci accompagnano agli inferi per metterci sotto gli occhi l’ingenuità con cui immaginiamo di scontare i nostri peccati.

    Tutto questo discorso per arrivare a Mahler e alla sua seconda sinfonia. Il trionfo della banalità, ha detto qualche critico. Una musica turgida, fatta per épater le bourgeois, l’equivalente sinfonico del liberty, dell’art déco, degli sproloqui dannunziani.

    Eppure, le stroncature alla seconda sinfonia di Mahler sono il miglior esempio di quanto sia inutile il critico che applica ciecamente un paradigma. C’è niente da fare: anche quando si dice paladino di una letteratura o di una musica “fatta per il pubblico”, il critico non rinuncia a guardarci altezzosamente se usciamo dai suoi canoni e ci taccia di banalità. A volte viene da domandarci se abbiamo ascoltato (letto, visto) la stessa cosa, ed è davvero sconfortante pensare che persone colte e intelligenti non riescano a vedere ciò che hanno sotto il naso.

    Ma perché i critici non dicono le cose come stanno? La musica di Mahler contiene delle banalità? Certamente. Molte più di quante se ne possano trovare in Brahms, Strauss o Reger, tanto per dire i primi che mi vengono in mente. Ma la banalità in Mahler è programmatica almeno quanto in Berlioz e in Liszt. E compare “al posto giusto”? Sì. Indiscutibilmente sì. A questo punto il critico si fa ancora più sprezzante e comincia a sostenere che la banalità non ha “posti giusti” dove stare.

    E invece non è vero! Si può fare Arte con la A maiuscola anche con le banalità. A volte è perfino indispensabile: per esempio, quando l’ispirazione inclina al grottesco. Pensateci: la descrizione degli inferi d’après Virgilio è così banale che dovrebbe indurci a buttare nel cesso l’intera Eneide. E per qualcuno l’Inno alla gioia potrebbe essere motivo sufficiente per fare a meno della Nona di Beethoven.

    Come ho sostenuto altre volte (e continuo a sostenere perché ne sono convinto), l’arte non si riconosce dai mezzi che usa, ma dall’effetto che ottiene. E l’effetto dipende dal talento dell’autore. Con le banalità si può comporre una canzonetta qualunque oppure un capolavoro del grottesco come lo Scherzo della seconda sinfonia di Mahler (derivato dal lied “Sermone di sant’Antonio ai pesci”). Con le banalità si può scrivere un romanzo Harmony o i Promessi sposi.

    Personalmente ho scoperto Mahler più di quarant’anni fa. Ricordo che rimasi sbigottito dall’attacco della prima sinfonia (“Il titano”), un attacco ctonio, o addirittura galattico, così mi parve, seguito dalla per me incongrua musica primaverile e dalle ancora più incongrue entrate del cucù. Mahler è così: prevedibile e imprevedibile, come la realtà, come la vita.   

    La seconda sinfonia (“Resurrezione”) coincide con la conversione di Mahler al cristianesimo. Conversione criticatissima. Si disse (e si dice) che fu motivata dal fatto che solo convertendosi un ebreo come lui poteva sperare di essere nominato Generalmusikdirektor; così come si disse (e si dice) che il matrimonio con Alma Schindler servì a Mahler per essere introdotto nei giri che contavano. Sarà. Le scelte di vita raramente dipendono da un solo motivo.

    Fatto sta che Mahler finì per amare Alma disperatamente, pur sapendo che lei lo tradiva e pur tradendola anche lui. Un amore coniugale travagliato ma sincero.

    E fatto sta che la seconda sinfonia narra il terrore della morte, il rimpianto per i sogni di felicità, la disillusione per tante scelte sbagliate, lo sgomento di fronte alla realtà del trapasso, il Giudizio e il trionfo finale della Speranza. Ascoltatela. Una conversione non sincera difficilmente avrebbe ispirato qualcosa del genere. È la sincerità che impone di fare anche scelte “facili”. Quando la sete è vera si chiede acqua, non champagne. (Ecco: anche questa è una banalità, ma sospetto che sia al posto giusto).

    E dunque i critici continuino pure a pretendere che l’arte viaggi entro i binari dei loro paradigmi. I critici passano, l’arte resta.

 

                                                     L’insofferente

 

    Alcuni anni fa su un blog che ormai non esiste più, Franz Krauspenhaar istituì un post aperto, intitolato “Hanno rotto il cazzo”, nel quale ognuno poteva inserirsi dichiarando chi (come e perché) gli era assolutamente insopportabile.

    D’accordo: Franz non è precisamente un campione di bon ton, ma riconosco che anch’io periodicamente vengo assalito dal desiderio di rimettere in auge questo tipo di post. Come sanno i pochi eletti che frequentano Merlincocai, qui non si fa politica. Avendo vissuto il ’68 e avendo visto tutto ciò che è venuto dopo, ho letteralmente perso la fede nella politica. Le uniche indignazioni che ancora mi scuotono riguardano la malafede di chi infila propaganda politica dappertutto, a torto e a traverso.

    Passi per Santoro, Floris e Vespa, che sono dichiaratamente di parte: uno se vuole li guarda, se no va a cercarsi un film. Ma che cosa dovrei pensare di Fabio Fazio e dei suoi ineffabili sorrisi da furbetto del quartierino? I telegiornali di RaiTre e RaiUno sono schierati? Eccome; ma che dire di certi servizi di Canale 5 e di certi altri de La7? E che cosa dovrei pensare di quell’insopportabile padreterno di Mirabella, che non si trattiene dal fare propaganda anche in una trasmissione come Elisir? E come mai Rete 4 a ogni minimo sospetto di elezioni mette in palinsesto tutta la saga di don Camillo?

    Per non parlare dei comici. Ma quali comici? I comici dovrebbero far ridere. Io ci riesco solo con Ale e Franz (e neanche sempre). La Littizzetto vorrebbe provocare ma non ha niente da dire e riesce perfino a farsi sovrastare da Fazio (il che è tutto dire). Per parlare di Crozza basta il titolo del libro di sua moglie: “Ho sposato un deficiente”. I due delle Iene (non ricordo neanche come si chiamano) mi fanno venire il latte ai ginocchi. Ma perché è morto Walter Chiari? Anche a novantanove anni di età saprebbe far ridere molto più di questi fessacchiotti. Per conto mio, tutta la banda dei sedicenti comici contemporanei dovrebbe essere condannata a vedere il sarchiapone tre volte al giorno vita natural durante.

    Basta. Mi sono rotto anche di far l’elenco di quelli che mi hanno stufato. (Antonella Clerici, per esempio, la farei bollita: gallina vecchia…) Ma posso chiudere con il mistero dei misteri: cosa avrà mai di speciale Benigni? Uno stupidissimo guitto che mi ritrovo fra i piedi fin da quando faceva “Televacca” (sommo esempio di buon gusto), e mai una volta che mi abbia fatto ridere. Sarà colpa mia. Sarò io che non arrivo a certi vertici. Ma se il massimo della comicità è strizzare i coglioni a Pippo Baudo, stiamo freschi.  

 

                                           Le mappe impossibili          

 

    Quasi tutti i misteri che riguardano l’Atlantide, i Templari, i Rosacroce, ecc. ecc. sono bufale. Ma non si tratta di invenzioni. La “bufalaggine” sta nel non distinguere i fatti dalle congetture o, peggio, nel costruire congetture su altre congetture. Però i fatti ci sono.

    Sembra che negli archivi del Vaticano esista una mappa delle Americhe anteriore al 1492. Già questo sarebbe un argomento degno di indagine, ma ancor più strabiliante è il fatto che quella mappa non è un unicum. In Valtellina c’è una casa patrizia con un affresco anteriore al 1492 in cui è effigiato il continente americano. A Istanbul si è trovata una mappa, la carta di Piri Reis, datata 1513 nella quale sono riportate le coste del Sudmerica e perfino di una parte dell’Antartide. Non mi meraviglierei se ci fossero in giro altre mappe “impossibili”.

    Confesso di aver sempre guardato con scetticismo all’idea che Colombo fosse davvero convinto di andare in Cina. Ci sono fior di testimonianze, comprese quelle fornite da lui stesso nei suoi scritti, che consentono di affermare senza tema di smentita almeno questo: Colombo non era un sognatore, ma un intrigante avventuriero, capacissimo di raccontare balle a marinai, scienziati, finanziatori, re e regine, e di dissimulare i suoi veri propositi.

    Fra i mille motivi che ritardarono l’impresa ci fu anche l’insistenza di Colombo nel chiedere compensi a valere sulle terre che avrebbe scoperto (e le nominava pure: India, Catai e Cipango). Colombo reclamava i titoli di Viceré delle Indie e di Ammiraglio dell’Oceano. Ma tutti quelli che avevano letto il Milione di Marco Polo (e non erano pochi) sapevano che in Cina e in Giappone c’erano potenti imperatori che non si sarebbero certo sottomessi al primo venuto con tre caravelle e un centinaio di uomini, neanche se costui li avesse convertiti alla fede cattolica. Tantomeno gli avrebbero lasciato in esclusiva lo sfruttamento delle miniere d’oro del Cipango.

    Tra l’altro, che questo favoloso Cipango fosse il Giappone è quantomeno dubbio. Non so quanto credito si possa dare ai documenti cinesi secondo i quali flotte imperiali avrebbero traversato l’Oceano Pacifico fino in America, dove avrebbero trovato oro a profusione (e quindi il leggendario Cipango sarebbe la California). Ma il fatto indiscutibile è che in Giappone di oro non ce n’è e non ce n’è mai stato.

    A me sembra probabile che Colombo abbia avuto notizia dell’esistenza di terre a metà strada fra l’Europa e la Cina. Non ho la più pallida idea di dove e come può averlo saputo, ma è abbastanza certo che Colombo abbia navigato anche a nord (pare fino in Islanda), ed è storicamente assodato che i vichinghi arrivarono fino in Groenlandia e sulle coste del Labrador. Volete che i marinai di lassù non ne conservassero memoria? E non solo: chiunque sia stato in Messico sa che un vichingo arrivò laggiù in epoca precolombiana, fu preso per un dio e ancora oggi è effigiato con i capelli rossi e gli occhi azzurri. Magari non era solo. Magari qualcuno dei suoi compagni riuscì a tornare indietro. E Colombo potrebbe aver raccolto narrazioni semileggendarie di queste imprese. Ma se l’ha fatto, non ne ha parlato con nessuno e non ne ha scritto una riga. Qualcuno ha addirittura ipotizzato che lo stesso Colombo sia stato in America prima del 1492. Ma non c’è uno straccio di prova. Sono soltanto congetture.

    Non sono uno studioso dell’argomento, neanche a livello dilettantesco, però mi piacerebbe trovare un appiglio per proporre l’ipotesi: e se Colombo avesse saputo che la Cina e l’India erano tremendamente lontane e non aveva senso cercare di raggiungerle facendo rotta a ponente, ma che lungo la strada c’erano terre che valeva la pena di andare a conquistare?

    Colombo seguì una rotta all’andata e un’altra al ritorno. Sono stati immaginati mille diversi motivi per la scelta di queste rotte ma, anche qui, non esiste uno straccio di prova. Guarda caso, la rotta dell’andata era la migliore per sfruttare i venti prevalenti nella stagione. All’andata Colombo sfruttò i venti alisei, al ritorno cercò di sfruttare la corrente del golfo. Come faceva a sapere che gli alisei avrebbero soffiato fino all’altro capo dell’oceano? Come sapeva che la corrente del golfo proveniva dal Centroamerica? Qualcuno aveva già navigato nell’Atlantico prima di lui? La domanda mi sembra lecita, e una risposta non c’è.

    Se poi apriamo l’orizzonte sulla situazione geopolitica del medioevo, le domande si moltiplicano. Ben prima dell’impresa di Colombo, la Chiesa e i regni di Castiglia e di Aragona si legarono con un’alleanza strettissima alla quale tennero fede per secoli, non soltanto finché Madrid fu caput mundi ma anche in seguito, quando decadde e passo passo si ritirò da tutti i possedimenti d’oltremare. L’alleanza nacque con lo scopo di cacciare gli Arabi dalla penisola iberica e, quindi, dall’Europa? Probabilmente. Ma l’ultimo regno arabo di Andalusia cadde nel 1492, pochi mesi prima che Colombo partisse da Palos. Come mai l’alleanza tra Spagna e Chiesa continuò fino al secolo scorso? Le alleanze, si sa, durano finché sono utili a tutti e due i contraenti.

    E se ci fosse stato dell’altro? Se il Papa (grazie alla famosa mappa “impossibile”) avesse saputo dell’esistenza dell’America e avesse cominciato fin dalla caduta di Costantinopoli (1453) a mettere le basi politiche per i viaggi transoceanici? Dal punto di vista del Papa, Venezia doveva tenere a bada l’Oriente, e non era neanche un alleato di cui si fidasse gran che. Per esplorare l’oceano ci voleva un solido alleato a ovest. E una volta conquistate nuove terre c’erano da convertire gli abitanti e mantenerli nella nuova fede. Era fondamentale che Stato e Chiesa marciassero compatti: anche se lo Stato avesse perso peso politico, avrebbe mantenuto una egemonia culturale.

    È necessario ripetere che queste sono tutte congetture, e congetture ex post? Ma i fatti, da soli, non si spiegano. Mi piacerebbe domandare agli archivisti vaticani fino a che punto Roma era al corrente delle esplorazioni oceaniche nel XIII e XIV secolo. Ma Roma non risponde e noi fermiamoci qui, altrimenti qualcuno comincia a tirare in ballo i Templari, e appena si scrive o si pronuncia questo nome le congetture partono per la tangente.

    Il fatto inspiegato e per ora inspiegabile è che le carte e gli affreschi di cui sopra esistono davvero. Qualcuno (a Roma, a Madrid, forse anche a Innsbruck) sa come stanno le cose ma si guarda bene dal dirlo. Come mai?    

 

                                               Don Cristobal

 

    È impossibile leggere una biografia di Cristoforo Colombo (una qualunque delle tante che si sono scritte) senza imbattersi in un centinaio di pagine dedicate al problema delle sue origini. Chi lo fa genovese, chi lo fa catalano, galiziano, portoghese, ebreo. Questo post è dedicato a distinguere le tesi probabili dai wishful thinkings.

    In Italia nessuno dubita che Colombo fosse genovese. Esistono fior di documenti che attestano l’esistenza a Genova di un Cristoforo Colombo e dei suoi fratelli Bartolomeo e Giacomo, figli di Domenico, tessitore e taverniere, uomo di terra, tutt’altro che benestante, e incline a far debiti. Ma nessun documento certifica che quel Cristoforo Colombo sia lo stesso che scoprì l’America.  

    Invece in Spagna pochi dubitano che Cristobal Colon fosse spagnolo. E i principali motivi che adducono sono questi: 1) Colon non ha mai scritto una riga in italiano, né è mai stato sentito parlare italiano. Tutti i suoi scritti sono in spagnolo o in latino. Di più: il suo spagnolo presenta solecismi portoghesi e il suo latino gli errori tipici di chi è di madrelingua spagnola. 2) Colon si è firmato a volte Colom, ma mai Colombo. E il cognome Colom è piuttosto frequente in Catalogna.

    Salvador de Madariaga ha tentato di conciliare le due tesi proponendo un Cristoforo Colombo proveniente da una famiglia di ebrei spagnoli convertiti, fuggita dalla Spagna dopo i pogrom del 1391 e stabilitasi a Genova conservando la lingua spagnola nei rapporti familiari. Ma questa tesi, che pure risolverebbe molte incongruenze, è del tutto congetturale e manca di riscontri.

    Esiste poi una tesi secondo cui Colombo sarebbe ebreo, ma solo per parte di madre. La madre di Colombo si chiamava Susanna Fontanarossa (o Fonterossa), figlia di un tal Giacomo, abitante in contrada Bisagno. Esiste un documento in cui Bartolomeo Colombo si firma Colonus de Terrarubra e, per inciso, questo è uno dei rari legami fra il Colombo di Spagna e quello di Genova. Ora: che Susanna sia un nome frequente fra gli ebrei e raro fra i gentili è vero; ma mi sembra un po’ poco per costruirci sopra una ipotesi sensata.

    Esiste anche una teoria secondo cui Cristoforo sarebbe figlio illegittimo di un certo Palestrello, nobile piacentino. Susanna l’avrebbe avuto prima di maritarsi con Domenico Colombo. Ci tornerò sopra. Per ora mi limito a far notare che anche per questa tesi i documenti sono pochi e ambigui.  

    Ricapitolando: la forza della tesi genovese sta nella documentazione: a Genova sono stati trovati documenti in abbondanza, altrove neanche uno. Ma che Colombo non abbia mai scritto una riga in italiano è un fatto, e questa è la forza delle tesi spagnole.

    A me sembra plausibile che il Cristoforo Colombo scopritore dell’America sia quello di Genova soprattutto per due motivi: 1) perché i nomi dei fratelli corrispondono: Bartolomeo (Bartolomé) e Giacomo (Diego). E 2) perché, se Colon fosse stato spagnolo, una volta avvenuto il descubrimiento i parenti fino ai prozii e ai terzi cugini sarebbero saltati fuori a centinaia mendicando raccomandazioni, un posto a corte o una fattoria nel nuovo mondo; e figuriamoci se la città o il villaggio natale non avrebbe rivendicato onori e privilegi reali. Invece gli onori e i proventi dell’impresa furono divisi soltanto con i fratelli e i figli, e nessuna città spagnola ha mai rivendicato l’onore di aver dato i natali a Cristobal Colon.

    Ma come mai Colombo non ha mai scritto una riga in italiano?

    La spiegazione è forse difficile da credere per uno straniero, ma per noi è comprensibilissima: nel 1451 italiano non era nessuno. La lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio era semplicemente il dialetto dei fiorentini. Colombo, più che italiano, era genovese! Certo, al porto di Genova capitavano pisani e lucchesi, come anche napoletani, greci, turchi e marsigliesi, e ci si intendeva con tutti aiutandosi con la gestualità; ma i genovesi fra loro non parlavano italiano (non lo fanno neanche oggi!). Il dialetto xenese non si insegnava, non si scriveva e ha suoni di problematica traslitterazione. Cristoforo Colombo parlò sicuramente xenese da ragazzo, ma non imparò mai a scriverlo. Non lo faceva nessuno. E non parlò mai il dialetto fiorentino. Perché avrebbe dovuto?

    Sicuramente imparò a leggere e scrivere in latino. Glielo avrà insegnato qualche prete perché a quei tempi le scuole non esistevano. Si imbarcò a quattordici anni (più o meno), probabilmente per sfuggire alla vita noiosa e meschina che poteva offrirgli un padre senza arte né parte come il suo, ma anche per spirito di avventura, che non manca a nessun adolescente. Doveva essere più o meno il 1465. Costantinopoli era caduta in mano ai turchi da dodici anni: la via delle spezie era chiusa e gli armatori genovesi erano alla disperata ricerca di altre rotte. Bisognava trovare una nuova via per le Indie circumnavigando l’Africa o aprendo un’altra strada. In un modo o nell’altro, Spagna e Portogallo erano passaggi obbligati e parlare spagnolo era un grosso atout.

    Cristoforo Colombo si imbarcò con un armatore genovese che commerciava con la Spagna o forse addirittura con un armatore spagnolo, e una volta a bordo si trovò in full immersion spagnola: imparò la lingua, lesse libri in spagnolo, ascoltò dai nostromi le leggende marinare dell’oceano. Fra il 1465, anno in cui si imbarca, e il 13 agosto 1476, giorno in cui fa naufragio al largo di Cabo San Vicente, matura il progetto di navigare a occidente fino a incontrare terra ferma. 

 

                                               Marinaio e corsaro

 

    A Noli (SV), nella Loggia della Repubblica Nolese, c’è una lapide che ricorda il passaggio di Cristoforo Colombo il 31 maggio 1476. Vi si legge che Colombo passò da Noli con una flottiglia di cinque navi della Repubblica di Genova in viaggio verso l’Olanda. Ma quella lapide è stata posta lì nel 1948 ed è piuttosto ambigua, se non addirittura menzognera. Non cita i documenti da cui proverrebbe l’informazione. Lascia intendere che Colombo fosse a capo della flottiglia, ma non lo afferma a chiare lettere. Dice che le navi erano della Repubblica di Genova, ma non dice cosa andavano a fare in Olanda. Senza contare che a quei tempi gli armatori erano privati cittadini ed è problematico che la Repubblica abbia noleggiato cinque navi (per chissà quale scopo) e le abbia affidate a un venticinquenne come Colombo, che era nato nel 1451. Probabilmente si trattava di un convoglio organizzato da diversi armatori. Personalmente dubito perfino che Cristoforo Colombo fosse a bordo di una di quelle navi.

    L’unica cosa credibile nella lapide nolese è la data: 31 maggio 1476. Anche senza far ricerche negli archivi, è probabile che cinque navi provenienti da Genova abbiano fatto scalo a Noli in quella data. È noto (e ne parla la stessa lapide) che il 13 agosto cinque navi genovesi furono attaccate al largo di Cabo San Vicente (l’estremità sudoccidentale del Portogallo). Nello scontro una nave andò a fuoco: una nave genovese o una nave pirata? Non si sa. Si sa che su quella nave era imbarcato Colombo. Lo racconta lui stesso in una lettera, senza dire da che parte aveva combattuto. Il futuro Ammiraglio salvò la pelle nuotando fino a riva e aggrappandosi a un remo come salvagente.

    I colombisti non si sono ancora messi d’accordo su questo piccolo particolare: Cristoforo Colombo combatteva per Genova o contro Genova? Secondo quel che lascia capire lui stesso nelle sue lettere, era agli ordini di un ammiraglio francese che i colombisti identificano in un certo Guillaume de Casenove-Coullon, mercenario e corsaro. Ma Colombo è attentissimo a non rivelare per chi combatteva. Forse all’epoca dei fatti era più facile capirlo, soprattutto per spagnoli e portoghesi. Oggi quelle lettere suonano sibilline. 

    Insomma, la domanda resta: cosa ha combinato Cristoforo Colombo dal 1465, quando si imbarca per la prima volta, fino al 1476 quando arriva a nuoto sulle coste portoghesi?

    Documenti ce ne sono pochi. A lume di buon senso, ma senza prove, si può pensare che: 1) Colombo si sia imbarcato fin dal primo viaggio sulle navi di un armatore che commerciava con Spagna e Portogallo, 2) che quell’armatore fosse sì un commerciante, ma anche un corsaro.

