Tradurre e capolavorare

Non so chi altro, se non Giovanni Agnoloni, avrebbe potuto cimentarsi con un testo come questo. “Lettere delle piante agli esseri umani” è un per noi stranissimo testo, tra il poetico e il filosofico, scritto in svedese da Sanja Särman, filosofa e artista nata a Hong Kong e laureata a Uppsala.

Il testo si dipana in diciannove lettere che le piante, salvo due o tre eccezioni, indirizzano all’umanità. Non si può dire che il contenuto delle lettere (visto con la mentalità occidentale) sia particolarmente vario o che sviluppi un ragionamento articolato. Del resto, si sa, le piante raramente hanno una voce e, se parlano, lo fanno soltanto grazie al vento. Ma l’autrice, pescando nel retroterra culturale cinese, porta avanti un testo sottilmente poetico e allusivamente filosofico. Le piante dicono: l’umanità vive grazie a noi, grazie alla nostra attività di ossigenatrici ma anche grazie al fatto che siamo noi a nutrire animali erbivori ed esseri umani. Gli uomini ci uccidono, ma noi non serbiamo rancore: sappiamo di essere indispensabili e siamo molto al di là di questo. Non ci perdiamo in lamenti.

Ebbene: come entrare in discussione con questa tesi? Mettendoci forse a confrontare la filosofia orientale con l’ambientalismo più o meno scientifico. Oppure criticando un pensiero così esotico da apparirci inarticolato. Credo che l’uno o l’altro approccio non coglierebbero il senso del libro.

Chi dimostra di averlo colto nel profondo è stato il traduttore. Agnoloni padroneggia, oltre all’inevitabile inglese (ha tradotto, per esempio, l’autobiografia di Kamala Harris), una varietà di idiomi del Nord Europa (dal polacco al lituano allo svedese, e altri ancora), ma soprattutto è uno di quei rari traduttori che sa entrare nello spirito dei testi e si impegna a restituire in italiano le atmosfere e persino le sonorità, gli odori e i sapori del testo originale. Sì, signori: i testi hanno anche odori e sapori, sensazioni che non si comunicano semplicemente trasponendo sostantivi e aggettivi come suggerisce il vocabolario, ma introiettando il testo, vivendolo e reinventandolo nella nostra lingua. Agnoloni è uno dei non molti che lo sanno fare. E noi possiamo soltanto dirgli: Grazie!

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    Samir, semplice e complicato

    Lo conobbi quando avevo i canini aguzzi e giravo per il Medio Oriente in cerca di appalti. Samir era un agente marittimo con gli uffici in due stanzette buie in fondo a un vicolo: non aveva bisogno di impressionare i clienti, preferiva disorientarli. Gli proposi di concorrere insieme a un appalto ad Alessandria d’Egitto.

Era un buon contratto, ma avrei dovuto sapere che la burocrazia egiziana è intricata come il delta del Nilo e le pratiche finiscono sempre per incagliarsi in qualche meandro limaccioso. Non me ne preoccupai: in un modo o nell’altro ero sicuro di cavarmela.

    Vincemmo la gara e aprii il cantiere. Ma i pagamenti non arrivavano. Ogni fine mese incontravo Samir ad Alessandria: tiravamo le somme del dare e dell’avere, e lui mi guardava da dietro le ciglia socchiuse, in silenzio. Io sorridevo e lo invitavo a cena. 

    Quando si era trattato di preparare l’offerta aveva tirato in lungo per due settimane: prima era sparito, poi aveva preteso referenze e affidavit. Aveva sfoderato un’infinità di obiezioni, una più capziosa dell’altra. Non sapevo più cosa pensare. Sospettavo che si fosse inteso sottobanco con la concorrenza e stavo per mandarlo al diavolo. Invece, di punto in bianco, cominciammo a lavorare in pieno accordo.

    Tutti quegli indugi erano serviti per studiarmi. Samir, un omone dalla pelle scura e dai lineamenti negroidi, voleva sentirsi ispirare una fiducia che andasse oltre la stima e che si arrestasse solo sulla soglia dell’amicizia: valutava l’uomo che aveva di fronte e prendeva i suoi rischi. Chissà se esiste ancora gente come lui.