    Perché la Spagna? Perché fin dal suo primo imbarco Colombo impara a parlare e scrivere in castigliano, resta in full immersion spagnola e adotta il castigliano come lingua madre. A questo proposito è sintomatica una lettera al Banco di San Giorgio di Genova datata 2 aprile 1502, lettera controversa perchè Colombo da un lato dichiara la sua origine genovese (Bien que el cuerpo ande acà, el corazon està alì de continuo), dall’altro scrive in castigliano. Ai colombisti spagnoli non fa piacere che Colombo si dichiari genovese e vorrebbero negare l’autenticità della lettera: il loro argomento è che, se Colombo fosse stato genovese, avrebbe scritto in italiano.

    Ma, come ho fatto notare nel post precedente, lo xenese non è una lingua scritta: è un dialetto, un’inflessione, una cadenza che ha origine dalla langue d’oc ed è affine al provenzale, al catalano, al valenzano. Si può quasi dire che da La Spezia a Cartagena si parlino mille dialetti di una stessa lingua. Certo, chi aveva possedimenti nell’entroterra ligure e chi aveva rapporti continui con il resto della penisola avrà saputo leggere e scrivere in un volgare italiano meno dialettale. Un Doria, un Fieschi, uno Spinola avranno magari scritto in volgare toscano quando corrispondevano con Ludovico il Moro, con Cosimo de’ Medici, col Papa. Ma uno scugnizzo imbarcato a quattordici anni cosa volete che sapesse? Credo che Colombo non abbia mai conosciuto la Divina Commedia. Se avesse letto il “folle volo” dell’Ulisse dantesco, forse non sarebbe mai andato in America.

    D’altra parte, quando scrisse quella lettera, Colombo non era più un signor nessuno. A dieci anni dalla sua impresa, era il muy magnifico señor don Cristobal Colon, Caballero de espuelas doradas, Almirante mayor de la mar Oceana y Visorrey de las Indias. Era un “pezzo grosso” della corte di Spagna (e non era affatto in disgrazia: semplicemente, gli era stato tolto il governo del nuovo mondo dopo la pessima prova che aveva dato come governante). Quindi era logico che scrivesse in castigliano.

    Ancora: perché Colombo deve aver avuto rapporti con il Portogallo? Dopo il naufragio di Cabo San Vicente, Colombo va a Lisbona (perché?) dove ritrova suo fratello minore Bartolomeo (come mai era lì?).

    Evidentemente Cristoforo deve essere già bene introdotto a Lisbona. Tanto è vero che due anni dopo si sposa, e non con una lavandaia, ma con Felipa Muniz Perestrello, che appartiene a una famiglia conosciuta a corte. A me sembra chiaro che già prima del 1476 Cristoforo e Bartolomeo avevano allacciato rapporti piuttosto solidi a Lisbona.

    Ma perché Colombo deve aver fatto il corsaro? Perché non poteva fare altro. A quei tempi la pirateria non era affatto disdicevole. Il mare era come la foresta nelle commedie di Shakespeare: una terra di nessuno in cui era facile perdersi e, una volta che ti ci mettevi, eri soggetto alla legge “pesce grosso mangia pesce piccolo”. Il Mediterraneo non era un lago di pace: i pirati mori saccheggiavano le coste europee, Andrea Doria combatteva contro il pirata Dragut, Carlo V mandava una flotta contro il pirata Barbarossa. Fino a Lepanto, navigare nel Mediterraneo fu più una cosa da soldati che da mercanti. E gli italiani non erano meglio dei turchi: nel tredicesimo secolo i veneziani avevano compiuto la più brillante operazione di pirateria di tutti i tempi saccheggiando nientemeno che Costantinopoli.

    Dunque Colombo comincia a viaggiare su navi che, oltre a portare merci a Siviglia e a Lisbona, lungo la strada abbordano navi indifese. Più tardi trasporta armi e truppe per Renato d’Angiò, che conduce una sfortunata guerra dinastica per la successione al trono di Aragona. Questa avventura, insieme al naufragio di Cabo San Vicente, è tutto ciò che conosciamo delle prime esperienze marinare del nostro eroe. Ne parla lui stesso, per brevi accenni, nelle sue lettere. E quel che si può concluderne è che Cristoforo Colombo per dodici anni combatte sul mare, con la Spagna e contro la Spagna, per Genova e contro Genova. È corsaro e mercenario. 

    Personalmente, pur senza prove, sono convinto che Colombo abbia fatto base a Lisbona fin dai primi anni 70 (forse anche prima) e da allora in poi abbia navigato come corsaro al servizio della corona portoghese. L’unico documento in proposito è l’accenno di un cronista dell’epoca secondo il quale Cristoforo era arrivato in Portogallo prima di Bartolomeo. Ma l’idea non è peregrina: nel 1476, quando Cristoforo fa naufragio a Cabo San Vicente, Bartolomeo ha sedici anni. È difficile immaginare che un ragazzo di sedici anni venuto da Genova (come? quando? con quali appoggi?) sia così ben sistemato a Lisbona da poter accogliere un fratello che si presenta lì per la prima volta, naufrago e senza il becco di un quattrino. È più logico pensare a un Cristoforo Colombo corsaro e mercenario che intorno al 1470 trova un “impiego” presso il re del Portogallo e scrive al fratello Bartolomeo di raggiungerlo a Lisbona. Bartolomeo viene e per vivere deve trovarsi un’occupazione. Quando i due fratelli si ritrovano dopo il naufragio di Cristoforo, Bartolomeo campa disegnando carte nautiche e portolani. Come si è procurato i clienti? Chi l’ha inserito nel “giro”? Non risulta che a Lisbona conoscesse qualcuno.  

    Sembra probabile che suo fratello gli abbia preparato la strada. Se è così, Cristoforo doveva essere stato a Lisbona piuttosto a lungo. E anche questo sembra ragionevole, perché in molte e diverse occasioni della sua vita risulta evidente che Colombo è introdotto alla corte portoghese ed è conosciuto personalmente dal re. È difficile immaginare che una Muniz Perestrello si sposi all’insaputa del sovrano. E il re non ha niente da dire se la figlia di due personaggi conosciuti a corte sposa uno sconosciuto straniero? Evidentemente Colombo non è uno sconosciuto.

    Insisto: non esistono prove, né a favore né contro, però sono convinto che Colombo fu introdotto a corte ben prima del 1476.

    Ma lo ripeto: le mie sono soltanto congetture.

 

                                           Da Piacenza a Lisbona

 

    Come ha fatto Cristoforo Colombo a “piazzarsi” a Lisbona la prima volta che c’è andato? E quando è stata la sua prima volta? Davvero è arrivato a Lisbona naufrago e senza un soldo in tasca, sperando che suo fratello gli desse una mano? Aveva conoscenze o rapporti d’affari con altri portoghesi? Aveva una lettera di presentazione da parte di qualche pezzo grosso? Aveva alle spalle una carriera di cui vantarsi? O è capitato lì senza arte né parte, ha dormito sotto i ponti e ha saltato i pasti mentre cercava un impiego purchessia?

    Bisogna ripetere e sottolineare che su questo argomento non esistono documenti di alcun genere. Anche i topi d’archivio più tenaci e insistenti non sono riusciti a trovare una lettera, un appunto, un qualsiasi pezzo di carta che getti luce sulla vita di Colombo prima del suo arrivo in Spagna nel convento di La Rabida. Le uniche cose certe del suo passato sono: un trasporto effettuato per Renato d’Angiò e la nuotata con cui, nel 1476, il futuro Ammiraglio si salva dal naufragio di Cabo San Vicente.

    Ebbene: cosa faceva Colombo al largo della costa portoghese? Veniva da Genova, al servizio della Repubblica, o faceva il corsaro per conto del re del Portogallo? Pur senza prove, sono convinto che Colombo si trovasse in Portogallo già da qualche anno e fosse imbarcato su navi corsare al servizio della corona portoghese quando, agli ordini di Guillaume de Casenove-Coullon, un comandante francese (corsaro e mercenario anche lui), assalì cinque navi genovesi e finì a mollo, costretto a nuotare per salvare la pelle. Sono convinto che Colombo facesse il pirata già da qualche anno, con base a Lisbona e con frequenti viaggi in Guinea, alle isole di Capo Verde, alle Azzorre, e forse anche nel Nord Europa.

    Nel 1478 o 79, non molto tempo dopo il suo naufragio, Cristoforo Colombo sposa Felipa Muniz, discendente per parte di madre da un pezzo grosso della Chiesa portoghese e per parte di padre da un Perestrello, appartenente a una famiglia di origini piacentine che aveva avuto parte nella scoperta dell’isola di Madera, ne manteneva una specie di governatorato ereditario ed era in ottimi rapporti con il re.

    È quasi incredibile che nessuno dei colombisti iberici si sia domandato come poteva un naufrago straniero, appena arrivato e letteralmente “con le pezze al culo”, fare un simile matrimonio. O meglio: nessuno se lo è domandato a chiare lettere, ma il dubbio deve essere venuto un po’ a tutti, visto che c’è chi ipotizza per Colombo una lontana parentela e un intrigo amoroso. Un Palestrello, nobile di Piacenza consanguineo dei Perestrello emigrati in Portogallo, avrebbe messo incinta Susanna Fontanarossa e in seguito l’avrebbe fatta sposare a Domenico Colombo, genovese.

    Naturalmente non esistono documenti. Gli unici agganci di questa tesi sono: 1) le pretese di Colombo di avere un’origine non ignobile ma misteriosa, 2) la frase di un cronista contemporaneo in cui si accenna all’oscurità delle origini di Colombo “per via dei disordini politici di quel tempo in Lombardia”, e naturalmente 3) il fatto che così si spiegherebbe come mai il naufrago Colombo riesca a frequentare casa Muniz-Perestrello. Ma l’aggancio 1) perde molto del suo peso di fronte alla fama di gran falador (cioè fanfarone e cacciaballe) del nostro eroe, l’aggancio 2) è poco significativo viste le conoscenze geografiche a dir poco approssimative dei cronisti lusitani dell’epoca, e l’aggancio 3) potrebbe avere molte altre spiegazioni.        

    Per conto mio, trovo che non sia necessario andare a immaginare una parentela illegittima. I rapporti economici e politici fra Genova e Milano (e quindi Piacenza) erano stretti. Niente di più facile che Colombo, in uno dei suoi primi viaggi da Genova a Lisbona, abbia portato, insieme ad altre, una lettera dei Palestrello di Piacenza ai Perestrello di Lisbona, che l’abbia recapitata personalmente e abbia coltivato la conoscenza fortuita, magari millantando qualche impresa, per introdursi a corte e ottenere un ingaggio o magari una licenza reale per esercitare commercio e pirateria. 

    In realtà, non serve neanche una ipotetica lettera. Basta semplicemente che Colombo, dopo qualche anno di avanti-e-indietro fra Genova e Lisbona, e dopo aver fatto il suo tirocinio da pirata, abbia trovato un imbarco su una nave corsara portoghese negli anni fra il 1470 e il 1473. Nei tre o quattro anni successivi può aver fatto una certa carriera (non molta, visto che nel 1476 era agli ordini di Casenove-Coullon e non è neanche detto che fosse al comando della nave andata a fuoco). In quei tre o quattro anni avrebbe avuto il tempo per conoscere i Perestrello, entrare in un “giro”, scrivere al fratello Bartolomeo di raggiungerlo a Lisbona, e raccogliere notizie sulla navigazione in Oceano. Il progetto di buscar el Levante por el Poniente prende corpo in quegli anni.

    Certo, Colombo a Lisbona non rimane con le mani in mano. Da buon avventuriero, ficca il naso dappertutto e intriga quanto può. Prima o dopo il 1476, è probabile che abbia copiato di nascosto la famosa mappa di Toscanelli depositata negli archivi reali. Quanto meno, in un modo o nell’altro, riesce a procurarsela. Di sicuro trova il modo di farsi notare a corte, visto che negli anni seguenti il re dom Joao II dimostra con fatti e con scritti di conoscere bene Cristoforo Colombo. Per esempio: una delle tante stranezze del descubrimiento è che al suo rientro dall’America Colombo approda a Lisbona (quando avrebbe potuto dirigere su Vigo o Pontevedra, come fece Pinzon), viene invitato a cena dal re, ci va, fa il gradasso rimproverandolo di non avergli creduto, dopodiché rientra tranquillamente a Cadice (e non risulta che i re di Spagna gli abbiano rimproverato questo suo strano comportamento).

                                                            ***

    Da come la vengo raccontando, è chiaro che secondo me la storia di Cristoforo Colombo è la storia di un avventuriero fortunato. Ma vi pare che nella scoperta dell’America qualcuno non avrebbe trovato il modo di mischiarci i Templari? E infatti eccoli qua.

    I Templari in Portogallo c’erano davvero. I Templari francesi erano stati dispersi da Filippo il Bello, ma quelli spagnoli si erano riciclati nell’ordine di Calatrava e quelli portoghesi nell’ordine dei Cavaleiros de Cristo. Può darsi che questi ultimi abbiano avuto qualche parte nelle spedizioni oceaniche: tutto il Portogallo era lanciato in questa avventura. Ma è incredibile che, avendo fatto chissà quali scoperte, le abbiano tenute segrete. Madera, le Azzorre, le isole del Capo Verde, una volta scoperte non rimasero segrete neanche un giorno. Come era possibile costringere al silenzio nostromi, gabbieri e mozzi? Come armare due o tre caravelle con equipaggi di soli cavalieri e senza marinai esperti? È assurdo immaginare che i Templari siano andati in America e nessuno l’abbia saputo.

    C’è però un fatto, questo sì misterioso, ma d’altro genere, che potrebbe coinvolgere i Templari e Cristoforo Colombo. Nel 1484, otto anni dopo il naufragio di Cabo San Vicente, mentre Colombo era in Portogallo e un po’ viaggiava, un po’ frequentava la corte, scoppiò un violento diverbio in seguito, pare, a un tentativo di colpo di stato. Andò a finire che, nientemeno, dom Joao II, re del Portogallo, pugnalò personalmente dom Diego de Viseu, undicesimo Governatore dei Cavaleiros de Cristo. Dopodiché “nazionalizzò” l’Ordine autonominandosi Governatore.

    In quell’anno (forse in quella stessa notte!) Colombo fugge dal Portogallo e ripara al monastero di La Rabida, vicino a Huelva, in Andalusia, dove viene favorevolmente accolto dai monaci e in particolare da frate Juan Perez.  

    È più che possibile che un intrufolone come Colombo si fosse compromesso con i Templari o addirittura con un progetto di colpo di stato. È una delle tante ipotesi ragionevoli per le quali non si troveranno mai prove a favore o contro. Ma che i Templari avessero scoperto l’America e invece di dirlo al re l’avessero detto a Colombo, be’, mi sembra dura da mandar giù.

 

                                         Roma, Lisbona, Madrid

 

    Non contento di una ipotetica discendenza da un nobile piacentino, c’è chi si spinge a ipotizzare (ipotizzare non costa niente!) una paternità ancora più nobile per Cristoforo Colombo: un re di Polonia detronizzato ed esiliato a Madera. Tanto varrebbe ipotizzare Colombo figlio naturale del Gran Khan. E non è escluso che qualcuno ci provi, prima o poi. Altri ancora giocano il tutto per tutto e tirano in ballo nientemeno che un Papa. Ma anche senza ipotesi fantasiose è un fatto che la Chiesa gioca un ruolo importante nella scoperta dell’America, un ruolo che in alcune segnalate circostanze diventa addirittura cruciale.

    È la Chiesa (nella persona di Alessandro VI, il famoso e famigerato papa Borgia) che, in seguito alla scoperta di Colombo, convoca Spagna e Portogallo a Tordesillas e impone la raya, il meridiano al di là del quale comincia la zona di influenza spagnola. È a seguito di questa mediazione che il Portogallo si concentra sulla via delle Indie attraverso la circumnavigazione dell’Africa (e mette le mani sul Brasile solo sfruttando la mancanza di strumenti validi per misurare la longitudine).

    Come sia riuscito il Papa a far digerire una simile diminutio capitis al re del Portogallo, giuro, non lo so. La controversia sulle zone di influenza oceanica sembrava fatta apposta per riattizzare la guerra che Portogallo e Castiglia si erano fatta fino pochi anni prima per via di una contestata successione dinastica. Invece niente. E ancor più strano è che il Papa sia riuscito a mantenere la concordia sulla base dell’accordo di Tordesillas anche in seguito, quando fu chiaro che a ovest c’era un intero continente da conquistare.

    Ma torniamo a Cristoforo Colombo. Nelle sue biografie vengono minimizzati due fatti importanti. Biografi e storici li citano perché non possono fingere di ignorarli, ma evitano accuratamente di trarne conclusioni.

    Uno è questo: tutti gli esami scientifici delle teorie di Colombo dimostravano che la sua misurazione delle distanze era cervellotica. La commissione di Salamanca fu molto chiara in proposito. Nonostante ciò, Fernando e Isabella non scacciarono mai definitivamente Colombo, non gli diedero mai del mentecatto e del venditore di fumo. Le ripetute figuracce sul piano scientifico non intaccarono mai la fiducia di re e regina in questo straniero ex corsaro, di oscure origini e con un ambiguo passato in Portogallo. Come mai?

    Il fatto è che questo profugo semisconosciuto aveva dalla sua una mezza dozzina tra vescovi, preti e frati, tutti introdotti a corte (e probabilmente anche in curia), tutti influenti, tutti pro-Colombo. Come se li era procurati? Dio solo lo sa. Solo Dio può sapere come mai Colombo, scappando dal Portogallo, va a parare proprio al convento di La Rabida. Ma è un fatto che da lì riparte per la sua scalata sociale. Qualcuno (magari il frate Juan Perez) lo presenta al duca di Medinaceli che lo prende a benvolere, lo trattiene presso di sé per due anni e lo introduce a corte, sempre sotto l’ala benevola di preti e vescovi.  

    I colombisti elencano questi patroni, li colmano di elogi, ne esaltano la dottrina, il buon senso, l’intuito, eccetera eccetera; ma non spiegano com’è possibile che gente abituata a frequentare la corte, a cavalcare intrighi e giochi di potere, si giochi la faccia per favorire i sogni di Colombo. Vescovi, preti e frati non sono autonomi, devono consultarsi con i rispettivi superiori (e il superiore di un vescovo è il Papa). Come mai a corte in quasi sei anni, e dopo che la commissione tecnica di Salamanca ne aveva ridicolizzato le teorie, nessuno, neanche un pretino o un fraticello, si schierò risolutamente contro Colombo? Lui stesso si lamentava nelle sue lettere che a corte erano in tanti a considerarlo un visionario e a ridergli dietro le spalle, ma un partito anti-Colombo non è mai esistito. Nessuno si è mai alzato a dire pubblicamente: “Maestà, non date retta a questo ciarlatano!”. È strano. Tanto più che nella Spagna di quei tempi non mancavano preti e vescovi dal giudizio franco e dai modi spicci. Avete presente un certo Torquemada?

   Seconda stranezza: nei primi mesi del 1492 Colombo aveva perso tutte le speranze. Tornò al monastero di La Rabida e cercò di rappacificarsi con il re del Portogallo. Dom Joao gli spedì un salvacondotto che ci è pervenuto, e costituisce un documento importante. Contemporaneamente, quasi per parare la mossa, Frate Juan Perez scrisse alla regina Isabella una lettera che è stata distrutta o è rimasta secretata. Non se ne conosce il contenuto, ma si sa per certo che fu scritta perché nel giro di quindici giorni, in risposta a quella lettera, la regina Isabella convocò a corte Colombo mandandogli perfino i soldi perché comperasse un vestito buono. Da quel momento tutto cambiò: non si discusse più se fare il viaggio o non farlo, ma solo i termini della ricompensa (come se ormai fosse acquisito che le terre c’erano e Colombo le avrebbe trovate).

    Che cosa era successo? Cosa c’era scritto in quella lettera? Visto l’effetto che produsse, doveva essere qualcosa di nuovo e di decisivo. Ma cosa poteva sapere di nuovo e di decisivo un frate di un monastero di Huelva? Doveva trattarsi di una notizia, o forse una conferma, appena arrivata. Ma una conferma di che?

    L’unica fonte di notizie marinare per Frate Juan Perez era Martin Alonso Pinzon, il “socio” di Colombo nell’avventura americana, frequentatore assiduo del monastero. Nel 1491 Pinzon era venuto a sapere qualcosa che l’aveva convinto a investire soldi e prestigio personale nel progetto di Colombo. Forse ne parlò a Juan Perez, magari in confessione. Forse Juan Perez non ci volle credere prima di avere delle conferme autorevoli.

    È ovvio che questa è una congettura anche più azzardata delle precedenti. Ma nei verbali di un processo in cui un figlio di Pinzon compare come testimone si è trovata questa dichiarazione:

    “…dichiara di sapere, in quanto figlio di Martin Alonso Pinzon, che suo padre trovandosi a Roma l’anno prima di partire per l’America e frequentando la biblioteca del Papa dove conosceva un cosmografo… fu da lui informato di queste terre ancora da scoprire”.

    Ecco che riappare la famosa “mappa impossibile” del Vaticano. E, si badi, non si parla di Catai o di India, ma di terre ancora da scoprire!

    Naturalmente, liberi tutti di pensare che il Papa non ne sapesse niente, o che pur sapendo tutto non ne avesse parlato ai re di Spagna, e che pur stando così le cose permettesse ai suoi cartografi di parlarne al primo venuto… eccetera eccetera. 

 

                               Insomma: chi era Cristoforo Colombo?

 

    E rieccoci qua: chi era Cristoforo Colombo? Un avventuriero? Senz’altro. Un cacciaballe? Spesso. Un impostore? Qualche volta. Un giocatore d’azzardo? Oh sì. Tirando le somme, direi che è stato né più né meno che uno dei tanti italiani che hanno girato il mondo disposti a tutto pur di arraffare soldi e gloria. Uno dei pochi che abbia avuto successo. 

    Era ebreo, era illegittimo, era figlio bastardo di un nobile, di un re in esilio, di un Papa in servizio permanente effettivo? E chi lo sa. Niente di più facile che sia nato da una “divagazione” della signora Susanna. Detto fra noi, il signor Domenico non doveva essere una cima. Eppure Cristoforo, almeno fino a un certo punto, gli volle bene: quando aveva diciotto anni e Domenico rischiò la bancarotta, si rese garante per i suoi debiti. Correva l’anno 1469, e il figlio marinaio pirata era già più ricco di suo padre.

    Da bambino, Cristoforo (come anche il fratello Bartolomeo) fu probabilmente uno scugnizzo sul tipo di Balilla, svelto di lingua e di ingegno, magari anche un po’ lazzarone, ma curioso, che preferiva inseguire un colpo di fortuna piuttosto che ingobbirsi sul telaio o gestire una taverna. Suo padre (vero o putativo) aveva provato tutti e due questi mestieri e non ne aveva ricavato gran che. Lui impara un po’ di latino e di aritmetica, legge libri, gira nel porto, ficca il naso qua e là, si informa. Nelle chiacchiere dei marinai coglie qualcosa che gli accende la fantasia: ci sono altre terre nell’Oceano, piene d’oro e di spezie. Il primo che le trova diventa come un re delle favole.

     Appena può si imbarca. E si dà da fare come corsaro e come intrigante pur di arrivare a parlare con un re. Finanziare una spedizione non è impossibile anche per un privato ma, una volta trovate le nuove terre da colonizzare, ci vuole la potenza di un regno per difenderle (e per garantire i diritti di sfruttamento). 

     Con i re di Spagna Colombo si vanta di aver navigato “in tutti i posti dove l’uomo è arrivato”. Questa frase ha fatto credere a qualcuno che Colombo in America ci fosse già stato. Ma è soltanto una vanteria. Certo, il nostro eroe ha navigato parecchio: conosce il Mediterraneo occidentale, le coste oceaniche africane, l’Inghilterra, l’Irlanda, forse anche la Groenlandia. Ha vissuto a Madera. È stato alle Canarie e alle Azzorre. In tutte le isole dell’Oceano ha interrogato i marinai del posto, ha domandato cosa c’era a ovest.

    Oltre a questo, insieme a suo fratello Bartolomeo che era cartografo, fa collezione di mappe. All’epoca, ne circolavano tante. Riportavano nomi arcani: Cipango, Antilha, le Sette Città, l’Atlantide. Si basavano su frasi pescate qua e là in Plinio e in Tolomeo, sui resoconti di Marco Polo e di altri viaggiatori, su vere e proprie leggende come l’Atlantide descritta da Platone, le profezie di Esdra, l’ultima Thule cantata da Seneca, la favola di sette vescovi andati a evangelizzare altrettante isole beate, eccetera eccetera.

    Di queste carte ne sono rimaste abbastanza per farcene un’idea: riportano la costa della Cina e una miriade di isole fra le quali, a grande distanza dalla costa, spicca una grande isola rettangolare: Cipango. Data la forma, non fa meraviglia che Colombo abbia creduto di identificare Cipango in Cuba. Una volta chiarito che non era Cuba, per secoli si è pensato che Cipango fosse il Giappone. Ma di oro in Giappone non ce n’è. Probabilmente Cipango era la costa della California.

    Resta da capire come mai Colombo sbagliò tanto grossolanamente la misura delle miglia corrispondenti a un grado terrestre e come mai rimase tenacemente aggrappato al suo errore anche quando gli venne dimostrato che la distanza per spostarsi di un grado era quasi il doppio di quanto diceva lui.

    Non credo che Colombo fosse un cretino e neanche un visionario. Mi sembra più probabile un’altra ipotesi: Colombo sapeva che la Cina era molto, molto più a ovest; ma sapeva pure che per la strada c’erano altre terre da conquistare. E siccome doveva promettere la Cina e le Indie per farsi autorizzare il viaggio, accorciò la lunghezza dei gradi per vendere il suo inganno. Non si fece scrupolo di ingannare i re, così come spesso aveva ingannato i marinai, pur di raggiungere il suo scopo.

    Ma come sapeva dell’esistenza di altre terre?     

    Come lo sapevano tutti: dai racconti di chi c’era stato. Perché in America c’erano già andati altri.

    I Portoghesi scoprirono e popolarono le Azzorre quando Colombo non era ancora nato. Ma di queste isole si parlava già da un paio di secoli. Ci sono carte catalane del XIII secolo che le riportano. Evidentemente, qualcuno c’era stato, era tornato e ne aveva parlato. La cosa non aveva avuto seguito, forse perché non valeva la pena di viaggiare in mezzo all’Oceano per andare su isole spopolate dove non c’era niente da guadagnare. Ma, partendo dalle Azzorre, i Portoghesi andarono a pescare sempre più a ovest fino ai banchi di Terranova. Quando ci arrivarono? E chi lo sa. Una voce incontrollata (e incontrollabile) narra di alcuni naviganti che, in fin di vita, sarebbero rientrati alle Azzorre da un viaggio nell’ignoto e sarebbero sopravvissuti solo quei pochi giorni necessari per dire a Colombo – provvidenzialmente lì a riceverli – dove stava il continente perduto.

    Ma lasciando da parte tutto ciò che suona a leggenda, è un fatto che i Vichinghi toccarono il Labrador prima dell’anno mille, stabilirono basi in Groenlandia e vennero a contatto con gli Inuit, gente dai tratti somatici mongoli, che poteva essere presa per cinese. Racconti e leggende su questi viaggi circolarono per secoli nell’ambiente dei marinai nordici. Nel Portogallo di fine Quattrocento non erano storie ignote ed erano in molti a pensare che l’oceano nascondesse terre ancora da scoprire; il problema non era tanto andare a trovarle, quanto tornare indietro a raccontarlo.

    Dunque, di mappe con l’indicazione di Cipango, delle coste della Cina e dell’isola di Taprobana, ce n’erano tante; ma erano favoleggiamenti, variazioni sul tema del “Milione”. Invece la mappa conservata in Vaticano e l’affresco valtellinese contengono qualcosa di più: l’indicazione delle coste di un nuovo continente. Questo è il mistero inspiegato. Qualcuno (si parla di un marinaio veneziano) era andato fin laggiù, aveva esplorato, era tornato e aveva confidato la sua scoperta al Papa, che l’aveva vincolato al segreto? Forse Colombo ne sapeva qualcosa, ma non era nel suo interesse parlarne. Il re del Portogallo doveva esserne all’oscuro, altrimenti avrebbe autorizzato il viaggio di Colombo (o ne avrebbe organizzato uno per conto suo). Forse il Papa ne parlò ai re di Spagna; i quali, una volta conquistato il Nuovo Mondo, era logico che non dicessero niente a nessuno. Però il Vaticano avrebbe potuto aprire i suoi archivi, e Dio sa perché non l’ha mai fatto.

    Non ho uno straccio di appiglio per dimostrarlo, ma nessuno mi leverà mai dalla testa che Colombo (ci fosse di mezzo o no il Papa) sapeva che prima di arrivare in Cina avrebbe trovato sulla sua strada molte isole e un intero continente. Il viaggio era fattibile con i mezzi di cui disponeva.

    Sono convinto che Colombo avesse un’idea abbastanza precisa di dove andava e di cosa avrebbe trovato. Era un avventuriero, non un sognatore. Nel suo primo viaggio, quando l’equipaggio fu a un pelo dall’ammutinamento, Colombo chiese tre giorni ancora di rotta a ovest: se non avessero trovato terra, avrebbero virato di bordo. La notte del terzo giorno, allo scadere del tempo richiesto, Colombo disse di aver visto dei fuochi. La mattina dopo Rodrigo de Triana dalla coffa gridò “Terra!”. Molti colombisti ritengono che quei tre giorni non siano stati chiesti a caso, ma perché Colombo sapeva che la terra era ormai a portata di mano (e la sua misurazione delle distanze, anche se non era quella giusta, funzionava).

    Nel suo ultimo viaggio, l’ammiraglio rischiò di essere depredato e maltrattato dagli indigeni. Se la cavò con un vecchio sistema, sempre efficace: minacciò la collera degli dei, che avrebbero fatto sparire la luna dal cielo. Facile profezia, visto che le effemeridi garantivano un’eclissi di lì a poco.

    Ci sono molti altri esempi di questo genere: Colombo era un giocatore.

    L’unica conclusione che mi permetto di trarre al termine di questi post è che Colombo sapeva scommettere e all’occorrenza bluffare, ma sempre sul sicuro. Non si sarebbe mai messo in mare con l’idea un po’ romantica di “andare a vedere cosa c’è al di là”. Partì convinto di trovare isole da conquistare, e sapeva dove cercarle.  

                                       Mostrare la faccia

 

    Capiterà mai in Italia che si possa discutere di un argomento paracostituzionale (e cioè delle regole del gioco) astraendo dagli interessi momentanei di Tizio e di Caio? Temo di no, e anche questo è uno dei motivi per cui evito come la peste i temi politici. Ma non posso fare a meno di interessarmi alle questioni istituzionali.

    Ormai ho raggiunto un’età che mi permette di ricordare parecchi precedenti storici. Questo, in teoria, dovrebbe aiutarmi a formulare proposte sensate. E invece la Storia non chiarisce mai niente, non spiega un tubo e meno che mai offre soluzioni. Guardiamo un caso specifico: le garanzie dei parlamentari.

    È ovvio che eleggere dei parlamentari e poi non dare loro la possibilità di esprimersi liberamente è un controsenso. È altrettanto ovvio che garantire i parlamentari al punto da farli diventare una casta di impuniti è autolesionismo. La logica imporrebbe che, nel momento costitutivo dello Stato, si fissasse un ragionevole compromesso fra le opposte esigenze e, nel tempo, lo si affinasse sempre più, in modo da salvare (quasi) tutte le capre e (quasi) tutti i cavoli.

    Invece, nell’arco di sessantacinque anni è successo che le garanzie a favore dei parlamentari sono servite a coprire eccessi sempre più sfacciati, il che ha portato a una rivoluzione moralista. E così i parlamentari, prima impuniti, sono finiti sotto scacco dei PM (che spesso hanno ragione, ma quando prendono un abbaglio distruggono la carriera di un innocente e non fanno fare una bella figura alla magistratura). Invece di inquadrare il problema e affinare progressivamente la soluzione, si è passati da un estremo all’estremo opposto. Mi viene il dubbio che ci sia stato un fraintendimento e che il fraintendimento venga da lontano.

    Un tempo esisteva l’immunità parlamentare e, al tempo stesso, la stragrande maggioranza delle votazioni avveniva (come oggi) a scrutinio segreto. Più garantito di così il parlamentare non poteva essere! Era libero di farsi eleggere a destra e votare a sinistra o viceversa; era libero di intrallazzare, di mercanteggiare cariche di sottogoverno, di crearsi clientele, di legarsi a una o più lobbies, di mettere le mani su denaro pubblico e privato. La magistratura non poteva toccarlo, il partito nemmeno e gli elettori neppure. La politica andava avanti fra imboscate e regolamenti di conti; il sistema aveva costi esorbitanti coperti dalle tangenti; corruzione e concussione erano la regola.

    In questa situazione, i parlamentari erano degli impuniti e gli elettori erano sempre più disgustati. “Mani pulite” fu il grimaldello con cui la magistratura fece saltare il sistema. Ma qual è il risultato? L’immunità parlamentare è caduta ma le votazioni sono rimaste a scrutinio segreto. I franchi tiratori non sono scomparsi. In più, hanno fatto la loro comparsa i transfughi, i cambiatori di casacca.

    Come mai? Il parlamentare, sapendo di essere facile bersaglio della magistratura, cerca di farsi difendere, se non dalla Camera, almeno da un partito, dai giornali amici, dalle reti tv fiancheggiatrici. Il che, da un lato, reintroduce una specie di immunità surrettizia; dall’altro, cronicizza lo scontro fra politica e magistratura. Mi sembra un rimedio peggiore del male.      

    Forse è il caso di tirare la coperta dall’altra parte. Perché non reintrodurre l’autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari (autorizzazione che, per essere negata, richieda magari una maggioranza qualificata) e al contempo imporre che le votazioni avvengano a scrutinio palese?

    Se la magistratura vuole incriminare un uomo politico e non riceve il via libera dal Parlamento, vorrà dire che, a parere dei rappresentanti del popolo, l’operato di quel deputato o senatore deve essere valutato politicamente. Dunque, a giudicare quel parlamentare dovranno essere gli elettori.

    Ora, se il voto resta segreto, gli elettori non potranno giudicare altro che la convenienza politica generale di rieleggere o trombare il parlamentare in questione. Ma se gli elettori sapessero come ha votato nelle diverse occasioni potrebbero svincolarsi dal patriottismo di partito: giudicherebbero l’uomo e il suo comportamento come se fossero una corte di giustizia politica.

    Si dirà: ma se le votazioni fossero palesi il parlamentare diventerebbe ostaggio del partito, perché chi vota in difformità dalle indicazioni del segretario non sarà ricandidato.

    Dipende. Se si vota con il sistema proporzionale (con o senza preferenze), o con l’attuale porcellum, il partito prevale sul candidato, è vero. Ma se si vota con il sistema uninominale non è così. Nel proporzionale è il partito che raccoglie i voti e fa eleggere chi gli pare (anche con le preferenze i partiti hanno sempre deciso chi sarebbe stato eletto), nell’uninominale uno può candidarsi anche senza legarsi a un partito: è lui che raccoglie i voti e li porta al partito. E può benissimo svincolarsi dalla disciplina di partito, pubblicamente, a viso aperto.

    Secondo me sarebbe auspicabile un Parlamento di persone responsabili, che annunciano il loro voto e i loro convincimenti, se ne assumono la responsabilità e si presentano agli elettori dichiarando (e potendo dimostrare che): “ho votato sì a questo e quest’altro provvedimento, ho votato no a questo e quest’altro ancora”. Se i parlamentari si comportassero così sarebbe più facile capire se da una eventuale richiesta di autorizzazione a procedere esce il famigerato fumus persecutionis.

    Ma naturalmente non è mai possibile ragionare in astratto. Meno che mai in Italia, paese del palio di Siena, dove l’importante non è vincere ma danneggiare l’avversario. Chi leggerà questo post concluderà “mi piace” oppure “non mi piace”, in funzione della sua appartenenza politica. E continueremo a tenerci parlamentari che vanno e vengono da un partito all’altro, che votano “strano” nel segreto dell’urna, che vendono il voto in cambio di un cadreghino, alla faccia dei poveri fessi che li hanno eletti.

 

                                              La Svezia in bancarotta

 

    In questo inverno, quando non mi sono dedicato a sfrondare gli allori di Cristoforo Colombo, ho passato le prime ore della notte in compagnia di Stieg Larsson (quello della trilogia Millennium) e di Henning Mankell (quello dell’ispettore Wallander). Ahimé! Sono arrivato all’età in cui la miglior compagnia a letto è un libro (sigh!).

    Prima impressione: i due svedesi si fanno leggere benissimo. Larsson ha  l’andazzo di uno Ian Fleming, con frequente uso di soluzioni al limite dell’incredibile e situazioni scoperecce che sanno di fantasia da sedicenne; Mankell è più attento alla verosimiglianza, ma anche lui tende a pretendere dal suo eroe prestazioni da surménage (fisiche e mentali, ma non erotiche: il povero Wallander è uno sfigato).

    I plot, ridotti alla loro essenza, non sono niente di speciale. A volte sono perfino deludenti nella loro didascalica semplicità. Si capisce che gli autori vogliono dimostrare qualcosa e piegano la storia alle loro esigenze. Vabbe’: in fondo, l’ha fatto perfino Dante.

    La cosa veramente piacevole nei gialli svedesi, la cosa che fa andare avanti nella lettura e non provoca stanchezza, è la scrittura scorrevole. Si sente che tanto Larsson che Mankell hanno una buona tecnica di base e si preoccupano di mantenere viva l’attenzione del lettore anche quando divagano. Sono bravi nel mescolare vita quotidiana e indagine, carrello della spesa e thrill. Devono fare dei salti mortali perché hanno una tesi da dimostrare e si muovono in spazi narrativi ristretti: volere o volare, tutte le possibili varianti del giallo sono già state esplorate; ma quasi sempre riescono a rivitalizzarle. In primo luogo, ripeto, con la scrittura. È una dote che dovrebbe essere normale per uno scrittore, e invece è maledettamente rara.

    A parte questo, salta agli occhi l’impegno che Larsson e Mankell mettono nel mostrarsi politically correct. Lo fanno in un modo così smaccato da rendere evidente che, per essere e pensare “correttamente”, devono fare uno sforzo. I loro protagonisti, spesso e volentieri, non sono affatto “corretti” e se ne rendono conti, ma reagiscono in due modi diversi. Quelli di Larsson pretendono il politically correct dagli altri e si riservano di farsi i cazzi loro, in perfetto stile radical chic; quelli di Mankell trasgrediscono, si stupiscono di se stessi, si macerano nel dolore per dieci secondi e due decimi, poi alzano le spalle e ricominciano daccapo, in perfetto stile cattolico. Pagina dopo pagina, mi sono chiesto infinite volte se Larsson e Mankell hanno mai letto “Arancia meccanica”, il libro di Burgess che su questo punto è chiarissimo (diversamente dal film di Kubrick, il cui finale è incomprensibile).

    Tutto questo va a parare in qualcosa che mi ha profondamente stupito: l’aria di fallimento della swedish way of life che aleggia, in modi diversi, tanto in Larsson che in Mankell. Confesso che, nella mia beata ingenuità, mi figuravo la Svezia come il paradiso della maturità responsabile: la vulgata socialdemocratica me l’aveva dipinta come un paese in cui lo stato sociale funziona superbamente, non esistono criminalità o marginalità sociale e i rapporti fra i sessi funzionano a base di rispetto reciproco.  

    Invece pare che non sia affatto così.

    Larsson dipinge una Svezia piena di ex nazisti (?), padri snaturati che stuprano figli e figlie, violenti che picchiano e uccidono soprattutto le donne, e via di questo passo. E chi sono i “buoni”? Una hacker psicotica borderline che ruba miliardi (ma li ruba a un ladro e quindi va bene così!) e un giornalista che, da un lato, non sa il suo mestiere e finisce in galera per diffamazione, mentre dall’altro, per voce di sua sorella, è definito (giustamente, direi) un irresponsabile dal punto di vista sessual-sentimentale. Anche i “buoni minori” sono spesso discutibili dal punto di vista etico. Insomma: sono “buoni” per modo di dire. Nella Millennium Trilogy non c’è un cattivone contro un eroe buono: è l’intera società che è malata. Quando un personaggio è troppo normale, Larsson se lo leva dai piedi alla svelta. La sua Svezia sembra popolata solo da gente un po’ (o un po’ tanto) fuori dalla norma.

    Una volta arrivato alla fine dei tre volumi, la vicenda mi è apparsa come una riproposizione della SPECTRE in salsa svedese: il male assoluto può essere sconfitto solo da James Bond o se preferite da Robin Hood, cioè da un castigamatti che si pone al di fuori e al di sopra delle regole. Perché lui può farlo e gli altri no? Perché è un “buono”. Ma che sia davvero buono lo dice lui, e noi siamo chiamati a credergli per fede. Che sia questa la vera essenza del politically correct?

    In Mankell la faccenda è anche più seria. Tutti i casi di cui si occupa il commissario Wallander lo portano a domandarsi cosa è mai diventata la Svezia. Da dove viene questo inusitato scoppiare e propagarsi della violenza? Come è possibile che la socialdemocrazia svedese, con il suo stato sociale perfetto, con la sua ideologia politicamente corretta, abbia condotto la società a questi livelli di degrado? E dove andremo a finire?

    La Svezia – riflette Mankell/Wallander – è diventata un paese dal quale molti vogliono andarsene. Quelli che hanno i soldi lo fanno. Quelli che non possono permetterselo cercano di procurarseli. Che cosa ha scatenato questo fenomeno? Che cosa è successo?

    Questo è il problema che Wallander si pone continuamente (e non riesce a risolvere). Non lo sfiora il dubbio che la società politically correct sia un’utopia partorita a tavolino, una costruzione troppo razionale che non si è tradotta in pratica, una forma di intolleranza che paradossalmente respinge ai margini chi non è abbastanza tollerante.

    Wallander è convinto che gli uomini siano tutti originariamente buoni perché così gli hanno detto a scuola e così ha ripetuto il governo negli ultimi cinquant’anni. Non si fa capace del fatto evidente che negli esseri umani alberghino anche aggressività, oscure pulsioni congenite, inevitabili frustrazioni. Non si rende conto che, in questo modo, i “cattivi”, negati dall’ideologia ma asseverati dalla realtà, tornano a essere mostri, alieni che (non essendo politically correct) non sono umani.

    E come la mettiamo con il fatto che il buono e onesto Wallander, sempre pronto a far la morale a se stesso e agli altri, è capace di prendere una ciucca e guidare ubriaco, allungare le mani su una avvenente PM (che ovviamente si incazza), prendere a sberle una ragazzina stronza e a pugni un collega infido, stendere la moglie con un cazzotto, infrangere leggi e regolamenti per seguire una intuizione. Gli va sempre bene. Nessuno lo denuncia, i colleghi lo coprono. Come mai si comporta così proprio lui, tutore della legge politicamente corretta? Perché è un essere umano. Noi lettori sappiamo (perché ce lo dice l’autore) che le scorrettezze di Wallander non intaccano la sua integrità di fondo, e lo perdoniamo. Ma saremmo disposti a perdonare uno sconosciuto, per quanto incensurato e amorevole padre di famiglia, se non fosse l’eroe del libro? Penso proprio di no. E allora come la mettiamo?

    Il fatto è che Mankell e Larsson prendono lucciole per lanterne. La radice della violenza non è definibile “politicamente” e non si elimina con le leggi. I “buoni” veri sono tali perché hanno dei principi in cui credono per libera adesione, non per imposizione politica o culturale. I “cattivi” veri non diventano buoni se la società adotta comportamenti “corretti”; anzi: ne approfittano. La violenza esisterà sempre, dovrà sempre essere repressa con mezzi coercitivi, e lo Stato che mostra di tenere più alla (problematica) redenzione dei colpevoli che alla protezione delle vittime dà la sensazione di fregarsene della sicurezza dei cittadini. Certo, se i cittadini pensano di difendersi da sé, lo Stato deve impedirlo; ma ha poco da meravigliarsi.  

    E allora, cosa deve fare il cittadino onesto per opporsi al progressivo andare in  vacca della società?

    La risposta di Wallander è disarmante nella sua benintenzionata cecità: bisogna insistere a dar zuccate nel muro (sperando che prima o poi qualcun altro veda e provveda? Ma chi? Forse Lisbeth Salander, la giustiziera fuorilegge di Larsson?).    

 

                                       Chi sono i progressisti?

 

    La lettura dei gialli svedesi e la sconsolata constatazione del fallimento di una swedish way of life basata su un’ideologia politicamente corretta mi ha indotto a ragionarci su. Dopo tutto, la socialdemocrazia si è installata in Svezia più di cinquant’anni fa e (almeno in apparenza) ha retto bene per tutto questo tempo. Per interi decenni è stata un esempio per tutti i progressisti occidentali. Come mai all’improvviso due scrittori palesemente socialdemocratici si accorgono che non funziona più?