    Due anni prima c’era stata una guerra. Non era durata molto, ma aveva ridotto l’Egitto in pessime condizioni. E negli ultimi tempi Samir sembrava l’immagine dell’Egitto perché era ammalato, e lo sapeva. Una mattina trovai un telex sulla scrivania. Fu così che lo seppi anch’io: a Samir restavano poche settimane.

                                                       ***

    Sbarcai al Cairo in una sera d’aprile, rossa ed estenuata come gli ultimi bagliori di un incendio. A Beirut, in quei giorni, si sparava nelle strade e Zurigo era piena di libanesi. Ma erano i miei anni corsari: avevo nella pelle un mal d’Africa che non era nostalgia di un luogo in particolare, era una frenetica attrazione per gli aeroporti, per le camere d’albergo, per tutto ciò che sapeva di provvisorio.

    Non feci caso al sudiciume, al fetore di urina fermentata, alle attese senza spiegazioni. Ci avevo fatto l’abitudine. Ai cancelli di imbarco per Jeddah, Riyad e Dharan, bivaccavano squadroni di manovali avvolti in luride ghellabeie, con la testa coperta da luride sciarpe arrotolate. La Arab Contractors li strappava alle campagne e li sparpagliava nei campi petroliferi del deserto arabico. Qualcuno faceva bollire l’acqua per il the sui fornelli a spirito, altri dormivano rannicchiati su una fila di sedie, altri ancora guardavano nel vuoto, fissi e imbambolati, con l’espressione di chi ha messo il futuro nelle mani di Allah. E tutt’attorno c’era la sinfonia del vociare arabo, che ha la monotona uniformità e gli scoppi cacofonici di un’orchestra che accorda gli strumenti aspettando l’entrata del Maestro.

    Aid, l’autista, aveva poche novità. No, i pagamenti non erano arrivati. Sì, Samir stava per lasciarci: ormai non usciva più di casa. Dai finestrini aperti entrava aria tiepida, densa come brodo. Sfilammo lungo un viale fiancheggiato da ville liberty sepolte nella polvere e nella sporcizia. Arrivammo in vista della Cittadella quando il tramonto proiettava le ombre dei minareti fino alle cupole della Città dei Morti. Poi, quando la collina fu alle spalle, piombammo in mezzo al caos e al lerciume cairota. I bar rigurgitavano sulla strada una umanità in ciabatte e ghellabeia seduta a fumare sudici narghilè; le macellerie protendevano sulla strada ganci da cui pendevano pezzi di carne sommersa dalle mosche; e centinaia di storpi si trascinavano in mezzo al traffico urlando suoni gutturali contro gli ululati dei clacson; e le vie erano ingombre di gente, di autobus stracolmi, di camion che cadevano a pezzi, di carretti, asini e dromedari; e sui marciapiedi ragazzini armati di canne sottili spingevano avanti in fila indiana bufali magrissimi, con le ossa in rilievo sotto la pelle floscia.

    Poi la strada si avvitò in ampi tornanti su per un’erta bianca di calce. In cima, con un brusco passaggio, venne avanti il deserto, e con il deserto il silenzio. Aid guidava e taceva. Se fosse stato solo avrebbe preso la strada del delta, piena di villaggi dove ci si può fermare, bere un the, fumare in pace una sigaretta. Gli arabi odiano il deserto, gli europei ne sono affascinati. Ma gli europei sono pazzi.

    Il sole era caduto dietro l’orizzonte, eppure il crepuscolo non finiva mai. A poco a poco, la luna in cielo aveva preso a splendere fino a incendiarsi come il faro di Alessandria. Il deserto cambiava continuamente, con infinite sfumature di grigio che affondavano dentro a voragini buie e risalivano lungo creste metalliche come lame di falci.

    Ore e ore di riflessi e fuochi fatui, sigarette, colpi di sonno. E in fondo all’ultimo risveglio Alessandria, il mare, l’aria umida e salata.

                                                ***

    Davanti a me avevo due giorni di lavoro e non volevo pensare ad altro, ma non potevo lasciare l’Egitto senza rendere visita a Samir. A meno che nel frattempo le cose precipitassero.     

    Già, e i funerali? Tappeti rossi, caffè amaro, la fila delle sedie, i parenti seduti con gli occhi bassi a spiare chi si alza per primo. Sarebbe stato anche peggio.

    No, non potevo svignarmela: dovevo affrontare la situazione. E con quella spina nel cervello giravo per uffici, sbrigavo pratiche, battevo cassa. Tra un appuntamento e l’altro, nelle ore di anticamera, pensavo: che colore avrà la mia faccia quando andrò da Samir e gli dirò: “Prima di partire ho disposto un bonifico, i tuoi soldi sono in viaggio, dovresti riceverli da un giorno all’altro”?

    Se mi vedessi in uno specchio morirei di vergogna. Lui leggerà la menzogna sul mio volto, io vedrò la mia faccia nei suoi occhi. Meglio dirgli la verità. Gli chiederò di aver pazienza.

    Ma quale pazienza? Lui non ha più tempo. Mi griderà sul muso: voglio i miei soldi, voglio vederli qui con me come se fossero i miei figli, perché sono MIEI.                                   

    No. Non si fa così. Andrò in casa sua, dirò le mie menzogne e lui sarà contento. Farà finta di credermi. Fingerà anche con se stesso, perché non ha altra scelta. E io sarò cinico, crudele e sorridente.    

                                                ***

    Ogni tanto mi capita di svegliarmi al buio e mi pare di essere ancora là, fra le lenzuola umide, in una notte di odori e di suoni sconosciuti, in quella Alessandria semplice e complicata dove la gente ti pianta addosso sguardi che forse non hanno un significato ma sembra che celino un segreto tragicomico, la spiegazione di tutti i paradossi della vita.

    Ricordo una notte agitata, un risveglio a bocca amara. Altri incontri d’affari, e poi il pranzo con lo staff. Farli mangiar bene. Pagare il conto.

    E via, lungo la strada del delta, nella pianura dove le vele bianche appaiono e scompaiono tra gli alberi, e le feluche scivolano nei canali seminascosti, tra chiuse e ponti, casupole fangose e bufali accovacciati nella mota. E di nuovo Il Cairo, la periferia sbrindellata e puzzolente, i milioni di abitanti, i vicoli senza nome. E il Nilo, gonfio, enorme, il padre dei fiumi.

                                                   ***

    Samir abitava in un appartamento pulitissimo, con la cera ai pavimenti. Mi ricevette in camera, ma volle alzarsi dal letto. Con fatica, avvolto in una candida camicia da notte, venne a sedersi in poltrona. Sul tavolino era già apparecchiato il the, con un vassoio di dolci e pasticcini.

    Guardavo Samir e gli occhi non mi sembravano più i suoi. Aveva le guance cascanti. La voce si imbrogliava alla fine delle frasi come se gli mancasse il fiato in gola. Finse la più assoluta normalità, come se ci fossimo seduti al caffè per scambiarci notizie e pettegolezzi. Discutemmo di politica internazionale e del prezzo del petrolio. Assurdamente, sperai che si fosse messo il cuore in pace.

    Non era così. Finimmo il the, fu portato via il vassoio, e Samir, parlando come se non attendesse risposta, incominciò la sua perorazione: il mio debito era scaduto e il mancato incasso gli procurava un certo numero di inconvenienti. Li enumerò con il tono svogliato di chi adempie a un dovere. Non importava, concluse. Lui sapeva di avere a che fare con un galantuomo: era sicuro che presto avrei pagato.

    Tutto qui, un discorsetto pieno di decoro e signorilità. Appoggiò le mani sui braccioli e si affaccendò ad alzarsi per tornare a letto. Ma quando fu in piedi si voltò, come se avesse dimenticato qualcosa. Mi fissò, e i suoi occhi tornarono a essere quelli che conoscevo.

    “Non è per mancanza di fiducia. Ma è una grossa cifra.”