    Forse per lo stesso motivo che ha fatto implodere l’URSS e i suoi paesi satelliti. Ricordo ancora lo stupore con cui gli industriali tedeschi dell’ovest entrarono nelle fabbriche dell’est dopo la caduta del muro: le catene di montaggio erano ancora quelle di prima della guerra! I prodotti che fino a un anno prima facevano concorrenza sui mercati internazionali (macchine fotografiche, motori elettrici, strumenti di precisione) erano costruiti con metodi

antiquati e antieconomici. Risultavano concorrenziali perché venivano venduti a prezzi politici, ma se i salari dell’est fossero stati portati al livello dei salari dell’ovest quei prodotti sarebbero stati invendibili.

    Ciò che vale per l’economia vale in gran parte anche per la sociologia. La socialdemocrazia svedese inventò negli anni 50 un sistema sociale che ebbe successo nelle condizioni in cui si trovava: un paese relativamente poco popolato, gente laboriosa senza grandi pretese, con una cultura a sfondo luterano, contadino, boscaiolo e, anticamente, guerriero. Radici solide. Su questo basamento la socialdemocrazia costruì un sistema sociale in cui lo Stato si faceva carico di molti servizi e i cittadini sembravano tutto sommato soddisfatti di un regime che li tartassava di imposte ma li assisteva dalla culla alla bara. Le cose funzionarono così per decenni. O meglio: rimasero identiche fino a ingessarsi, a diventare marmoree.

    Nel frattempo la società cambiava. Qualunque agglomerato sociale è in continua evoluzione. Però chi sta in alto non se ne accorge. Chi non ha potere chiede sempre cambiamenti (anche a vanvera), ma chi il potere ce l’ha (qualunque sia la sua formazione politica) non vuole correre “rischi inutili”. Perché cambiare le cose che funzionano?

    Ma ciò che andava bene negli anni 50 allo svedese laborioso, di poche pretese, amante delle sue foreste e rigido come il suo clima, non è più tollerato dallo svedese ricco del terzo millennio che passa tre mesi all’anno in Spagna o in Grecia; e non è più tollerato neanche dallo svedese proletario (si dice ancora così?) che vede al cinema e su internet le immagini di un’altra vita possibile, e si sente emarginato.

    Ecco che cosa è successo: la socialdemocrazia scandinava si è ingessata. Si è illusa di avere inventato una ricetta buona per l’eternità, e non ha saputo rinnovarsi. Ha peccato di miopia, esattamente come il socialismo reale, imploso per non essersi adeguato ai tempi che cambiavano.

     È un errore che viene di lontano. In Das Kapital, summa teologica di ogni socialismo applicato, viene teorizzata la “legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”. In soldoni, si tratta di questo: in un regime di concorrenza perfetta, finché esiste un margine di profitto nel costruire e vendere, per esempio, macinini da caffè (quelli vecchi, non so se li ricordate: di legno, con una manovella da girare a mano per macinare e un cassetto per raccogliere il caffè macinato) ci sarà sempre qualcuno che si metterà a costruirli e a venderli a un prezzo sempre più basso, pensando: guadagnerò poco, ma poco è meglio di niente. Da qui Marx partiva per profetizzare il crollo dell’economia di mercato, l’avvento del monopolista unico e la rivoluzione proletaria.

    Ciò che sfuggiva a Marx e a tutti i governanti socialisti che a lui si sono ispirati è che i prodotti (le società) non rimangono eternamente immutabili. Il macinino da caffè diventa elettrico, viene prodotto in tante misure con prestazioni differenziate, e se oggi è diverso da com’era ai tempi di Marx, tra vent’anni sarà diverso da com’è oggi.

    Anche alle società succede qualcosa di simile. Non esistono ricette sociali buone per l’eternità. Si può approvare in Parlamento un sistema di leggi inteso a far sì che i cittadini diventino tutti “buoni”. Si può irreggimentare la cultura e la comunicazione di massa e bombardare l’audience per inculcare i precetti del politically correct. Ma c’è sempre una frazione della cittadinanza che non accetta il messaggio, e questa frazione ingrossa man mano che la realtà evolve mettendo in risalto inconvenienti e incongruenze di un sistema che non sa rinnovarsi (anche se, a torto e a traverso, viene sbandierato come il migliore dei mondi possibili).    

    Chi sta al potere, comunque ci sia arrivato, diventa conservatore e si trova di fronte a un dilemma. Se vuole conservare il potere deve avere il coraggio di rinnegare se stesso. Se vuole il bene del popolo, deve avere il coraggio di passare la mano.

 

                                                     Speranza

 

    Perché certe immagini restano impresse più di altre? A me è rimasto stampato in mente un angolo di strada a Madrid, una sera, con due fiumane di gente che confluivano in un’edicola. I quotidiani in edizione straordinaria annunciavano l’elezione di papa Woytila.

    Uno può dire: è logico che ti sia rimasto impresso: è un fatto storico.

    Ma io non sto parlando della notizia. Parlo della sensazione. Arrivavo da seicento chilometri di distanza, da un posto dove per qualche giorno ero rimasto praticamente fuori dal mondo. Quando scesi dal taxi e vidi la scena, prima ancora di leggere i titoli dei giornali pensai: “È successo qualcosa”.

    Quella sera nessuno avrebbe potuto prevedere Solidarnosc, la caduta del muro di Berlino, l’implosione dell’URSS. Chiunque avrebbe pensato soltanto che, morto un papa, se ne fa un altro. Eppure ricordo perfettamente l’impatto di quel momento. Ricordo i particolari più insignificanti: le facce di persone mai viste che non avrei rivisto mai più, le espressioni, i toni di voce, i gesti. E anche gli avvenimenti che mi portarono fin lì sono rimasti impressi con immagini vivide. È come se fosse successo ieri.

                                                                ***

    Quando il neoeletto papa Luciani si affacciò alla loggia e cominciò a parlare con un chiaro accento veneto, senza plurale majestatis, senza la pomposità dei suoi predecessori, ricordo che tirai un sospiro di sollievo: se perfino la Chiesa Cattolica Apostolica Romana mostrava di adeguarsi al mondo, voleva dire che il mondo non si era completamente sbagliato. Se nel ’68 eravamo scesi in strada per gridare che non ne potevamo più, be’, forse non avevamo avuto tutti i torti.

    Due giorni dopo mi imbarcai su un aereo per Quito, Ecuador. Quattordici ore di volo, e mi ritrovai immerso fino al collo in uno di quei pasticci sudamericani che sfuggono di mano proprio quando credi di averli afferrati per la coda, e ti ritrovi circondato dai più improbabili mezzani, gente che si propone come taumaturgo e poi scompare in attesa che le cose si risolvano da sé, salvo ricomparire al momento buono millantando i propri buoni uffici con Tizio o con Caio e reclamando una provvigione.

    Non so se fu per lo stress di queste vicende o per aver mangiato qualche porcheria, fatto sta che una notte mi svegliai con un dolore micidiale in tutto l’addome. Era così forte che quasi non riuscivo a respirare. Dovetti essere ricoverato, e preferisco non fare commenti sugli ospedali ecuadoriani. Il medico che mi visitò vantava sull’intestazione delle sue ricette di essere licenciado en Mexico, i flaconi delle flebo portavano la stampigliatura made in Brasil, sulla scatola di non so quali pastiglie c’era scritto hecho en Colombia. Per gli ecuadoriani era un titolo di merito non avere niente a che fare con l’Ecuador.  

    Fu un attacco di appendicite o una colica renale? Mi dimisero confessando di non aver capito un accidente, dopo avermi tenuto a digiuno per una settimana. Se fosse stata appendicite avrebbe potuto perforarsi e andare in setticemia. Mi andò bene: persi dieci chili, ma uscii dall’ospedale con le mie gambe.       

                                                               ***

    Quando scesi la scaletta dell’aereo e toccai il suolo italiano avrei voluto inginocchiarmi a baciare la terra, ma ero morto di sonno e ci rinunciai. In piedi, con la valigia nella destra e la sinistra agganciata a un sostegno sulla piattaforma del bus che rotolava sulla pista, sentii dire che il papa era morto. Impiegai del tempo a capire: non ne avevano eletto uno nuovo il mese scorso?    

    Mentre io facevo a capocciate con i muri di gomma ecuadoriani e finivo all’ospedale, papa Luciani aveva lasciato questa valle di lacrime. Ci rimasi male. Quando viene a mancare qualcuno che in un modo o nell’altro ha un ruolo di guida è come se la bussola non segnasse più il nord. Succede a tutti, amici e nemici. Anzi, credo che la fine dell’URSS abbia disorientato più l’Occidente che i russi: restare senza un nemico è come essere zoppi e perdere la stampella.

    Qualche giorno dopo, mentre i cardinali partiti per i quattro angoli della terra venivano richiamati a Roma in tutta fretta, partii per la Spagna. In un porto della costa catalana i sindacati avevano proclamato un’agitazione e mi toccò discutere per giorni con interlocutori che insistevano a battere sugli stessi tasti, ricevevano le stesse risposte, tornavano sugli stessi argomenti, venivano bloccati dagli stessi ostacoli e rilanciavano il discorso a casaccio al solo scopo di tenere aperta la trattativa sperando che nel frattempo piovesse dal cielo qualche fatto nuovo. Ma dal cielo non piovve niente e la manfrina durò parecchio: in Spagna si combatte all’ultimo sangue e si vince per sfinimento.

    Arrivò il momento della “pausa di riflessione” e riuscii ad acchiappare un volo per Madrid. L’elezione del nuovo papa non mi aveva sfiorato neanche l’anticamera del cervello. Del resto, ero sicuro che il conclave sarebbe durato settimane. Verso le dieci di sera il taxi mi scaricò all’angolo di Serrano e Diego de León. Mi guardai attorno un po’ intontito: sembrava che tutta Madrid si fosse messa in ghingheri e avesse invaso le strade. Le donne barcollavano sui tacchi alti. Le capigliature degli uomini scintillavano di brillantina. Tutti avevano qualcosa da dire: l’uomo alto all’amico traccagnotto, il damerino impomatato alla ragazza vestita di seta, il gruppo di studenti e quello di colleghi d’ufficio; tutti con l’aria di chi ostenta nonchalance. Ma parlavano tutti della stessa cosa. E la cosa erano i titoli a tutta pagina che annunciavano un evento imprevisto: il primo papa non italiano dopo cinquecento anni, il primo papa polacco.   

    Forse quella strana atmosfera di attesa fu davvero un presentimento. Non potevo sapere che per tanti anni quel papa avrebbe ripetuto un grido che sulle prime mi parve incomprensibile: “Non abbiate paura!”.

    Paura di che? Avevo trent’anni, ero in carriera e vedevo il mondo come le mura di Costantinopoli alle quali dare la scalata per entrare a dare il sacco. Paura? Non sapevo cosa fosse.

    Più tardi, dopo essere affondato e riemerso dal baratro della depressione, capii che quel grido significava tante cose, ma una in particolare. Non abbiate paura della morte: non è una punizione, non è la fine di tutto. Non perdete mai la speranza.

    Ecco: per me la speranza ha l’immagine e il sapore di quella sera a Madrid. Ci ritorno con la memoria ogni volta che la depressione, quella maledetta bestiaccia, torna ad allungare i suoi artigli. C’è in noi qualcosa che non sappiamo definire, ma c’è, è vera e reale, e per quanto possa sembrare pazzesca è la cosa più solida sulla quale possiamo poggiare i piedi.  

                                                        I miti

 

    Pare che il primo a maneggiare il fuoco sia stato un homo erectus, più o meno un milione di anni fa. Dico “pare” perché archeologia e paleontologia sono in continuo divenire, ogni nuovo ritrovamento induce a riformulare teorie e interpretazioni, e la collocazione temporale di questo o quell’evento viene continuamente corretta e ridatata. Ma insomma, centomila anni più, centomila anni meno, sembra assodato che un discendente dell’australopiteco abbia cominciato a usare il fuoco ben prima della comparsa dell’homo sapiens.                                                        

    Alla luce di questo fatto, sarebbe davvero interessante trovare qualche documentazione di come sia nato il mito di Prometeo. In particolare, sarebbe importante scoprire se il mito conteneva fin dagli albori la sua curiosa struttura, che da un lato è a base di “delitto e castigo”, ma dall’altro fa di Prometeo il primo eroe dell’umanità.

    Purtroppo il desiderio è destinato a rimanere insoddisfatto. La scrittura fu inventata (pare!) verso il 4000 a.C. mentre il mito dovrebbe ragionevolmente essere molto più antico. Pur con qualche margine di dubbio possiamo datare in anni la fondazione di Roma e in secoli le dinastie faraoniche; ma prima dell’invenzione della scrittura tutto è congetturale. La domesticazione del cavallo, che si dice sia avvenuta verso il 5000 a.C., potrebbe essersi verificata anche molto prima, ad opera di una tribù che non seppe o non volle trasmetterne il segreto. Di più: potrebbe essere avvenuta cento volte, in cento posti diversi, e ogni volta può essere stata dimenticata. La stessa cosa può essere accaduta per tante altre conquiste dell’umanità come la ruota, la navigazione, l’agricoltura. E anche per l’arte affabulatoria. È persino possibile che il mito di Prometeo si sia sviluppato nella mente di molti homines erecti prima ancora che avessero imparato ad articolare i suoni in parole.

    Per lungo tempo si è pensato che il mito di chi rubò il fuoco agli dèi sia nato in Grecia ai tempi della civiltà minoica; ma non ci sono prove: semplicemente non è stato trovata traccia di Prometeo in altre civiltà. Però queste prove potrebbero saltar fuori prima o poi, e in questo caso sono possibili alcune alternative. Il mito potrebbe avere avuto origine contemporaneamente a Creta e altrove; oppure potrebbe essere arrivato a Creta insieme ai primi colonizzatori dell’isola; teoricamente potrebbe anche essere stato importato dai Dori che invasero l’Ellade intorno al 1200 a.C. (per escludere quest’ultima ipotesi bisognerebbe decifrare la scrittura “lineare A” e trovare un accenno al mito di Prometeo in un testo precedente al cosiddetto medioevo ellenico).

    Ciò che mi spinge a considerare improbabile l’origine dorica sono le corrispondenze fra il mito di Prometeo e la storia di Adamo: anche Adamo ruba qualcosa a Dio (non il fuoco, ma la conoscenza del bene e del male), anche lui viene punito, anche lui diventa un eroe dell’umanità nonostante tutto. Ma non è possibile stabilire se Adamo e Prometeo siano lo stesso mito rielaborato da differenti culture o se si tratti di due miti diversi che hanno finito per assumere fisionomie simili.

    Nonostante la mancanza di prove, mi sembra più probabile che il mito sia arrivato a Creta con i primi colonizzatori delle isole egee, quasi sicuramente fenici che provenivano dalla costa sudorientale del Mediterraneo e che avevano frequenti contatti con arabi ed ebrei. Propendo per un’unica origine delle mitologie greche e mediorientali perché quella di Adamo e Prometeo non è la sola corrispondenza. Ammetto di non conoscere miti sumeri o ebrei assimilabili a quello di Demetra e Trittolemo, che celebra la nascita dell’agricoltura (e dà origine ai misteri eleusini), ma sono convinto che un mito del genere deve esserci stato anche in Mesopotamia. Comunque, per restare su un terreno solido cito solo due esempi che fanno riferimento alla Bibbia.   

    Primo esempio. Agamennone, che invece di sacrificare la figlia Ifigenia immola una cerva, rimanda ad Abramo che sacrifica un ariete al posto del figlio Isacco. È vero che Agamennone appartiene al mondo dorico, è vero che nel mito greco la sostituzione dell’essere umano con un animale è operata direttamente dalla divinità, ma non c’è dubbio che l’uno e l’altro mito sono due modi molto simili di celebrare la fine dei sacrifici umani.

    Secondo esempio. Deucalione e Pirra si salvano dal diluvio e ripopolano il mondo. Il loro mito parla della stessa catastrofe narrata nella storia di Noé. È vero che Noé costruisce l’arca e salva uomini e animali a coppie, mentre Deucalione e Pirra riparano sui monti e ricreano l’umanità gettando pietre alle loro spalle; ma è evidente che si tratta di due modi per ricordare lo stesso evento: la fine dell’ultima glaciazione (che gli scienziati collocano fra il 10.000 e il 12.000 a.C.)

    La mia impressione è che i miti più antichi siano stati originati dalla tradizione orale con cui si glorificavano le trasgressioni che avevano successo, e questa trasmissione di memorie non poteva provenire altro che dalle voci interessate messe in giro dai maggiori beneficiari delle trasgressioni. Quando tutti, chi più chi meno, si convincevano di averci guadagnato qualcosa, il resoconto diventava mito.

    Non ho prove, ma pensateci: chi rifiuta di sacrificare il figlio e al suo posto sgozza un animale è, per la mentalità del 1000 a.C., colpevole di sacrilegio. È praticamente certo che qualcuno ci avrà provato anche prima di Abramo e Agamennone, e sarà stato lapidato. Ma quando un patriarca fa circolare la voce che Dio stesso gli ha ordinato di salvare Isacco e un re afferma che Diana stessa ha sostituito Ifigenia con una cerva, e gli déi non li smentiscono, e re e patriarchi continuano a governare come se niente fosse, allora ciò che sembrava sacrilegio diventa devozione a un nuovo rito, i sacrifici umani vengono aboliti e l’umanità compie uno dei passi avanti più decisivi della sua storia.                                      

                                                    I miti antichi

 

    Visto che il furto del fuoco era andato a buon fine, l’umanità insistette a trasgredire: violò il regno di Poseidone, e la navigazione portò con sé l’epopea del viaggio, dell’avventura. Il mito di Giasone alla conquista del vello d’oro riassume tutto ciò. Innanzitutto l’audacia di avventurarsi sul mare (per la prima volta!) a bordo di una nave ideata, progettata e costruita ex nihilo. Poi la sorpresa di paesi sconosciuti, di cui non si sapeva nemmeno l’esistenza. E infine la necessità di affrontare l’imprevisto sfruttando ogni possibile risorsa, senza scrupoli, senza vergogne. Una volta messa la rotta verso il Mar Nero, cosa poteva fare Giasone se non approfittare di ogni circostanza favorevole? Se, una volta arraffato il vello d’oro, avesse arretrato davanti alla pazzia amorosa di Medea, non soltanto avrebbe mancato lo scopo del viaggio, ma avrebbe condannato se stesso e l’intero equipaggio a morte sicura.

    Ma l’avventura non tollera limiti: a partire dal mito della prima navigazione si sviluppa una storia che potremmo trovare nella cronaca nera di un quotidiano dei giorni nostri. Medea trucida il fratello per fuggire con Giasone. Quest’ultimo, una volta tornato a Corinto, abbandona Medea; e lei si vendica uccidendo i loro figli. Giasone resta il prototipo dell’avventuriero dal “multiforme ingegno”, ma il personaggio di Medea si stacca dall’umano, si fa incomprensibile, e per questo Euripide lo trasfigura in cielo.

    Quando il mito da pura e semplice narrazione diventa espressione artistica, abbandona la celebrazione delle trasgressioni per dedicarsi ai misteri dell’animo umano, alle sue debolezze, alle sue incoerenze, ma anche al quid inspiegabile che lo collega a un mondo superiore.

                                                               ***

    Non si sa in che epoca l’homo sapiens o uno dei suoi antenati abbia cominciato a viaggiare per mare: il mito di Giasone non offre elementi neanche per una ipotesi. Ma esistono altri miti più recenti, e qualcuno è databile.

    La guerra di Troia viene combattuta (secolo più, secolo meno) intorno al 1000 a.C. Circa duecento anni prima, i Dori, popoli nordici, forse di origine gota, poco numerosi ma esperti di guerra, hanno invaso il Peloponneso e se ne sono impadroniti. Stirpi doriche regnano a Sparta e a Micene.

    Agamennone, alto e biondo, ha abolito i sacrifici umani, ma per farlo ha dovuto far fuggire la figlia Ifigenia in un paese lontano. Quando il re torna da Troia viene ucciso a tradimento dalla moglie Clitennestra. È la penultima vendetta di una faida che rimonta ad Atreo e Tieste, e ancora più indietro.

    Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, torna dall’esilio per uccidere la madre e il suo amante Egisto. Ma il matricidio e il colpo di stato portano la città sull’orlo della guerra civile: bisogna trovare una soluzione. E la soluzione è quanto di più trasgressivo si possa immaginare. Si tratta nientemeno che di usurpare il supremo attributo di Giove, la bilancia della giustizia. Oreste impone al popolo l’istituzione dei tribunali: non ci saranno mai più vendette, mai più faide. La giustizia viene trascinata giù dall’Olimpo e d’ora in avanti sarà amministrata dagli uomini.

    Fin qui siamo nel canone classico: il mito celebra una trasgressione di successo. Ma in questa cupa storia di uxoricidii e matricidii si inserisce a poco a poco la figura di Elettra, la ragazza dai capelli d’ambra, figlia di Agamennone e sorella di Oreste. Nel suo immenso affresco Eschilo la dipinge sullo sfondo, come una mite fanciulla che sopporta le umiliazioni e resta devota alla memoria del padre. Nella sua tragedia, Euripide le dà maggior rilievo affiancandola al fratello nella vendetta. Sofocle, che arriva buon ultimo, ne fa un demonio assetato di sangue: è Elettra che spinge Oreste quando lo vede vacillare di fronte all’idea del matricidio, è lei che insiste per regolare nel sangue i conti con Egisto.         

    È sintomatico come la figura di Elettra cambi da Eschilo a Euripide a Sofocle, mentre il quadro celebrativo dell’istituzione dei tribunali scompare a favore dell’indagine psicologica sul personaggio. La trasgressione verso Dio, che aveva portato l’uomo ad appropriarsi della giustizia (dopo il fuoco, la vita, l’avventura), nel giro di quarant’anni passò in secondo piano. La mediazione di tre tragedie rappresentate davanti al pubblico di una città, Atene, che stava sperimentando una mutazione epocale, oscurò il significato religioso del mito (e lo sappiamo per certo: un personaggio di una commedia di Aristofane se ne lamenta proprio in questi termini). La storia di Oreste, nata per celebrare l’emancipazione dell’uomo, finì per rappresentare sentimenti estremi, al limite del disumano. Quando gli déi svaniscono sullo sfondo, la scena non ospita più i contrasti fra déi e creature, ma fra uomini e uomini.