    Disse queste precise parole. Una bugia nitida come un mattino di primavera, detta con semplicità, così come ci si volta, si tende il braccio e si preme il grilletto. Era la vita che non voleva smettere di scorrergli nelle vene, era il gusto di viverla, l’accumulo di troppe esperienze pagate care e il desiderio di farne altre, tante altre, perché non sono mai abbastanza e invece il nostro è un tempo limitato, il cui confine non si sa mai dov’è, e all’improvviso eccolo, è qui, e non puoi farci niente.  

                                                       ***      

    Lasciai l’Egitto il giorno dopo, in un mattino di cielo limpido e aria frizzante. Dal finestrino dell’aereo vedevo una distesa uniforme, terra bruciata fino in lontananza, dove cambiava tonalità e si sgranava in una frangia confusa che a poco a poco diventava cielo.

    Laggiù, il Nilo era una striscia luccicante che tagliava il deserto e andava a conficcarsi dentro all’orizzonte; e si perdeva, semplice e complicata, nelle profondità dell’Africa.

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Samir semplice e complicato

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I Chamberlain redivivi

Leggo sulla Stampa di oggi una intervista di Francesca Paci a Marek Halter (personaggio del quale, colpa mia, ignoravo anche l’esistenza), presentato come scrittore francese di origine ebraico-polacca.

Halter fornisce un punto di vista che riesco a condividere solo fino a un certo punto. L’intervista inizia con una domanda (Siamo sull’orlo di una terza guerra mondiale?) alla quale Halter risponde: “Non c’è più uno scontro di ideologie…è una divisione di civiltà. E vent’anni fa l’Europa avrebbe potuto includere la Russia in questo riposizionamento geoculturale.”

Vero: a Pratica di Mare l’allora primo ministro Berlusconi arrivò a parlare di una Russia nella UE (e Putin fu così gentile da non mettersi a ridere). I fatti di questi giorni dovrebbero dimostrare che l’intento di Putin non è far diventare la Russia uno stato democratico e pacifico, ma tutto il contrario: vuole ricostituire l’impero zarista

In risposta a un’altra domanda, Halter prosegue citando una frase che avrebbe detto Putin in persona: “chiunque oggi non rimpiangesse l’URSS, capace di abbracciare cento nazionalità in un solo sogno, sarebbe senza cuore, ma chiunque pensasse di ricostituirla sarebbe senza cervello.” Dunque, argomenta Halter, “Facciamo attenzione a non spingerlo nelle braccia della Cina”.

Il signor Halter non è neanche sfiorato dal sospetto che Putin dica a ciascuno ciò che ciascuno vuol sentirsi dire. Il signor Halter non ricorda che c’è già stato in Europa uno che giurava di volere soltanto i Sudeti e con questa scusa, creduta bovinamente da tutti quelli che credevano di salvare la pelle dandogli in pasto quel che voleva, si è preso tutta la Cecoslovacchia (e poi l’Austria, e poi mezza Polonia – l’altra metà se la prese la Russia).

L’intervistatrice fa notare qualcosa del genere, e Halter risponde: “Ma quindi cosa facciamo? Dobbiamo giocare la carta diplomatica… Alla fine Putin sarà disposto a ritirarsi se il mondo riconoscerà la Crimea.”

Eh già. Proviamo a dirlo ai georgiani e ai moldavi, che hanno appena chiesto di entrare nella UE con procedura d’urgenza. Chissà come mai sono così diffidenti…

Conclusione: “Andiamo avanti. Parliamo con Putin senza umiliarlo e ricordandoci della minaccia atomica. Fermiamo la guerra.” Evidentemente il signor Halter è convinto che con la diplomazia si possa trattenere Putin dall’occupare Odessa e forse anche di sconfinare in Moldavia. Mi permetto di non essere altrettanto fiducioso.

Ed ecco il colpo di scena finale: “Prendiamo sul serio la creazione di un esercito europeo, il cambio di passo della Germania è storico.”