                                                              ***

    La trasgressione cambia, ma è sempre presente. Il potere divino non è più imposto dal fulmine di Giove: è esercitato (o usurpato?) da un re o da un tribunale, e le leggi entrano in conflitto con altre leggi. Ancora una volta il mito si occupa di trasgressione, ma nel mito più arcaico, che ha in Eschilo il suo ultimo rappresentante, l’uomo si ribella a Dio (o a ciò che crede attributo di Dio) e si appropria di alcune delle sue presunte prerogative; nei miti più recenti, o nelle rielaborazioni dei drammaturghi, lo schema si inverte: la trasgressione avviene contro le leggi degli uomini in nome di una istanza superiore.

    E così Antigone disobbedisce a Creonte invocando la pietà per i defunti. Antigone trasgredisce la legge del re con una motivazione giuridica: certe cose il re non può ordinarle perché appartengono a una sfera che trascende il suo potere (il potere dei discendenti di Prometeo, Giasone e Oreste). Creonte può uccidere i suoi fratelli, ma non può proibirne la sepoltura. Nella rivolta di Antigone c’è qualcosa di paradossale, che getta sabbia negli ingranaggi della convivenza sociale e che fa riferimento a qualcosa di incomprensibile nascosto nel fondo dell’animo umano.

    E ancora più incomprensibile è la punizione che Afrodite infligge a Ippolito, reo di non aver ceduto all’amore di Fedra, sua matrigna. Alla dea non importa che Fedra sia la seconda moglie di Teseo, padre di Ippolito. Non le interessano l’infedeltà e il quasi-incesto: l’amore trascende le convenzioni sociali. Ippolito ha rifiutato l’amore: Ippolito deve morire.

    La divinità prende la sua rivincita. Mangiando il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo ha incorporato in sé le contraddizioni fra essere e dover essere, corpo e spirito, dio e creatura, dalle quali aveva creduto di emanciparsi con singoli atti di ardita disubbidienza; ora deve trovare di volta in volta vie precarie per sfuggire momentaneamente alle sue contraddizioni, pur sapendo che tesi e antitesi si ripresenteranno in forme sempre nuove e gli imporranno altre fatiche, altri lutti.

 

                                                 Roma senza miti                                                    

 

    E Roma non ha avuto i suoi miti? L’arrivo alla foce del Tevere dei troiani guidati da Enea può anche essere considerato un mito, ma più che altro è una leggenda che contiene la promessa di una missione universale. Letta in questa chiave, la storia dei profughi troiani non può fermarsi a Enea: deve proseguire fino a Roma imperiale, a Cesare, a Traiano.

    Invece di produrre miti, Roma ha fatto la Storia. L’espressione proverbiale “Roma non è stata fatta in un giorno” significa appunto che le cose importanti e durature non si ottengono con un unico colpo fortunato (come succede nei miti) ma con un impegno costante, duro, fatto di avanzate e ritirate (come nella realtà di tutti i giorni). Raramente Roma riuscì a sottomettere un popolo con una sola schiacciante vittoria in battaglia. Quasi sempre ci vollero lunghe campagne militari di esito incerto, costellate di mezze vittorie, sconfitte, armistizi, trattati, inganni e doppiezze. E ci vollero poi secoli di amministrazione nel segno della dura lex sed lex. Soprattutto ci volle la capacità di cogliere le occasioni, di farle diventare realtà. Ciò che indirizzò la Storia verso la costruzione di un impero non fu la potenza militare ma l’intelligenza pratica con cui Roma sfruttò i vantaggi di cui di volta in volta si trovava a disporre, sgretolando contemporaneamente quelli dei suoi avversari. L’esempio classico del modo di fare dei Romani lo diede Pompeo quando si trovò a far guerra contro gli Ebrei: diede battaglia di sabato.  

    Un popolo così fatto non poteva credere ai miti, ma semmai agli esempi di valore: Muzio Scevola, Orazio Coclite, Furio Camillo furono i suoi modelli. L’unico romano mitizzato fu Romolo: di lui si disse che era stato assunto in cielo. Ma si trattò di una voce messa in giro ad arte per mascherare, con ogni probabilità, un omicidio politico. Non doveva essere un tipo simpatico, Romolo: non dimentichiamo che aveva ucciso suo fratello, e dopo anni di regno aveva sicuramente accumulato troppi nemici. Bisognava levarselo di torno, e tuttavia non era utile mettere in piazza le magagne del re fondatore. La mitizzazione servì per scopi politici, e anche questo fu molto romano.

                                                              ***

    Grecia capta ferum victorem cepit. La conquista della Grecia aprì le porte dell’Oriente e Roma fu invasa dai miti greci, dai misteri egiziani, dall’astrologia caldea. Cincinnato e Coriolano andarono in pensione, prevalse la religione di Mitra e del Sol Invictus. Solo a partire dal secondo e terzo secolo della nostra era cominciò a espandersi il cristianesimo.

    Anche i cristiani ebbero i loro eroi: santi e martiri che operarono miracoli, vissero storie esemplari, ottennero conversioni e morirono per la fede con tutto un repertorio di torture orripilanti. San Pietro fu crocifisso a testa in giù, san Paolo decapitato, san Bartolomeo spellato, san Sebastiano crivellato di frecce, san Lorenzo cotto in graticola, eccetera eccetera.

    Ma non si possono chiamare miti. La trasgressione dei martiri si esercitava contro il potere dell’uomo per affermare il potere divino. Era la ribellione di Antigone, non quella di Prometeo. I santi non pensavano a far progredire l’umanità, ma a distoglierla dalla quotidianità. Le differenze fra un santo e l’altro perdono importanza non appena si riflette sul motivo del loro sacrificio, lo stesso per tutti: la subordinazione della vita terrena alla vita eterna. Nella nuova prospettiva ogni turbamento è sintomo di peccato. La trasgressione genera cattiva coscienza e senso di colpa, quindi è peccato. Ogni comportamento anormale è peccato. Ci sono migliaia di peccati e la religione monoteista non perde tempo ad attribuirli all’ira di Giove o di Afrodite. Tutti i peccati hanno la stessa causa: la superbia dell’uomo, la sua inguaribile voglia di mangiare la mela; e hanno come conseguenza la dannazione. Non ha senso concepire la vita come equilibrio fra diverse pulsioni, comandate (e legittimate) ciascuna da un dio specifico. C’è un unico Dio e un solo libro dove è scritta tutta la Verità. Ciò che non è Vangelo è peccato, e l’unica via d’uscita è la penitenza.    

                                                              ***

    In quest’ottica non c’è più spazio per il mito. La trasgressione non è cammino verso la liberazione dell’umanità: è peccato, e sarà punita. Anche quando apparentemente ha successo, non genera eroi ma peccatori che la pagheranno nell’altro mondo.

    Roma, che già viveva di miti altrui, a partire dall’editto di Costantino rinunciò anche alla mitologia ellenica e ai misteri egiziani. Dal quarto secolo fino all’anno mille nacquero e vissero vita stentata migliaia di piccoli miti che riguardavano santi e martiri locali. Ne rimangono scarse testimonianze. Un’ideologia omogenea pioveva dal centro sulla periferia, e la scarsezza delle comunicazioni rendeva difficile il feed back dalla periferia al centro; tutto questo fece sì che i santi locali mancassero di originalità e restassero circoscritti in ambiti limitati.

    Ancora una volta i miti avevano bisogno dell’oriente per rinascere. E ci pensarono gli arabi, che dalla Mecca sciamarono fino al Marocco e poi in Spagna per essere infine fermati a Poitiers. Dallo scontro di scimitarre e corazze nacquero la leggenda di Orlando, il ciclo dei paladini, i maghi e gli incantatori, l’idea del cavaliere puro di cuore, il sogno della cavalleria errante. Non fu mito ma ci si avvicinò: fu una creazione della fantasia che in tutte le sue incarnazioni (Artù, Gawain, Lancillotto, Parsifal, Galahad) conteneva un elemento di mistero.

    Ormai non c’era più da trasgredire nel senso comune del termine: semmai, la vera trasgressione stava nella pretesa cavalleresca di un cuore puro, di una purezza spinta fino alla castità, anzi alla verginità. Da questo desiderio di purezza e dalla fusione un po’ eretica di tradizioni pagane e cristiane, nacque l’unico vero mito del medioevo: il Graal.

                                                  I miti medievali

 

    Le leggende dei cicli bretone e nordico ebbero molte vite: al loro apparire, più o meno nel decimo secolo, generarono poemi rozzi e popolareschi che venivano salmodiati dai cantastorie e a ogni rappresentazione si arricchivano di nuove invenzioni e di versioni sempre diverse. Si chiamarono chansons de geste in Francia e cantares in Spagna. Celebravano gli eroi che combatterono contro i mori: Orlando a Roncisvalle e Rodrigo Diaz de Vivar, il famoso Cid Campeador.

    Vale la pena di ripetere che l’avanzata araba fu arrestata solo a Poitiers nel 732 e che ci vollero più di settecento anni (!) per liberare la penisola iberica. Fra la sconfitta di Roncisvalle e la resa di Granada ci furono le guerre della reconquista, la formazione dei regni di Navarra, di Castiglia, di Aragona, le crociate e le gesta dei cavalieri templari. C’era materia per scrivere altre dieci Iliadi e sulla base delle chansons de geste si sviluppò la produzione letteraria che va da Boiardo a Tasso. Ma oltre ai poeti il cui nome è rimasto nella storia della letteratura universale ci fu una enorme quantità di mestieranti della penna, ognuno dei quali creò il suo supereroe (nel sesto capitolo del Chisciotte Cervantes ne cita una ventina).

    Ma torniamo al nono secolo. Mentre a sud si combatteva con gli arabi, anche nel nord proliferavano storie e leggende: nelle isole britanniche nacque la saga di Artù e del mago Merlino. Il popolo dei vichinghi si era diviso: una parte si era stanziata in Danimarca, l’altra in Bretagna. Dai primi vennero gli spunti che più tardi servirono a Shakespeare per Amleto e Re Lear. Gli altri presero il nome di normanni e, per via del maggiorascato, i loro cadetti andarono a conquistare due isole: la Sicilia e l’Inghilterra. Artù e la Tavola Rotonda approdarono sul continente come bottino di guerra e lì si fusero con la leggenda del Graal. Nel dodicesimo secolo la storia di Parsifal prese forma compiuta. E la saga crebbe arricchendosi di nuovi episodi finché, nella seconda metà dell’Ottocento, Wagner la ricuperò elaborandola fino a trarne nuovi significati.

    E proprio questa è una delle caratteristiche più importanti del mito: evergreen perché si presta a sempre nuove interpretazioni, e spia di qualcosa che è eternamente presente nell’animo umano. 

                                                               ***

   Sceverare il vero e il falso, quanto è storia e quanto è fantasia nel mito del Graal, è un’impresa forse impossibile e certamente inutile. In effetti, è perfino dubbio che cosa sia il Graal. Secondo il mito, dovrebbe essere il calice nel quale Gesù consacrò il vino durante l’ultima cena. Lo stesso calice avrebbe poi raccolto il suo sangue quando colò dalla croce dopo che il centurione Longino gli ebbe ferito il costato con un colpo di lancia. Conservato da Giuseppe d’Arimatea, quel calice sarebbe pervenuto in Europa (non necessariamente nel modo raccontato da Dan Brown nel Codice da Vinci) e l’invasione araba del settimo-ottavo secolo avrebbe avuto, tra l’altro, lo scopo di impadronirsene.

    Nel mito, il calice e la lancia sono connessi. È il caso di ricordare che nella cattedrale di Valencia si conserva una ciotola che tutta la Spagna considera il Graal (Grial in castigliano), e che a Norimberga (portata lì da Hitler, che la fece prelevare dal Kunsthistorisches Museum di Vienna dove si trovava da tempo immemorabile) si conservava la Heilige Lanze, ovvero la punta di ferro della lancia di Longino*. Che queste due reliquie siano autentiche è cosa molto dubbia (la Chiesa si guarda bene dal riconoscerle tali), ma la loro esistenza secolare testimonia, se non altro, l’età e la durata del mito.

    D’altra parte, da quando Freud ha insegnato a vedere simboli sessuali dappertutto, è difficile negare che una lancia sia un evidente simbolo fallico (e una ciotola figuratevi un po’ cosa può essere). Secondo questa linea di pensiero è abbastanza legittimo immaginare che preesistenti miti pagani di fertilità abbiano trovato nuova vita rivestendosi di simboli cristiani e originando il mito del Graal.

    Non ci sarebbe niente di strano: molte caratteristiche non proprio marginali del cristianesimo si rifanno a culti e filosofie precristiane. La data del Natale, tanto per fare un esempio, è la stessa in cui, nel culto mitraico, il Sol Invictus tornava ad allungare le giornate. Negli ultimi due secoli di vita dell’impero romano, quando il cristianesimo divenne religione di stato, il culto di Mitra era ancora diffusissimo e la Chiesa adottò la strategia di sovrapporre le sue liturgie alle analoghe liturgie pagane: in questo modo ne annacquò il significato, ma una parte dei contenuti preesistenti sopravvisse.

    Tanto per dare almeno in parte ragione a Freud, il mito del Graal mescola fatti descritti nei Vangeli con i sensi di colpa connessi alla sessuofobia e l’ossessione della purezza sfocia nella repressione dell’impulso sessuale. Lo scontro di ego e superego genera addirittura un lapsus rivelatore: il roy pecheur, figura centrale del mito, può essere tanto re pescatore (il Papa-san Pietro) quanto re peccatore (caduto nel peccato di concupiscenza e ferito all’inguine).  

                                                               ***

    Come ogni mito che si rispetti, anche quello del Graal ha molte versioni e dalla storia principale si diramano storie secondarie. Il collegamento con la Tavola Rotonda è optional, come anche con la storia di sir Gawain o con le avventure di Bohort e Galahad. Probabilmente la formalizzazione più compiuta del mito è quella di Wolfram von Eschenbach, poeta e cavaliere templare, che la scrisse intorno al 1210.  

    A prescindere dalle imprese dei cavalieri erranti, il centro del mito è la ricerca. Di che cosa? Del Graal, certo. Ma che cos’è il Graal? È il paradiso, è la felicità ultraterrena, è la liberazione dalla concupiscenza. Nel mito le tre cose coincidono perché il sesso è considerato il male assoluto, pieno di allettamenti irresistibili. L’unico modo per sconfiggerlo è esercitare una virtù disumana rimanendo vergini.

    La ricerca del Graal è aspirazione a una ipotetica “verità originaria” e contrasta con la visione greca del progresso attraverso la trasgressione. I greci, proiettati nel futuro, vedevano la verità come un traguardo da raggiungere con audacia e astuzia. L’uomo medievale guarda al passato e vede la verità come qualcosa di sepolto sotto cumuli di trasgressioni: qualcosa da dissotterrare con spirito da archeologo più che da conquistare con spirito da avventuriero.

    Nella versione più tarda del mito, quella wagneriana, tutti gli elementi raggiungono l’eccesso nella coerenza: il “cattivo” Klingsor è un mago casto perché (nientemeno!) si è autoevirato, il “buono” Parsifal è un eroe vergine non solo sessualmente ma anche a livello cerebrale: è un “puro folle” che non sa da dove viene e nemmeno come si chiama (cioè, tanto per parlar chiaro, è un po’ scemo).

    Wagner arrivò a questo punto (di mistica o di balordaggine) rielaborando la saga in chiave di “teoria del buon selvaggio”. Rousseau, anche lui influenzato dal mito, ne aveva colto il lato più stupido e l’aveva portato alle estreme conseguenze costruendoci sopra una teoria tanto suggestiva quanto priva di pezze d’appoggio.  

    Il Graal è dunque la ricerca di una purezza sovrumana, edenica, pre-peccato originale. Ma la morale della favola non è: “cercate, perché il bello della caccia è la caccia stessa”. Se l’esito fosse questo, arriveremmo all’assurdo di una celebrazione del buon senso, tutto si ridurrebbe ad accettare la quotidianità, mancherebbe la trasgressione, e che fine farebbe il mito? Al contrario, il Graal obbliga a considerare la vita come un mezzo per ottenere uno scopo; non ci si può accontentare di viverla, non si può considerarla fine a se stessa. E lo scopo è l’estrema trasgressione: la pretesa di raggiungere una condizione soprannaturale sottratta alle pulsioni della carne, di trovare una consistenza al di fuori di sé, di esistere fuori dal corpo. Plotino la chiamava fughé mónou prós mónon: fuga di uno verso l’Uno.

    Estasi, insomma.

* Nel 1946 la Heilige Lanze fu riportata a Vienna dagli americani. Stando a Wikipedia sarebbe oggi esposta in una Schatzkammer alla Hofburg.

 

                                                  Don Giovanni

 

    Sarà un caso che gli unici due miti prodotti in epoca moderna siano nati in Spagna? Don Giovanni e don Chisciotte nascono nei primi anni del diciassettesimo secolo, uno a Siviglia, l’altro nella Mancha (ma tutti e due da padre castigliano). C’è qualcosa che unisce e tiene stretta l’immagine del libertino con quella del sognatore a oltranza? Forse sì, ma è un discorso complicato e lo concluderò nel prossimo post, parlando di don Chisciotte.

    Intanto, provo ad abbordare l’argomento da un altro lato.

    Una delle mie convinzioni più radicate è che tanto il comunismo che il liberismo sarebbero sistemi sociali perfetti se gli uomini fossero nel primo caso tutti buoni e nel secondo tutti intelligenti. Il che non è. Legislatori e uomini politici dovrebbero tenerne conto: nella Storia abbondano i casi di intolleranza, con relativo inevitabile fallimento.

    Un esperimento che presenta qualche analogia con quello avviato da Lenin nel 1917 era stato tentato molto tempo prima in Spagna. Uno degli obbiettivi dichiarati del comunismo era la palingenesi, il cambiamento in meglio della natura umana. Già nel quindicesimo secolo l’Inquisizione, Torquemada e i reyes catolicos avevano concepito l’idea che, se gli uomini non erano tutti buoni, bisognava costringerli a comportarsi bene, e quelli che proprio non ne volevano sapere dovevano essere tolti di mezzo in vari modi (espellendoli come gli ebrei e i moriscos, o bruciandoli nei roghi degli autodafé).

    Purtroppo o per fortuna, neanche i regimi tirannici riescono a eliminare del tutto il dissenso. Gli intellettuali, per esempio, sono conformisti per vocazione ma vogliono conformarsi dove fa comodo a loro. (Questa degli intellettuali è una faccenda complicata e sofistica sulla quale potremmo discutere fino a domani mattina, ma consente di affermare che, in generale, gli uomini ci tengono a fare parte per se stessi). Il massimo a cui può aspirare il potere è riunire una maggioranza e coltivarsela, ma è statisticamente impossibile che tutti, proprio tutti, si adattino alle pretese del potere. Il regime controriformistico spagnolo avrebbe voluto trasformare i suoi sudditi in altrettanti Parsifal casti e puri, ma picchiò la testa contro il più banale degli ostacoli: l’impulso sessuale.                                                     

    Anche nei secoli culturalmente dominati dal mito del Graal gli esseri umani continuarono a copulare dentro e fuori dal matrimonio, e a ritrarne quel piacere che la natura dispensa imparzialmente tanto agli innamorati che ai libertini. Non solo: in un periodo cupo e autoflagellante come quello della Controriforma, il peccatore impenitente, pronto a mentire, a tradire, a battersi a duello e, insomma, a sfidare il pericolo per un’avventura galante, diventava popolare perché la gente, dentro di sé, lo intuiva vero e vivo. Tutti quanti, uomini e donne, avrebbero voluto possedere la spregiudicatezza del trasgressore (salvo pentirsi un attimo prima di morire).

                                                          ***

    Don Giovanni nasce da padre ignoto e viene adottato da un letterato. A proposito delle sue origini ci si è sbizzarriti fin troppo: si parla di ascendenze arabe oppure asturiane, che è come dire il giorno e la notte. Personalmente sono del parere che l’idea del seduttore a oltranza sia nata dalla fama tutta locale di qualche sciupafemmine di Siviglia. Non sappiamo come si chiamasse; fatto sta che il prototipo del libertino ebbe il nome di don Juan Tenorio. A darglielo (o a raccoglierlo dalla vox populi) fu Gabriel Tellez, un prete che compose diverse pièces teatrali con lo pseudonimo di Tirso de Molina.

    Don Giovanni fa la sua prima apparizione nella commedia intitolata El burlador de Sevilla, edita nel 1630 (ma c’è motivo di ritenere che la sua  gestazione sia iniziata nel 1617) ed ebbe una fortuna immensa. Oltre al don Giovanni di Molière e a quello di Mozart-Da Ponte, ne furono confezionate cento altre rivisitazioni da poeti e commediografi di tutta Europa. 

    La caratteristica dei miti moderni, dei quali siamo in grado di osservare la genesi (ma chi lo sa? forse anche i miti antichi erano nati nello stesso modo), è che sbocciano per generazione spontanea da idee laterali che l’autore in un primo tempo non aveva preso in considerazione. La storia di don Giovanni, così come ci viene consegnata dalla letteratura, si sviluppa a partire da un canovaccio collaudatissimo che, agli inizi del Seicento, cominciava a essere ormai usurato: il seduttore abbandona la fidanzata per sedurre una ragazza che è a sua volta fidanzata con un altro; seguono vicende avventurose (di solito viaggi per mare con naufragio) finché interviene un deus ex machina (di solito un re) che impone nozze riparatrici a seduttore e sedotta, e nozze consolatorie ai due cornuti.

    Tirso de Molina ebbe l’idea di sostituire le “vicende avventurose” con altre vicende seduttorie, e già questo era un primo passo verso la costruzione del mito. I passi successivi derivarono dall’inserimento di due altre storie, che probabilmente non si riferivano allo stesso personaggio, ma che servirono a sottolineare la spregiudicatezza dei suoi comportamenti. Risultarono decisive proprio perché da un lato hanno qualcosa di incongruente con il don Giovanni che ha in mente solo il sesso, ma dall’altro lo elevano a tipo universale creando la  personalità di chi prova gusto a trasgredire (innanzitutto nel sesso ma, all’occorrenza, in tutto). Don Giovanni uccide il commendatore Gonzalo de Ulloa perché non vuole sposarne la figlia che pure ha sedotto; successivamente, dopo altre avventure libertine, capita una notte di fronte alla statua funebre del commendatore e lo invita burlescamente a cena. C’è in questo gesto di sfida un’eco della decapitazione delle erme: è roba di venti secoli prima, ma spiega come meglio non si potrebbe che don Giovanni, come Alcibiade, ama la trasgressione fine a se stessa.

    Come poteva finire una storia simile, per di più scritta da un religioso, se non con la punizione del peccatore? Omicidio e scena della statua sembrano studiati apposta per non lasciare che il responsabile di tante fanciulle traviate la faccia franca. E infatti la statua si anima, il convitato di pietra si presenta a cena da don Giovanni e lo trascina all’inferno.

                                                                       ***

    Una storia edificante. Eppure, a dispetto delle intenzioni pedagogiche di Tirso de Molina, don Giovanni che precipita nella geenna del fuoco non ha mai ammaestrato nessuno. La punizione del trasgressore incallito non instilla nei giovani l’aspirazione alla virtù di Parsifal, non ispira ai vecchi un desiderio di pace e di rassegnazione. Al contrario: la storia di don Giovanni continua ad alimentare nei ragazzi il desiderio di emulazione e negli anziani il rimpianto delle passate prodezze.

    Tanto fu il successo della figura del libertino che in pieno Settecento si incarnò nella vita e nelle avventure di Giacomo Casanova. È vero che un paio di volte (su, pare, 128) capitò anche al principe dei latin lovers di innamorarsi sul serio, ma è un po’ poco per considerarlo puro di cuore. Anzi: Casanova fu così cinico da dar consigli a Da Ponte per il libretto del capolavoro di Mozart. Del resto il Settecento, secolo straordinario, fu pieno di avventurieri. Oltre a Casanova, anche Saint Germain, Cagliostro e centinaia di cialtroni sul modello di Barry Lyndon, diedero un contributo involontario ma non trascurabile al secolo dei lumi.  

    In ultima analisi, così come ci è stato consegnato dalla letteratura, don Giovanni è il mito di chi insegue la trasgressione per puro impulso giovanile. Trasgredisce perché non può farne a meno, perché questa è la natura di ogni figlio di Adamo. Questa è l’interpretazione che ne dà Richard Strauss nel poema sinfonico Don Juan: lo straordinario motivo melodico che lo caratterizza è un grido di giovinezza, di esuberanza, di vitalità. Come un giovane inesperto, don Giovanni non si cura delle conseguenze dei suoi atti. Come Icaro, è pronto a tutto per brama di conoscenza. Perderà tutto: la vita terrena e la vita eterna. In cambio, il suo nome resterà consegnato al mito.

    Ma in fin dei conti che cosa cerca don Giovanni, che cosa vuole conoscere? L’amore, la felicità. Le donne obiettano (a ragione) che l’amore è un’altra cosa e (a torto) che la felicità non è questione di attimi ma di una vita intera. Don Giovanni risponde che anche lui ha conosciuto l’amore che pretenderebbe l’A maiuscola, ma ogni volta l’ha visto finire e ogni volta ci ha sofferto. Ne ha concluso che la felicità è qualcosa che dura pochi momenti privilegiati e subito svanisce. Tutto ciò che si può fare è moltiplicare quegli attimi. Ma che un uomo e una donna si amino e continuino ad amarsi per tutta la vita è un’utopia.

    Don Giovanni ha rinunciato ai sogni e cerca l’amore fisico perché non crede più ai sentimenti. Vorrebbe mettere insieme una lunga serie di attimi felici perché ha perso la speranza di un’unica impossibile felicità. 

 

                                              Don Chisciotte    

 

    Un parallelo fra don Chisciotte e Faust non sarebbe affatto insensato: tutti e due, seppure in modo diverso, cercano il senso della vita. Ma questa serie di post si occupa dei miti in quanto tali, e Faust è più una creazione artistica che un mito, mentre don Chisciotte è a tutti gli effetti l’ultimo mito moderno.

    Il fatto curioso è che Faust esistette davvero, fu astrologo e fu coinvolto in una storia di aborti. C’è una taverna in Germania – non so più dove – nella quale si dice che abbia avuto luogo la firma del contratto con Mefistofele. Ma se Goethe non ne avesse tratto spunto per un’opera alla quale “han posto mano cielo e terra”, l’amante di Margherita sarebbe rimasto una figura senza particolare rilievo, un piccolo mito locale, e la sua fama non sarebbe uscita dall’ambito tedesco. La controprova è che l’opera va ben al di là del Faust storico. Il personaggio letterario, freddo e senza mordente, viene annullato in una visione cosmica. Chi arriva al termine della monumentale fatica letteraria è trasportato in un empireo dove non può più distinguere Faust da Fantozzi (e, in un certo senso, è giusto che sia così).

    Invece don Chisciotte non è mai esistito: la sua origine e il suo destino sono totalmente letterari. Nacque nella testa di Cervantes, prese forma sulle pagine del suo manoscritto, e sono convinto che l’autore non avesse ben chiaro dove sarebbe andato a parare fino a quando il suo estro lo portò a far vagare cavaliere e scudiero sulla Sierra Morena. Solo allora nacque il don Chisciotte del mito. Fino a quel momento l’hidalgo della Mancha era una creazione artificiale, un personaggio pensato a freddo, unicamente funzionale a mettere in burla i romanzi cavallereschi. Sulla Sierra Morena cambiò totalmente. Di punto in bianco diventò l’emblema della spinta che muove l’umanità e la preserva dal suicidio collettivo: la speranza che va oltre la ragione.

    Come c’è arrivato Cervantes? Con il procedimento letterario conosciuto come pensiero poetante. Lo scrittore parte da uno spunto qualsiasi, che però lo coinvolge profondamente, e lascia che i personaggi gli prendano la mano: la storia la scriveranno loro. Così facevano gli scrittori dei romanzi d’appendice, così Pirandello esemplificò la creazione artistica nei Sei personaggi in cerca d’autore. Cervantes partì con l’intenzione di satireggiare gli scribacchini suoi contemporanei e, strada facendo, trovò qualcosa di insperato: sotto i suoi occhi quasi increduli il protagonista sfuggì al suo compito di comico antieroe, fratello gemello del conte di Culagna nella Secchia rapita, e si trasformò in un archetipo.

                                                             ***

    Il capostipite dei romanzi moderni nasce dunque come parodia dei romanzi d’avventure, ma ben presto Cervantes comincia a infarcirlo di storie pastorali e di ricordi della sua prigionia nei paesi arabi perché si rende conto che, senza diversivi, le disavventure dei due protagonisti diventerebbero monotone. Senonché, per quanto l’autore sbrigli la fantasia, tutto ricade nei soliti cliché.

    Fino al capitolo 26 niente lascia sospettare il colpo di genio. E quando nella mente di Cervantes balena la grande idea, l’autore la fissa sì sulla carta, ma non ci torna sopra, si guarda bene dall’insisterci e conclude la prima parte del romanzo senza più menzionarla neanche di sfuggita.

    Davvero vogliamo pretendere che il romanzo sia stato concepito sin dall’inizio per celebrare chi trova nel sogno una realtà più vera? Io ho qualche dubbio. Secondo me Cervantes si mise a scrivere così come gli veniva, senza darsi troppo pensiero di incoerenze e dimenticanze (che in seguito gli furono rimproverate e lui stesso tentò di aggiustare con toppe peggiori del buco). Se le bastonature rimediate dal Cavaliere dalla Triste Figura e dal suo scudiero non avessero divertito il pubblico, se il libro non avesse avuto successo, Cervantes non avrebbe scritto la seconda parte e don Chisciotte sarebbe caduto nell’oblio o tutt’al più sarebbe stato ricordato come uno dei tanti romanzi picareschi nella scia del “Lazarillo de Tormes”. Ma il libro vendette trentamila copie, un certo Avellaneda ne scrisse un sequel apocrifo e Cervantes intervenne. Ristabilì la sua autorialità e il suo personaggio acquisì una statura mitica.

    Nella seconda parte del romanzo la satira dei romanzi cavallereschi è più in sordina. Il cavaliere mancego ragiona su ogni argomento sfoggiando cultura e buon senso; Sancho, che non ha pregiudizi nobiliari e per tutta cultura ha il refranero español (il repertorio dei proverbi), gli tiene testa. L’uno e l’altro sono perfettamente attrezzati per affrontare la vita. Le uniche stranezze sono la mania di don Chisciotte di essere cavaliere errante e la fissazione di Sancho di diventare governatore di un’isola. Da storia satirica, la vicenda si converte nella storia di un’ossessione. 

                                                               ***

    Nei primi venticinque capitoli non è chiaro se don Chisciotte sia completamente pazzo o semplicemente fissato. I suoi guai, le sue bastonature sembrano più che altro una metaforica indicazione del trattamento da riservare ai pennivendoli che hanno partorito Amadigi e compagnia cantante (e un ammonimento per il lettore che, seguendo le vicende assurde dei cavalieri erranti – o i cartoons dei supereroi – non rischi di perdere il senso critico). Insomma, fin qui Cervantes è didascalico come chiunque faccia della satira.

    Ma quando il Cavaliere dalla Triste Figura giunge sulla Sierra Morena si squarcia il velo della sua (pretesa) follia e tutto appare in una nuova luce. Improvvisamente don Chisciotte decide di imitare Orlando e di perdere il senno anche lui per amore dell’impareggiabile Dulcinea (esibendo un amore casto e fittizio, esattamente all’opposto di don Giovanni). Quando Sancho gli fa presente che Orlando impazzì perché Angelica gli aveva messo le corna, mentre non risultava che Dulcinea avesse tralignato, don Chisciotte risponde:

    Questo è il punto, e questa è la finezza della mia situazione; perché, se un cavaliere errante diventa pazzo per qualche ragione, grazie tante! Il bello sta a impazzire senza motivo, e lasciar capire alla dama che, se posso far questo a freddo, di che cosa non sarei capace a caldo? (…) Pazzo sono, pazzo sarò fin tanto che tu non torni con la risposta a una lettera che con te voglio mandare a Dulcinea, mia signora; e se la risposta sarà come la fedeltà merita, cesseranno la mia stoltezza e la mia penitenza; ma se fosse il contrario diventerò pazzo veramente, ed essendolo davvero, non soffrirò più. Quindi, in qualunque modo mi risponda, uscirò dal tormentoso dubbio in cui mi lascerai, o per godere da savio il bene che mi arrecherai, o per non sentire, da pazzo, il male di cui sarai apportatore.   

    Cervantes ha finalmente trovato il suo don Chisciotte: un uomo sulla cinquantina (e questo è un particolare di importanza fondamentale), in grado di ragionare e sottilizzare con una certa logica, che decide lucidamente di credere all’incredibile perché il sogno è mille volte più bello della realtà.

                                                             ***

    Il mito è immortale perché ci induce a pensare a noi stessi. De te fabula narratur. E il mito di don Chisciotte è la più accurata approssimazione possibile al senso della vita umana. Si potrebbe quasi dire che l’hidalgo della Mancha (non Parsifal e certamente non don Giovanni) ha trovato il Graal. E se pure non l’ha trovato, c’è andato assai vicino, perché la via indicata da don Chisciotte è meno peregrina di quanto sembri. È anzi piuttosto sofisticata e necessita di una premessa.

    Gli obbiettivi che a vent’anni sembrano irrinunciabili a quaranta mostrano crepe e a sessanta vanno in soffitta. Finché si è giovani si fatica per il proprio utile, si corrono rischi per imporsi, si trasgredisce per ottenere ciò che si vuole. Insomma: da giovani si è giustamente egoisti. Ma più il tempo avanza più diventa manifesto che, da un lato, gli obbiettivi raggiunti non hanno dato tutta la soddisfazione che promettevano e, dall’altro, scarseggia la spinta per insistere a rincorrere gli obbiettivi mancati. Comincia la mezza età.

    Per spiegare la genesi del comportamento di Don Chisciotte ci sarebbe voluto un prequel che dicesse queste cose. Cervantes l’ha evitato, e ha fatto benissimo, ma i lettori devono immaginarselo, altrimenti il libro perde tre quarti del suo significato. Il guaio è che non possono farlo finché non sanno di che cosa si tratta. Leggere il Don Chisciotte prima dei cinquant’anni ha senso soltanto se ci si ripromette di rileggerlo a tempo debito. Non a caso il protagonista ha proprio quell’età: l’età in cui don Giovanni, se insiste a cercare avventure galanti, decade da mito a macchietta.

    Ci sono cose che si possono capire solo quando si provano nella propria carne e, come ebbe a dire Trotzky (che di rivoluzioni se ne intendeva), non c’è niente di più rivoluzionario della vecchiaia. Solo dopo i cinquant’anni è possibile capire la scelta donchisciottesca di sublimare l’andropausa nel piacere estetico. Don Chisciotte rifiuta la quotidianità, abbandona tutto ciò che gli altri ritengono un dovere, e inizia a comportarsi coerentemente con ciò che ha deciso di credere: farà ciò che gli esce dal cuore, anche se fa a pugni con la realtà, anche se procura bastonate e lo scherno della gente.

    Alonso Quijano diventa don Chisciotte e segue un sogno per la sua bellezza (e guarda un po’: è proprio Faust quello che grida “Fermati! Sei bello!”). Così facendo trova un senso, una speranza, un motivo per vivere ancora. Con lui nasce l’uomo moderno, relativista alla ricerca dell’assoluto, scettico e romantico al tempo stesso.

 

                                                   Satira  

 

    Sospendo per un turno la serie dei post sui miti: don Giovanni e don Chisciotte la riprenderanno e la concluderanno. Nel frattempo l’impareggiabile Filippo Makaus (del quale tutto il mondo va sospirando “L’aeronauta”, il romanzo destinato a sconvolgere la letteratura mondiale, anzi, europea; ma che dico? italiana!) l’impareggiabile di cui sopra, dico, si esibisce in una funambolica presa in giro del neopositivismo viennese e dei suoi epigoni italioti, sfidandoli a calcolare la distribuzione del parmigiano grattugiato sul risotto. Leggete, miei cari, con quanta soave leggerezza don Felipe si burla dei sentenziosi e superciliosi materialisti.

 

                Distribuzione

di una sostanza atomizzata su una superficie

irregolare: un modello matematico

 

 

     Dal tavolaccio della trattoria
disse il professor Loi con impazienza:
«Fratelli miei, uomini di scienza,
grazie di esser presenti a questa mia
nuova sessione
che, parlando ovviamente di teoria,
dovrà innescare una detonazione.
     Statistica applicata, matematica pura

e fisica dei quanti
han fatto un gigantesco passo avanti
nel mio modello interdisciplinare
che serve solo a questo: misurare.»

Irrefrenabile coro degli scienziati:

     Misura, misura, misura,
con il tuo sguardo sempre più profondo,
ogni parametro della natura,
ogni segreto del mondo;
misura, misura, misura,
dall’universo al topo
a noi preme vedere la struttura,
non certo l’ultimo scopo.

     «Dai, Margherita, sposta quel coltello,
e tu, Odifreddi, se hai in mano il pennarello
traccia sulla tovaglia apparecchiata
l’ascissa e l’ordinata
che come un primo colpo di cannone
diano il segnale: è la rivoluzione:
diciamo BASTA all’origine del tutto,
e non se ne può più di buchi neri:
la scienza ormai deve portare un frutto
per vere donne e per uomini veri
i quali, fatti d’ossa, carne e sangue,
non sognano, non essendo marziani,
mondi remoti e strani
se è proprio qui che la ricerca langue.
     Ma bene, ecco che arriva finalmente
quell’ottimo piatto di riso cotto
detto, colleghi stranieri, “risotto”,
sul quale opereremo con la mente:
lo scopo del lavoro è di osservare
l’oscillazione impressa al cucchiaino
in modo da far come nevicare
(non sulla coca-cola, non sul vino)
un velo di formaggio grattugiato
su quella superficie irregolare
dove ogni chicco è già posizionato
come non si poteva calcolare.
     Brindiamo, amici, forza, tutti quanti,
al paradosso che ci sta davanti:
alziam la coca-cola, alziamo il vino
se la scienza ci tocca da vicino.
     Col parmigiano, il paradosso è
questo: mi programmo per essere casuale;
e mi ritrovo a chiedermi ben presto
se l’effetto mi venga bene o male.
     L’uomo di scienza ha una risposta sola —
la sua immaginazione, no, non vola —:
la sua risposta, se vogliamo, dura
è che ci vuole un metro di misura.»

Coro sghignazzante dei cuochi e dei camerieri dell’osteria:

     Misura, misura, misura,
per combattere la tua paura
del panorama non noto
di un semplice quaderno vuoto;
misura, misura, misura,
ma anche se ci studiassi tutto il giorno
con la tua matematica pura
li bruceresti i peperoni al forno.

     Ma se gli giunse un fiato di quel coro
Il nostro diede una risposta d’oro,
una sua replica quantitativa
che sgorgò come sgorga acqua sorgiva:

p/s (micr) + [c (dv/dt) l / fr (osc)] t (f) + pr

+ [(H²O) (gr/m³) (ar)] + [tr/tc + § (c)] + ® —› (l)

+ g (ok) + (h) s/t + [cip. (a), ag (a), cav (a)]

+ pr (art) (opt) + pr (art) (mgl) + ans/dgl (mgl) +

[r (m) / a (m) / g (m)] + ing!
(le variabili sono:
   – grado di polverizzazione della sostanza

espresso in micrometri;
   – rapporto tra l’accelerazione laterale del

cucchiaino e la frequenza delle oscillazioni

moltiplicato per la durata della singola fase;
   – turbolenze dell’atmosfera a bassissima

quota generate dalla temperatura e dalla

sezione delle cozze;
   – rifrazione di onde sonore nel locale;
   – se il polso all’operatore non fa male;
   – rapporto delle altezze sedia/tavolo;
   – se l’aria sa, o se non sa di cavolo;
   – pressione arteriosa dell’operatore;
   – pressione arteriosa della moglie;
   – la di lei ansia per eventuali doglie;
   – morale in zona rossa, azzurra o grigia
   – e — finalmente — il tasso di ingordigia).

     Ma a questo punto, chiederete voi,
chi era questo grande personaggio
che ci si aspettava avrebbe poi
misurato la pioggia di formaggio?
     Ebbene, l’uomo, Ernesto Mario Loi,
aveva preso il Nobel per quel raggio
che calcola la massa nucleare
dei datteri di mare,
traccia i diagrammi di inverosimiglianza,
e conta anche i divani in una stanza.

     Ma qui intervenne, a seminar zizzania,
Fritzi Von Neumann, scienziato di Germania:
«Non nasconderti tu dietro tuo dito:
progetto di chi come bimbo sogna
prima di cominciare è già fallito:
vergogna, vergogna, vergogna, vergogna!
     Io indignato, me ne vado, esco
se non sai tu quello che sa Tedesco
con maniere visigote e rozze,
cioè che non va parmigiano su cozze:
molto grande, molto tremendo oltraggio
mettere su molluschi tuo formaggio!
     Riesci a capire, tu che sei di scuola
che con risotto beve coca-cola?»

     Ernesto levò il braccio, alzò il bicchiere,
ma non proponendo in letizia di bere:
il vetro atterrò sopra un naso tedesco,
e un rosso fiotto fresco
calò sopra le cozze e il riso al dente
nella maniera seguente:

499 cc (RH +) / [fmg (n) + rs² + COZZ³] = CAZZ²²³

    Dopo di che
fra tutti quei cialtroni
furono pugni, calci ed equazioni.

 

                                                         Voti e giudizi 

 

    I primi quattro capitoli di “Victor” sono stati letti, nell’ambito di un concorso, da nove lettori anonimi e sconosciuti (anche fra di loro).

    Ognuno ha dato un voto e un giudizio, che riporto qui di seguito.

    I voti vanno dal 4 al 9. I giudizi sono quantomeno disparati.

    Invito i ventitre frequentatori di questo blog a leggere e commentare. Commentate tutto quel che volete: testo, giudizi e voti. Non è necessario firmare. Dite quel che vi pare in assoluta libertà. Datemi un’opinione in più. Ne ho bisogno perché sono sbalordito: non immaginavo di raccogliere giudizi così diversi fra loro.

    Per esempio:

    – fra i nove lettori c’è chi apprezza il mio modo di scrivere e chi no, chi si cala nei personaggi, chi li sente fittizi, chi gradisce il mistero e chi la storia d’amore. Insomma: di tutto, di più.

    – dei due giudizi più prolissi (e negativi), il primo riguarda un lettore che voleva un giallo psicologico, ha trovato una cosa diversa e la cosa gli dà fastidio; l’altro non approva l’uso della prima persona e ne prende spunto per tenere una conferenza sul giallo.

    – il terzo giudizio negativo postula una concezione dell’ironia che non viene precisata ma che, evidentemente, non è la mia. 

    Non riesco a trarre da tutto ciò una indicazione utile. Eliminare l’elemento satirico non avrebbe senso. E perché dovrei farne un giallo psicologico o un hard boiled? E davvero i lettori sono disposti ad apprezzare un libro solo se fin dalle prime righe riescono a incasellarlo in un genere?

 

    Quanto alla scrittura, c’è chi la vuole a ritmo di battaglia e chi gradisce una narrazione più distesa. Uno considera frizzante lo stile, un altro lo ritiene sciatto. Insomma: anche qui non riesco a ricavare  indicazioni.

 

    Altre cose, più specifiche:

    – due lettori su nove non hanno gradito la digressione sui blog. Potrei toglierla. Ma chi legge sa che cos’è e come funziona un blog? Non è detto. E se io non lo spiego, potrebbe avere problemi a capire il seguito.

    – in qualche giudizio si fa riferimento a una sinossi. L’ho buttata giù al momento, non l’ho salvata in un file e adesso non posso offrirvela come elemento di giudizio. Peccato. Ma vi garantisco che non ci avete perso niente.

 

    Insomma, dal test di lettura ho ricavato solo piccolezze come queste:

    1) alcuni lettori dicono di aborrire i luoghi comuni. Voi ne avete trovati? Ci avete fatto caso? Vi hanno dato fastidio? Secondo me i luoghi comuni sono verità che meritano di essere spolverate e rimesse all’onor del mondo. Ma forse sono io che spolvero male. Devo cambiare spazzola?

    2) a un lettore non piace “ginocchi”, plurale irreprensibile che sarei disposto a difendere con le unghie e coi denti. Ma siccome nei capitoli successivi c’è un “ginocchia”, ho corretto: ginocchia dappertutto, e amen. Difendere “ginocchi” in un caso e “ginocchia” nell’altro non è impossibile, ma è stupido.

    3) altri lettori lamentano scorrettezze di stile e grammaticali, senza specificare. Le ho cercate e non sono certo di averle trovate. Voglio dire: le uniche correzioni che mi vengono in mente sono toscanismi da Accademia della Crusca. A ogni buon conto, se mi segnalerete queste sgrammaticature ve ne sarò grato. 

 

     Ecco i voti e i giudizi:

 

Voto Giudizio
7 La storia si presenta originale e lo stile discorsivo e ironico quanto basta. In quasi ogni pagina dell’incipit si avverte tensione narrativa. Qualche digressione tuttavia risulta troppo lunga e andrebbe sfoltita. Non manca neppure qualche svista nell’uso dell’ausiliare. Buono.
8 La storia è intrigante. La voce narrante non manca di rendersi simpatica con una moderata ironia che sortisce su chi legge (almeno, su di me lo ha fatto!) un piacevole effetto esilarante. Il lettore, di tanto in tanto, viene coinvolto in modo attivo nella narrazione e questo introduce un elemento di freschezza nell’impianto della storia. La trama è ben congegnata fin dall’inizio. Rilevo una pecca nella frettolosità narrativa che caratterizza alcuni passaggi della storia (ovviamente non posso sapere se voluta solo all’inizio o ricorrente), quasi l’autore avesse fretta di fornire gli elementi utili alla comprensione del racconto. In ogni caso il modo di scrivere e la struttura narrante invogliano alla lettura. Questo senza ombra di dubbio. L’autore/autrice è sicuramente una persona di buona cultura e questo fa a pugni con alcune ingenuità grammaticali (ad esempio “i ginocchi”). Lo stile è scorrevole, consente di capire al volo la situazione, i tempi e i modi con cui si svolge la vicenda. Il linguaggio è frizzante dotato di ottimi inneschi narrativi, farcito qui e là di quel tanto di cultura che stimola la curiosità del lettore che ama ampliare le proprie conoscenze. I personaggi sono ben caratterizzati e risultano divertenti nell’esercizio del ruolo che l’autore gli conferisce. Si rivelano in modo cattivante e appropriato tratti caratteriali tipici di alcune categorie di persone. Il romanzo si indirizza a qualunque fascia di pubblico.
5 Alcune considerazioni preliminari. La prima è che non leggo la sinossi che è quello che vede l’autore senza verifica del lettore. La seconda è che l’incipit rappresenta una piccola parte del romanzo. E’ difficile dare un giudizio. Si spera che il resto sia all’altezza. Per dare il giusto peso è stabilire il genere del romanzo: giallo psicologico. L’inizio dell’incipit ha tutte le connotazioni del giallo, ma poi vira verso qualcosa di più indefinito. Vittorio parla in prima persona narrando la storia della sua vita, ma toglie suspense alla narrazione perché spiega troppo senza creare nel lettore la curiosità di capire come si svolgono gli eventi. Poi c’è anche troppa confusione per pagine prolisse delle quali non si capiscono le motivazioni. Forse hanno un senso per quello che non si è potuto leggere, ma appaiono come slegate dal resto dell’incipit. La trama si intuisce solo in parte: il vecchio delitto spagnolo e quello milanese hanno un punto in comune un manoscritto, ovviamente diverso, che attiva curiosità differenti. Uno quello spagnolo, scritto da Vittorio, l’altro il milanese il cui autore è morto e con lui è sparito. Però la filigrana non appare chiara ma piuttosto confusa, forse per il tentativo di depistare il lettore. Quello che lo rende perplesso è immaginare la correlazione tra i due eventi, che non solo non si riesce a intuire ma neppure a concepire con la fantasia. Il ritmo è troppo blando e il tono è più da romanzo rosa che da noir o giallo. Lo stile è buono come l’italiano senza grossi sussulti. Suggerimenti? Alcuni sono detti sopra, ma andrebbe asciugato eliminando quello che non è funzionale alla storia per velocizzare la lettura. Poi personalmente partirei dall’evento di Milano che riattiva in flashback l’episodio misterioso della Spagna dove è coinvolta una donna che Vittorio ama. In questa maniera il filo logico della trama è più congruente e si crea aspettativa nel lettore.
6 Vivevo a Madrid e andavo spesso a Salamanca… La prima parte del testo parla soprattutto dei fatti accaduti a Salamanca: la morte di don Agustin, di Rafael Romero, di Miguel Angel. Vittorio Fabbri sospetta di Mayte, la sua morosa, che scompare. Poi il trasferimento a Milano e qui il romanzo migliora. Mi sembra bella l’idea di vedere quanta gente gira attorno a una libreria. Quanti scrittori, quanti poeti, quanti artisti quasi tutti permalosi e quasi sempre con speranze che vanno aldilà delle loro possibilità. La scrittura invece non mi convince, ha poco ritmo e le divagazioni (vedi cos’è un blog) non aiutano. Vittorio Fabbri diventa socio della libreria Viganò. La morte di uno dei letterati, certo Turchetti, in una stanza chiusa dall’interno apre ad alcune ipotesi investigative. Indaga l’ispettore Soriano. Poi, colpo di scena, i fatti di Salamanca ritornano in campo con una telefonata di Mayte, subito interrotta. Intanto gli ha telefonato anche Raul Venturi dicendo che il suo manoscritto sulle sue disavventure spagnole è buono ma che le misure in pagine di un romanzo sono: 200, 400, 600. Sarà!
4 Il romanzo è raccontato in prima persona, come nei romanzi di Chandler e nei vecchi noir americani con la voce fuori campo. Nei romanzi hard-boiled però la soggettiva serviva a conoscere i processi mentali e i sentimenti interiori del protagonista, e ad osservare il mondo e l’azione che si andava svolgendo dal suo punto di vista, invece qui l’autore preferisce creare un dialogo quasi affabile con chi legge (domande, inviti), così che anche quando egli descrive la sua condizione di angoscia e smarrimento (ripetuta troppe volte) le pagine mancano di vera drammaticità. Se, d’altra parte, l’autore voleva imitare G. Carofiglio (anche lui dialoga con il lettore), non possiede la capacità ironica e autoironica dell’autore barese. Buona l’idea di recuperare l’espediente dell’enigma della camera chiusa, ma anche pericoloso; non è facile competere con E. Queen, D. Carr, A. Poe e A. Christie, ed è particolarmente difficile creare un meccanismo credibile e convincente. L’unico caso contemporaneo notevole che io ricordo è quello raccontato nel “Silenzio degli Innocenti” (la famosa fuga di Hannibal dalla stanza a cui si accede solo tramite l’ascensore) e rappresentato magistralmente da Demme nel film del 1991. Io non so come verrà risolto il caso della camera chiusa in questo romanzo, spero che l’autore abbia in mano delle buone carte e che non stia solo barando come hanno fatto molti altri autori prima di lui (la bibliografia della camera chiusa è vastissima e quasi sempre deludente). Troppo spesso l’autore utilizza frasi fatte che appesantiscono i dialoghi e le descrizioni. Inutili quegli inserimenti, come quello che spiega che cos’è un BLOG, che rompono il ritmo del romanzo. L’autore poi descrive troppo spesso se stesso e quello che pensa, il personaggio dovrebbe scaturire più dai dialoghi e dall’azione. In definitiva, questo inizio di romanzo non mi è piaciuto, l’ho trovato ingenuo, confuso, privo di personalità.
6 Buona introduzione quando si incontra un amore non basta una vita per poterlo cancellare ,ancor di più impigliato in quel sospeso groviglio dei forse ,20 anni per ricominciare comprendere ,inseguire sciogliere dare una risposta a quel che si è fermato dentro scappare per non affrontare da il significato del non saper più ritrovarsi quel mal vivere coperto di omicidi da il significato del ritrovarsi in quel vuoto esistenziale per coprire il suo non approfondire quel sospeso che lo rincorre non altro che il volersi ritrovare quell’amore che gli manca, forse arriverà ma per adesso manca l’essere coinvolti come attraversare il sospeso dei 20 anni bello ma non avvolgente vorrei senza nulla togliere che per amore non vi è prigione che tenga Perchè non si è più soli ma con una voglia che non finisce anzi si ingrandisce sempre più più niente mi fa paura per un sogno chiamato amore
7 Scorre veloce la vita di Vittorio. Fra un jumbo e un Airbus, come scrive lui. Una vita veloce, fatta di speranze e di rimpianti, ma descritta in modo serio ed ironico allo stesso tempo. Madrid e Milano, due città difficili da conciliare, nella loro diversità, ma scomode entrambe. Ma impossibili da dimenticare. Lo scritto scorre, veloce, più di quanto vorrei. Ho appena finito di divorare l’incipit, avrei voluto leggere anche il resto. Peccato per la sinossi, scarna e banale. Limitante. Non invoglia a prendere il “manoscritto” in mano…
9 Trovo molto efficace la narrazione in prima persona per il bel modo che ha di comunicare questo autore. Tale tipo di narrazione ha in sé il rischio di limitare la “visione d’insieme” se non è ben scritta. Invece è stato capace di farmi sentire appieno di essere dentro il personaggio e quindi Vittorio Fabbri. Forse avrei usato più dialoghi diretti e allora, secondo me, avrebbe potuto ottenere il massimo dell’effetto. Dalla, seppur sintetica, sinossi si capisce che la trama è molto interessante; ben delineati anche contesti e personaggi, ma anche le varie situazioni presenti e passate si alternano con molta naturalezza, senza essere mai forzate.
5 Se l’Autore ha voluto provare a giocare con i luoghi comuni del genere c’è riuscito poco. A parte qualche sgrammaticatura non giustificata dal contesto (mi sono chiesto dove vive, cosa fa…), il resto è fin troppo dichiarato, la donna è automaticamente dark lady. Il protagonista, dichiara, fin dall’inizio di aver molto viaggiato da quando è maggiorenne. Troppo confidenziale per essere ironico e troppo sciatto stilisticamente per essere ironico.

 

 

 

                                    Urwald e Wanderungen

 

    Per un tedesco il modo più comune di passare le ferie è camminare nei boschi. Anche in Italia c’è qualcuno che lo fa, ma non è la stessa cosa e cercare un paragone con gli escursionisti italiani sarebbe fuorviante. Da noi l’escursione è collegata all’idea della montagna – non del bosco – e alla filosofia del Club Alpino Italiano: si va in montagna per ammirare dei panorami e per mettersi alla prova lungo sentieri in salita. Ma questo è alpinismo, anche quando si riduce a qualche ora di cammino senza vere e proprie arrampicate. L’escursionismo tedesco è tutt’altra cosa.

    Ciò che attira i tedeschi è proprio il bosco. Più è fitto, più i discendenti di Sigfrido hanno la sensazione di avanzare nell’Urwald, concetto quasi sacrale che contiene ben più di ciò che noi intendiamo con “foresta vergine”. L’Urwald, fatto di alberi, arbusti e sottobosco, è una realtà viva che richiede un rispetto reverenziale. È un ambiente che ha i suoi margini di ambiguità, ma che tutto sommato è amico: un Heimat che dà rifugio, bacche commestibili e selvaggina, anche se impone di convivere con l’orso, il lupo, la vipera.

    Nel bosco il tedesco riscopre le sue origini: il cacciatore-raccoglitore che è stato dai tempi dell’ultima glaciazione fino all’arrivo dei Romani da un lato e dei popoli mongoli dall’altro. Nei tempi in cui Giulio Cesare costruiva il primo ponte sul Reno, l’Urwald era chiamato Selva Ercinia e copriva praticamente tutta l’Europa centrale. Le attuali Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Austria e gran parte dei Balcani erano un immenso bosco che a chi ci viveva forniva protezione senza bisogno di costruire muri o fossati e nutrimento senza bisogno di darsi all’agricoltura. Non c’è da meravigliarsi se un tedesco camminando per il bosco sente vibrare il suo DNA: il bosco è il giardino dell’Eden in versione germanica.

    Ma non si tratta di un imprinting genetico. Tutti i popoli sono stati cacciatori e raccoglitori in un passato più o meno lontano; se i tedeschi ne subiscono ancora il fascino è perché nel loro caso si tratta di un “ricordo” più recente. Solo a partire dal IV secolo d.C. la pressione dei popoli provenienti dalle steppe spinse Alani e Gepidi, Ostrogoti e Visigoti, Burgundi, Eruli, Vandali e compagnia bella ad attraversare l’Urwald in tre direzioni: verso Costantinopoli, verso Roma, verso la Spagna.

    Noi le chiamiamo “invasioni barbariche”; i tedeschi le chiamano Wanderungen e cioè qualcosa a metà fra le escursioni e le migrazioni. Quasi tutti i “barbari” erano di stirpe gotica (anche se appartenevano a tribù variamente denominate) ed erano viaggiatori istituzionali. La Wanderung era un modo di essere: il cacciatore-raccoglitore non è stanziale come l’agricoltore ma non è neanche nomade come il pastore; non sta fermo in un posto per il semplice motivo che nessun posto ha risorse sufficienti per dargli da vivere indefinitamente, ma quando trova un posto buono ci si ferma volentieri. Quando i popoli delle steppe cominciarono a premere sui confini della Selva Ercinia, i Goti orientarono i loro spostamenti verso sud e verso ovest. Sempre incalzati dalla marea proveniente da est, arrivarono sulle rive del Reno e del Danubio e capirono che, avanti o indietro, c’era da combattere. L’Urwald diventò il paradiso perduto.

    Si instaurò un modulo classico: i Goti davano battaglia all’Impero per ottenere un donativo. In cambio, tenevano a bada gli invasori orientali. In questa pratica Costantinopoli si dimostrò più ricca e più abile. Roma invece crollò. I Goti non ebbero più motivo di opporsi agli invasori orientali e dilagarono nell’ex-impero.

    Come ogni epopea, anche quella dei Goti si disperse in mille rivoli: i Vandali occuparono la Spagna, attraversarono lo stretto di Gibilterra e finirono in Tunisia dove, più tardi, furono spazzati dai bizantini; i Visigoti saccheggiarono Roma, poi andarono a occupare la Spagna scacciando i Vandali e rimasero lì fino all’arrivo degli Arabi; Eruli e Ostrogoti si impadronirono dell’Italia e furono sottomessi dai Longobardi, a loro volta sconfitti dai Franchi.

    Sul territorio dell’attuale Germania vivono oggi le grandi tribù dei Sassoni, dei Bavari e degli Svevi, insieme ai discendenti di molti altri clan più piccoli, senza contare le infiltrazioni slave e magiare. Ma più o meno tutti conservano nei muscoli e nelle ossa la sensazione heimlich di sentirsi a casa quando camminano in un bosco.

    In Portogallo, altro paese di grandi viaggiatori, esiste un termine specifico (saudade) per definire la nostalgia di un posto dove non sei mai stato ma che in qualche modo ti pare di conoscere. Lo stato d’animo di un tedesco nel bosco è un fenomeno a metà fra la saudade e la nostalgia vera e propria.

 

                                            Dittatori e fattore C                      

 

    E così, Gheddafi è stato linciato. L’aeronautica Nato gli ha stoppato la fuga e i miliziani l’hanno fatto fuori. Non si era nascosto in un buco come Saddam Hussein, non è scappato con la cassa come Ben Alì, non si è dato malato come Mubarak. In compenso, ha tirato avanti fino all’eccesso una guerra civile che poteva soltanto perdere e che è costata migliaia di morti.

    Si dirà: senza l’aeronautica della Nato Gheddafi l’avrebbe spuntata. Certo. Assad, in Siria, sta facendo proprio così. Ma l’intervento straniero in Libia c’è stato, e un dittatore intelligente avrebbe dovuto capire subito che non poteva farcela. Non solo: un dittatore intelligente avrebbe dovuto evitare, nei suoi 42 anni di regno, di procurarsi nemici così potenti (e così tanti!).

    Allora dobbiamo pensare che sarebbe bastata un po’ di lungimiranza per salvargli la pelle? Non è detto. Stalin, Mussolini e Hitler corsero rischi tremendi. A Stalin andò bene e morì di morte naturale (pare), agli altri due andò malissimo e finirono peggio. Francisco Franco si sottrasse a quei rischi e morì nel suo letto. Tito si permise il lusso di litigare persino con l’Urss: personalmente riuscì a sfangarla, ma la sua costruzione politica andò in pezzi. Mao Zedong, per quanto rinnegato nei fatti, è celebrato ancor oggi come “il grande timoniere”. Fra tutti i proconsoli della Russia sovietica travolti dal crollo dell’Urss soltanto Ceausescu pagò con la vita. E dunque? Ricavare una regola generale sembra problematico.

    Si dirà: non basta essere intelligenti e lungimiranti, bisogna anche fare cose concrete, lasciare un segno del proprio lavoro. Eppure questo non risparmiò a Giulio Cesare le ventitre pugnalate dei congiurati. E non si può dire che Anwar Sadat non abbia lasciato un segno profondo nell’Egitto, forse più importante (e più serio) di quello che lasciò Nasser. Ma Nasser è tuttora idolatrato, Sadat è stato fatto fuori.

    Si dirà: non bisogna rubare, circondarsi di lussi satrapeschi mentre il popolo muore di fame. Ma, a dir la verità, di tutti i dittatori si viene a sapere prima o poi che avevano approfittato indebitamente della loro carica. In maggiore o minor misura, certo. Ma non esiste un solo dittatore la cui memoria non venga in qualche modo, come dire? demistificata post mortem.

    Temo di essere tremendamente banale quando dico che per salire fino al potere assoluto, mantenerlo e morire nel proprio letto, ci vuole intelligenza, lungimiranza, autorità, controllo mediatico, e cento altre cose. Ma soprattutto ci vuole il fattore C.

 

                                              The Big Apple

 

    Ai miei tempi ho girato parecchio per il mondo ma, pur essendo andato quattro o cinque volte in America, non ne ho mai approfittato per fare una scappata negli USA. In tutta sincerità, non lo rimpiango. Forse avrebbe potuto essermi utile andarci per lavoro quando ero agli inizi della carriera. Ma la carriera l’ho fatta ugualmente (e mi ci sono rovinato la salute, non mi sono sposato, non ho avuto figli, e oggi eccomi qui più scemo di prima). Cosa avrei guadagnato andando a New York? Probabilmente la depressione mi sarebbe scoppiata in testa con qualche anno di anticipo e avrei chiuso la mia avventura saltando giù da un grattacielo (uno qualunque, non necessariamente l’Empire State Building). Sai che guadagno.

    Andare negli States da turista è sempre stata l’ultima delle cose che potevano venirmi in mente. Oggi, poi, non ci penso proprio. Tanto per cominciare, sono troppi anni che non faccio conversazione in inglese e il mio vocabolario si è così ridotto che scambiare quattro parole con un tassista o con un portiere d’albergo rischia di essere un’impresa. Senza contare i gerghi e i dialetti, che in inglese sono infiniti e a New York cambiano da un quartiere all’altro, semplicemente attraversando la strada. Ogni volta che sento gli intellettuali italiani agitare la “questione della lingua” (come se i dialetti li avessimo soltanto noi), mi torna in mente un vecchio film in cui Cary Grant impersonava un nobile inglese e commentava con Robert Mitchum, riccone americano: “Niente ci divide più della lingua che abbiamo in comune”.

    Ma il guaio più grosso è che gli States sono fatti per gente giovane, e io non lo sono più. Che ci andrei a fare? Per vedere cosa? Le pacchianerie di Las Vegas? Non mi hanno mai divertito. I grattacieli di Chicago firmati Mies van der Rohe? Non faccio l’architetto. Le cascate del Niagara, o magari Disneyworld? Chi se ne frega. Il Grand Canyon, Yellowstone Park, il Mississippi? Ecco: forse, se mi trovassi già da quelle parti, probabilmente gli darei un’occhiata, ma di andare apposta fin laggiù non se ne parla neanche. È cento volte più interessante una mezza giornata a Firenze, a Mantova, a Ferrara (o perfino a Bagnacavallo come, del resto, quasi dappertutto in Italia).

    L’unica cosa sensata è andare a New York come si va a una fiera: per vedere le ultime novità, per scoprire un prodotto o un servizio che potrebbe valere la pena di importare da noi. Ma, come dicevo, queste sono cose da giovani e non mi attirano più. La mia ultima America è stata quella di American graffiti (e Happy days, ovviamente): roba di tanto tempo fa.

    Una volta qualcuno mi ha detto che New York è un posto speciale perché già in aereo, quando comincia la discesa verso il JFK, everything’s moving faster. L’ho trovata, e continuo a trovarla, un’osservazione di una banalità assoluta. Dopo sei ore di immobilità su una poltrona non precisamente comoda, rinchiusi dentro a una fusoliera a novemila metri di quota, è logico che l’andirivieni delle hostess in prossimità dell’atterraggio dia una sensazione di iperattivismo. Ma anche quando rientro dalla Liguria a Milano, il primo impatto che ho è proprio la sensazione che lì tutto si muova più in fretta.

    È una sensazione che svanisce subito, non appena entro nel modo di essere della città. Perché in un paesino mentre fai le tue commissioni incontri persone che conosci, le saluti e loro si fermano a scambiare qualche parola con te; in città le persone che conosci non abitano nelle vie vicine alla tua, e quelle che non conosci hanno le loro commissioni da svolgere. Tutti hanno i loro impegni, in città come in un paesino ma, se non li conosci, se non puoi fermarli e scambiarci quattro chiacchiere, ti stupisci che così tanta gente corra di qua e di là senza far caso a ciò che li circonda (e a te). Vedi ma non capisci. Ti sembra che tutti si muovano caoticamente, che non siano esseri umani impegnati ciascuno in una sua privata faccenda, ma che facciano parte del paesaggio, e insomma ti pare di essere capitato in un mondo diverso, che segue regole diverse.

    In realtà, ciò che ti inibisce è soprattutto il non vedere facce note. Sei in mezzo a tanta gente, ma non conosci nessuno e nessuno ti conosce; te l’aspettavi, eppure ti dispiace ugualmente che nessuno si fermi a parlare con te. E hai l’impressione che tutti corrano, che abbiano una fretta dannata. Gli indaffarati non si guardano attorno, non si pongono domande, non fanno caso agli sfaccendati come te.

    Dunque, cosa potrei fare a New York, inevitabilmente sfaccendato fra milioni di indaffarati? Finirei per cercare altri sfaccendati (cioè altri turisti) e di NY non vedrei nulla, non capirei nulla. Dovrei andarci conoscendo già qualcuno del posto, ma ormai le mie amicizie si sono ristrette al minimo indispensabile. E poi, perché diavolo dovrei darmi da fare per andare a vedere un posto che non mi attira per niente? Tanto vale restare da questa parte della pozzanghera.

 

                                          Mack Smith fore & aft

 

    Un racconto di Kipling che ho letto tanti anni fa e del quale non ricordo il titolo parla di un reggimento soprannominato Fore & aft, che sarebbe come dire avanti e indré. Me l’ha fatto tornare in mente Dennis Mack Smith, storico inglese specializzato in faccende italiane. Ho letto la sua Storia d’Italia dal 1861 ai (quasi) giorni nostri e non posso fare a meno di tornare sul discorso della Storia che è diversa se la si guarda a posteriori oppure a priori.  

    Mack Smith mi costringe a fare un’aggiunta che può sembrare la scoperta dell’acqua calda: per raccontare la Storia a priori (e cioè per raccontare senza dare a intendere che i fatti si sviluppino in vista di uno scopo predeterminato) bisogna non avere opinioni definite (o preconcetti) su quel che è venuto dopo. Lo affermo perché, nel prendere in esame centotrent’anni della nostra Storia, Mack Smith fa un bell’avanti e indré fra Storia a priori e Storia a posteriori. Come mai? Sostanzialmente, perché Mack Smith guarda la Storia d’Italia dal punto di vista degli interessi inglesi.

    Dal Risorgimento alla Prima Guerra Mondiale gli interessi di Italia e Inghilterra coincisero, e Mack Smith (in perfetto stile a priori) prende in esame i fatti per come si presentarono di volta in volta al momento di decidere. Il tono della sua narrazione sottintende che i politici italiani dell’Ottocento avrebbero potuto evitare qualche errore ma, tanto quanto, tennero dritta la barra nella giusta direzione. Le sue valutazioni di personaggi come Rattazzi, Depretis, Giolitti e dello stesso Cavour sono basate sulle situazioni contingenti in cui ciascuno si trovò a operare e, guarda un po’, tutto va ben madama la marchesa. Il giudizio sulla repressione del brigantaggio è sostanzialmente assolutorio. I “giri di valzer” della politica italiana di fine Ottocento vengono accreditati di una certa dignità diplomatica. I brogli elettorali e le manovre dei prefetti vengono giustificati (“lo facevano tutti in Europa” dice Mack Smith, e probabilmente è vero). Perfino Crispi è derubricato da megalomane a arrogante.

    Tutto ciò ha l’aspetto esteriore di una Storia a priori. Ma il pregiudizio traspare fin dalla prima guerra mondiale. L’Italia si avvicinò agli Imperi Centrali firmando la Triplice Alleanza, ma fece la guerra dalla parte “giusta” (cioè con l’Inghilterra), e per questo, solo per questo, Sonnino, San Giuliano, Giolitti, Nicotera e compagnia, con pregi e difetti, furono intelligenti servitori del proprio paese (cioè non danneggiarono gli interessi inglesi). Per Mack Smith il bene dell’Italia è inseparabile da quello del Regno Unito. 

    Giudizi piuttosto diversi da quelli della storiografia ufficiale di casa nostra. Eppure, nonostante i pregiudizi, fin qui mi sembrano equanimi. In effetti, più guardo gli eventi con distacco, più mi convinco che la neocostituita Italia non poteva comportarsi in modo molto diverso: doveva avanzare lungo un percorso obbligato.

                                                                ***

    Tutto cambia con l’entrata in scena del fascismo. Le circostanze, le situazioni contingenti, sembrano non avere più peso. Mussolini è un genio del male (anche se di tanto in tanto viene presentato come un irresoluto afflitto dal complesso di inferiorità) perché non accetta la supremazia inglese. Per Mack Smith la vera colpa di Mussolini non è tanto l’aver instaurato un regime dittatoriale, l’aver fatto le leggi razziali, l’essersi ficcato in una guerra disastrosa, quanto l’aver fatto una politica antibritannica. Lo storico inglese arriva al punto di accreditare a Mussolini una specie di primogenitura nello scatenamento della seconda guerra mondiale! (Mai sentito parlare di un certo Hitler?).

    Fare la Storia a posteriori è un esercizio che costringe a far combaciare tutto, ma proprio tutto, con le proprie tesi. Magari a martellate. E se Mussolini era un genio del male bisogna sostenere che il fascismo andò al potere mettendo in atto una strategia che il suo capo aveva chiara in testa. Ma le idee di Mussolini pescavano nel truogolo di un socialismo positivista e pasticcione che mischiava tutto e il contrario di tutto. E di chiaro in testa aveva soltanto la voglia di far carriera.

    Renitente alla leva, nel 1911 il futuro duce va in galera insieme a Nenni per aver manifestato contro la guerra di Libia. Quattro anni dopo sostiene l’entrata in guerra contro l’Austria. Probabilmente pensa di guidare una delle tante scissioni socialiste e spera, a guerra finita, di rientrare nel partito da posizioni di forza. Invece le elezioni del 1919 sono un disastro e Mussolini è sul punto di suicidarsi buttandosi nei Navigli (che all’epoca erano scoperti). Per sopravvivere prende soldi dagli agrari conservatori ma continua a promettere la rivoluzione ai reduci. Osanna D’Annunzio e gli mette i bastoni tra le ruote. Non ha obbiettivi né strategie: il suo unico programma è “passare ‘a nuttata”.

    È verissimo che gli errori dei suoi avversari gli permettono di riprendere l’iniziativa. Ma il meno convinto del successo è proprio lui. Perfino durante la marcia su Roma naviga a vista (e deve riconoscerlo anche Mack Smith). Quando arriva il telegramma di convocazione al Quirinale, lo passa al fratello Arnaldo dicendo in dialetto: “Pensa: se il babbo fosse qui!”. Semplicemente, non riesce a credere di avercela fatta.

    Mussolini vuole la poltrona di primo ministro esattamente come Giolitti e tutti gli altri, ma con un seguito elettorale di poco più del 5% e una trentina di deputati su oltre cinquecento è il più piccolo fra tutti i contendenti. Quindi bluffa in modo temerario. La sua fortuna è che gli altri lo prendono sul serio: se uno solo dei suoi competitori fosse andato a “vedere” il bluff, Mussolini avrebbe dovuto battere in ritirata. E un comportamento così azzardato non è quello di uno stratega. Semmai è quello di un disperato che non ha niente da perdere.

                                                              ***

    Lo stesso discorso vale a rovescio per gli altri attori della tragicommedia. Tutti fessi? Tutti incapaci? Stendiamo pure un velo su Facta, che era il classico vaso di coccio fra i vasi di ferro; ma condannare Salandra, Giolitti e il re è il facile gioco di chi racconta la Storia a posteriori, a cose fatte.

    Salandra contava di ammansire Mussolini affidandogli qualche ministero: era una manovra che avrebbe anche potuto funzionare. Giolitti aspettava che Salandra e Mussolini si fregassero l’un l’altro: non era neanche una cattiva idea. Il re temeva un colpo di stato appoggiato dal duca d’Aosta, e poteva anche aver ragione. Turati era impotente, con il partito socialista dilaniato dalle scissioni. I massimalisti volevano far scoppiare anche in Italia la rivoluzione che infuriava in Russia, in Germania e in Austria. La gente vedeva il casino dilagante, con socialisti e fascisti che si menavano, e pensava: se la vedano tra di loro.

    Ma nel 1922 nessuno immaginava che il fascismo potesse instaurare una dittatura. Non lo prevedeva il re, ma neanche Giolitti, Turati o i neocostituiti comunisti. Non lo prevedevano i politici stranieri, compreso Lenin. Meno di tutti lo prevedeva Mussolini che, con il suo scarso seguito elettorale, poteva sperare soltanto in un governo di coalizione.

    Invece, secondo Mack Smith, Mussolini puntava alla dittatura fin dal 1922. Lo storico non lo ipotizza e non lo dimostra: lo dà per scontato. Fare Storia a posteriori significa proprio questo: raccontare i fatti come se i protagonisti avessero già previsto il futuro corso degli eventi.

    In realtà, la dittatura cominciò nel 1925, nel momento meno adatto, quando il cadavere di Matteotti era stato disseppellito e la squadraccia fascista smascherata. L’opposizione era sull’Aventino, la magistratura incriminava, la stampa nazionale ed estera erano in subbuglio. L’opinione pubblica era disgustata. I fascisti della prima ora stracciavano la tessera e il partito era sul punto di liquefarsi. In quella situazione, i capi delle “squadre” col pretesto di fare gli auguri di capodanno a Mussolini entrarono nel suo ufficio, lo circondarono e gli parlarono a muso duro (pare anzi che non si siano limitati a parlare): al diavolo la legalità, bisognava rilanciare spostando l’omicidio Matteotti sul piano politico.

    Di questo episodio cruciale, noto come la “rivolta dei consoli”, Mack Smith non fa menzione.

    Due giorni dopo, Mussolini dichiarò alla Camera di assumersi “la responsabilità morale e politica del fascismo”. Il senso della frase, depurato dalla retorica, era che non se ne assumeva la responsabilità penale e abbandonava gli squadristi al processo. Così la interpretarono i deputati, compresi gli aventiniani; così la interpretò il re; così la interpretarono i giornali (che, all’epoca, erano ancora liberi). Tutti la presero per una affermazione di legalità e non sospettarono di essere alle soglie di una dittatura. Fu, tanto per cambiare, un pasticcio all’italiana.

    Mussolini instaurò il regime nei mesi successivi, in modo quasi incredulo, come se dopo ogni mossa temesse la reazione del paese. Ma ormai si era bruciato i ponti alle spalle. Una volta risposto all’Aventino con misure autoritarie, allentare il bavaglio avrebbe significato riaprire il dossier Matteotti e, più andava avanti nel mettere il bavaglio all’opposizione, più era chiaro che non avrebbe potuto fare marcia indietro.

    In conclusione: Mack Smith finisce col fare troppo credito a Mussolini, che non era un “masterminder” ma, semmai, un intrigante alla maniera di Cagliostro. Prese rischi assurdi, troppe volte fu favorito dalle circostanze e finì per credersi un padreterno. Pagò con la vita, come era inevitabile. L’Italia pagò per avergli creduto, e fu un conto salato.

    Ma che tutto ciò sia la nemesi per aver abbandonato l’alleanza con l’Inghilterra, è semplicemente ridicolo.          

                                                               ***

    Il seguito, ricostruzione, miracolo economico, terrorismo, CAF e Mani Pulite, è raccontato da Mack Smith con una specie di gioia fanciullesca. Aderendo alla NATO l’Italia torna a sottomettersi all’Inghilterra (a proposito: sugli USA neanche una parola!) e il sole torna a splendere: siamo proiettati in un happy end hollywoodiano. 

    1950. Oh che bello: gli italiani si mettono al lavoro! 1960. Oh che novità: gli italiani diventano ricchi (?!). 1970/80. Oh che forza: gli italiani metabolizzano il terrorismo! 1990. Oh che scandalo: gli italiani diventano corrotti! 1992. Oh che bravi: gli italiani sanno purgarsi! E avanti così, con incrollabile fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”.

    In conclusione, leggere la “Storia d’Italia” di Mack Smith mi è servito per rendermi conto, una volta di più, che la Storia è sempre narrata in funzione dei pregiudizi di chi la racconta. La Storia a posteriori è sempre di parte, ma anche quando l’orizzonte temporale impone di fare Storia a priori lo storico è condizionato da appartenenze, interessi, affinità culturali. E non è neanche detto che il lettore, confrontando più Storie scritte da diversi punti di vista, possa arrivare a una sintesi valida.

    Comincio a pensare che avesse ragione Cicerone! Ogni storico è immerso nei pregiudizi della sua cultura, della sua epoca, del suo paese. Qualunque Storia non può fare a meno di essere opus oratorium, e cioè un discorso di parte: un’arringa.

 

                                                 Il porfirogenito

    Ho sempre scritto che in questo blog non intendo parlare di politica spicciola, e credo di aver mantenuto la parola. Vi prego di credermi, perciò, se dico che anche questa volta non parlerò dell’ex premier né delle condizioni in cui versano la ex maggioranza e la ex opposizione. Di queste cose si dilettano i giornalisti: sapendo, come ben sanno, che il giornale del giorno prima serve per incartare il pesce, possono permettersi di scrivere qualunque coglioneria e di smentirla il giorno dopo continuando a sostenere di aver avuto ragione prima e dopo. Ma io non ricevo uno stipendio per ciò che scrivo, quindi mi picco di scrivere soltanto cose delle quali presumo di non dovermi vergognare in futuro.

    Se fra i miei ventitre lettori ne sopravvive qualcuno di buona memoria, lo invito a ricordare quanto sono – e sono sempre stato – contrario al concetto di “senatore a vita”. Mercoledì scorso il presidente Napolitano mi ha dato un dispiacere: ne ha nominato uno.

    D’accordo: vuole fargli fare il primo ministro. Ma che bisogno c’era di farlo senatore? A vita, poi. Il primo ministro non deve necessariamente essere un parlamentare (che poi, nel caso specifico, sarebbe un parlamentare non eletto dal popolo). L’unica cosa che conta è che riceva la fiducia del Parlamento.

    Forse il Capo dello Stato vuole dare al neosenatore un crisma autorevole (un po’ come se dicesse a Camera e Senato: questo è l’omo mio!)? Allora stiamo messi male davvero, se c’è bisogno di un sigillo speciale per convincere il Parlamento. Messi male non solo dal punto di vista finanziario (questo lo sapevamo già), ma messi male come cultura politica. Sul nome del neosenatore sono già concordi il maggior partito di centrosinistra, quello di centro e, fra poco, pur tra mugugni e ripensamenti, anche il maggior partito di centrodestra. Che bisogno c’era del timbro presidenziale? Evidentemente, Napolitano teme che, dopo aver creato un governo di grosse Koalition, i galli del pollaio ricomincino immediatamente a litigare.

    In circostanze normali (ammesso e non concesso che in Italia possa esistere qualcosa di normale), il primo ministro dovrebbe avere da sé l’autorevolezza necessaria per dare l’impronta al governo. Il neosenatore ce l’ha? Lui è convinto di sì, ma forse Napolitano è meno sicuro.

    Io non sono un politico, non ho frequentazioni romane e non metto piede in Bocconi da quarant’anni, ma ho fatto a tempo a conoscere il neosenatore quando era uno degli assistenti del professor Gasparini, titolare della cattedra di Politica Economica. Non che fosse l’unico: mi par di ricordare che quella cattedra avesse almeno cinque assistenti; ma lui aveva un tono diverso. Come mai? Semplice: era “figlio di Comit”, con padre e zio saldamente arroccati nel consiglio d’amministrazione della banca, e quindi porfirogenito, nato nella porpora imperiale e destinato a grandi cose.

    Niente di male. Anche i grandi hanno dei figli ed è logico che si preoccupino di sistemarli. E se uno nasce nella porpora non è mica colpa sua. Il guaio è che anche lui, fin da allora, era convinto di dover spaccare il culo ai passeri (come diciamo noi plebei) e ha passato la vita a rincorrere questo obbiettivo. Ora che ha quasi settant’anni, sembra che ce l’abbia fatta. Onore al merito, e soprattutto alla costanza. Ma noi, che ci possiamo aspettare? Quando i politici fanno a gara per aprire le porte di Palazzo Chigi a un non-politico c’è una sola ragione: vogliono che sia lui a prendere i provvedimenti dolorosi che loro non prenderebbero mai.

    Quindi, aspettiamoci un po’ più tasse. E non illudiamoci con “questa volta paghino i ricchi” o altre ingenuità del genere. Pagheremo caro, pagheremo tutti. Con equità? No: in qualunque modo, purché procuri gettito per l’Erario. (Questa è la prima legge della Scienza delle Finanze e il porfirogenito la conosce benissimo). Poi qualcuno degli impegni presi a Bruxelles verrà faticosamente approvato a Roma. Altri no, e la Merkel si incazzerà. Allora tutti grideranno: ci vuole un governo politico! E si faranno le elezioni, e saremo daccapo a dodici.

    Il porfirogenito resterà avvolto nel laticlavio. Noi tireremo madonne.

 

                                               Ecco perché 

 

    Ecco perché non scrivo mai di politica spicciola: perché sono stufo di constatare che ho ragione. Mi dà un immenso fastidio prevedere che Tizio farà questo e non farà quello, e poi vedere che succede esattamente così. Mi fa sentire vecchio e inutile.

    Mi sono lasciato andare a prevedere cosa possiamo aspettarci dal porfirogenito, pronosticato salvatore della Patria e acclamato da destra e da sinistra. Be’, eccolo qua.

    Quarantatre minuti di chiacchiere che tutta la stampa in coro si affretterà a esaltare come un discorso “alto”, una visione “nobile”, un estratto di politica “vera”, e via sproloquiando piaggerie che domani si convertiranno in improperi o, nel migliore dei casi, nella incoronazione a “riserva della repubblica”. Quante riserve ha la repubblica! Una panchina che Lippi manco se la sognava.

    Nei due minuti restanti il porfirogenito è andato al sodo. E guarda un po’: reintrodurrò l’Ici, taglierò qualche spesa ma non vi dico dove, darò un’altra botta alle pensioni. Come volevasi dimostrare.

 

                                             Teologia greca

 

    Quanto mi stanno sulle balle quei commentatori che nelle prefazioni ai poemi della classicità greca e latina sorridono degli dei di Omero perché vengono rappresentati intenti a mettersi reciproche corna o a litigare come lavandaie!

    Questi paludati commentatori con la puzza sotto il naso sono come i ragazzi che imbrattano i muri: semplicemente non resistono alla tentazione di sputtanare il mostro sacro. Non sanno, o non capiscono, o si rifiutano di vedere, che anche nella cultura greca e romana Dio era veramente Dio, onnipresente e innominato, e ogni singolo dio (Apollo, Dioniso, Diana, Demetra, ecc.) non era che una delle sue infinite manifestazioni antropomorfe (cosa che, a pensarci bene, non è poi molto distante dall’affermazione biblica secondo cui Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza).

    Che le cose stessero davvero così, e cioè che anche Greci e Latini credessero in un Dio unico, non è un’idea mia. Ci sono le prove, e si chiamano Pitagora, Parmenide, Platone, Plotino, Proclo, Giamblico. Si dirà: ma questi sono filosofi; il popolino credeva negli dei, non in un Dio unico.

    Ma davvero? Ma dite sul serio? Sarebbe questo ciò che distingue la religiosità di allora da quella di oggi? E allora come la mettiamo con i devoti di San Gennaro, con i pellegrini di San Giacomo di Compostela, della vergine di Fatima, di Guadalupe in Messico, di Lourdes e di Medjugorje (o come diavolo si scrive), eccetera eccetera? Sarebbero gente che, per il fatto di credere a un santo o alla Madonna, non crede in Dio? La verità è che un pantheon di figure divine o semidivine esisteva nell’antichità ed esiste oggi, più o meno con le stesse caratteristiche e, spesso, con chiari connotati di superstizione. Da questo punto di vista, che il monoteismo ebraico-cristiano-islamico abbia rappresentato un grande passi avanti è un’affermazione temeraria.

    Secondo Plotino (II secolo d.C.), la realtà come la vediamo e tocchiamo promana dalla sovrabbondanza di un Essere primigenio le cui caratteristiche sono l’essere e l’unità. Solo queste e nessun’altra. La visione di Plotino sintetizza quelle di Platone (V secolo a.C.), Parmenide (VI secolo) e Pitagora (ancora più antico). L’Uno plotiniano non agisce e addirittura non pensa. L’unica sua azione, fondamentale e indispensabile, è essere. Ma questo suo essere è così sovrabbondante che l’eccesso di essere diventa pensiero (Noùs, come lo chiama Plotino). E anche il Noùs è così sovrabbondante che l’eccesso di pensiero diventa Anima del Mondo. Da questa Trinità (oops!) origina la realtà che ci circonda e di cui facciamo parte. 

    Plotino aggiunge che è possibile (ma molto difficile) risalire estaticamente la scala di questa genealogia e arrivare a riunirsi con l’Uno. Porfirio attesta che Plotino ci riuscì quattro volte nel corso della sua vita. Dall’insistenza di Plotino sull’ek-stasis prese il via un movimento esoterico che ha attraversato diciotto secoli come un fiume carsico, approdando anche a manifestazioni discutibili come la magia bianca e nera o le pratiche contemplative ombelicali.

    Proclo approfondì il discorso di Plotino ricostruendo, a gruppi di tre, la genesi di tutti gli dei pagani come emanazione del Noùs e dell’Anima del Mondo. Nel suo sistema, ciascuno degli dei (Apollo, Marte, Venere, ecc. ecc.) veniva ad assumere le caratteristiche di una specifica emanazione divina, collocata in un’orbita particolare, più o meno vicina al Noùs o all’umanità. Si trattava, in sostanza, di una sistemazione filosofica di ciò che la religione greco-romana era sempre stata: l’identificazione di Dio nelle più diverse manifestazioni della natura. L’edificio romano del Pantheon, che conteneva le statue di tutti gli dei dell’impero, serviva appunto a identificare i diversi nomi che diversi popoli davano allo stesso dio. Già di per sé, questo metodo indicava la propensione degli antichi a trovare una sostanziale unità nel senso del divino.

    Giamblico portò all’eccesso il sistema di Proclo, moltiplicando i gruppi di tre in modo da includere nel sistema ogni genere di spiriti, angeli, demoni, e indicando i modi per raggiungere ciascuna specifica divinità. La pratica di invocare gli spiriti si chiamò teurgia e sopravvisse per secoli nella magia nera e nelle pratiche collegate. Ma i voti, i fioretti, le invocazioni a questo o a quel santo per ottenere una grazia, sono poi molto diversi? Hanno la forma di una devota richiesta anziché quella del comando per mezzo di un incantesimo, ma la sostanza sta pur sempre nel ritenere possibile e fruttuoso rivolgersi alla divinità, direttamente o tramite intermediario, per ottenere un favore. E questa è o non è superstizione?

    Insomma: smettiamo di pensare che gli stessi Greci che inventarono la geometria e gli stessi Romani che inventarono il diritto fossero degli emeriti imbecilli in materia di religione. Certo, erano superstiziosi. Ma non lo siamo anche noi? Loro avevano dei che presiedevano a ogni caratteristica umana (e per questo litigavano fra loro: perché anche noi siamo continuamente in contraddizione con noi stessi). Noi, invece di dei, abbiamo santi che proteggono la vista o l’udito, o che fanno i patroni di questo o quel mestiere. Non ci vedo grandi differenze. Semmai, la visione antica mi sembra psicologicamente più ricca.

    Insomma: non è proprio il caso di sentirci superiori e di ridere degli dei dell’Iliade. La rivoluzione francese avrà anche proclamato l’avvento della dea Ragione, ma basta spostarsi di poco per vedere la realtà da un’altra prospettiva e scoprire che nihil sub sole novi.   

 

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