Ah, storico lo è senz’altro! Scholz non ha parlato di “esercito europeo”, ha parlato di non so più quanti miliardi per la Bundeswehr (o dovrei scrivere Wehrmacht?). E dopo tanto fare affidamento sulla diplomazia, prepariamoci a combattere: sarebbe questo l’illuminato consiglio del signor Halter? Ripetere la sciagurata politica dell’appeasement che convinse Hitler a scatenare la seconda guerra mondiale? Tutto mi sarei aspettato, tranne che un ebreo avesse la memoria così corta.     

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Una recensione a “Il Caravaggio scomparso”

Francesco Improta per “Il Caravaggio scomparso” di Riccardo Ferrazzi

         Il Caravaggio scomparso di Riccardo Ferrazzi

                                                            Golem Edizioni

Riccardo Ferrazzi nella sua ultima opera Il Caravaggio scomparso, (Golem edizioni, 13,90 €), agganciandosi al genere giallo, si diverte a raccontare con piglio deciso e ritmo serrato vizi e pregi di una cittadina di provincia dell’operosa Lombardia.

La vicenda si svolge a Busto Arsizio, una cittadina con una ricca composizione etnica e sociale, dove il proprietario di una delle tante fabbrichette disseminate sul territorio scompare improvvisamente, senza lasciare tracce. Il figlio dell’industriale in questione anziché rivolgersi ai Caramba, come vengono chiamati i Carabinieri nel linguaggio quotidiano e colorito adottato dall’autore in tutta la narrazione, affida l’incarico a un aspirante giornalista che lavora, sottopagato e poco apprezzato, per il quotidiano locale, La Subalpina. Il giovane, che ha alle spalle una situazione economica e familiare alquanto precaria (la moglie lo ha abbandonato per ritornare dai genitori e per coltivare una nuova relazione sentimentale) spera di fare uno scoop che gli consenta di sistemarsi nel giornale con uno stipendio più congruo e ben altre prospettive. Colombo – è questo il suo nome, suggerito molto probabilmente dal protagonista di una famosa serie televisiva americana – viene catapultato in un’avventura pericolosa, piena di colpi di scena: un incendio, minacce, pedinamenti, percosse e addirittura il furto di un’opera d’arte. Mi sembra doveroso, a questo punto, astenermi dal procedere oltre lasciando ai lettori il piacere di scoprire gli ulteriori sviluppi di questa intricata e avvincente narrazione.

Si tratta, come abbiamo anticipato, di una vicenda dai contorni gialli ma dai toni soft. Non ci sono spargimenti di sangue né scene truculente e la violenza è ridotta ai minimi termini, ad un bernoccolo sulla testa del giornalista, che tra l’altro è l’Io narrante, e al taglio degli pneumatici della sua autovettura. Lo spunto iniziale, apparentemente banale (la scomparsa dell’industriale) ben presto, però, si dilata e finisce col mettere il nostro (anti)eroe di fronte alla mafia o meglio a una delle tante diramazioni della mafia siciliana, la Stidda. Affiora e prende piede un fatto di cronaca, avvenuto nel lontano 1969, il furto della Natività del Caravaggio dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo. Su questo episodio, che a distanza di più di cinquanta anni, nonostante le indagini frenetiche e disomogenee condotte dalle forze dell’ordine e dalla Commissione antimafia, è ancora avvolto nel mistero più fitto, sono state avanzate alcune ipotesi più o meno attendibili e altre decisamente fantasiose. Si è persino pensato che il quadro sia stato rubato per farne merce di scambio nelle trattative Mafia-Stato. Sull’argomento sono stati scritti diversi libri, di cui il più recente è quello di Michele Cuppone ed è stato realizzato un film abbastanza interessante¸ Una storia senza nome, di Roberto Andò. Non è però del furto che dobbiamo parlare e del resto Ferrazzi ne scrive solo in quanto l’indagine di Colombo, lo sprovveduto giornalista, s’intreccia ad un certo punto con la mafia. Sono i personaggi che a noi interessano, le relazioni e le dinamiche psicologiche che ne guidano le azioni: Apollonia l’angelo salvifico, almeno tale sembra in apparenza, che si prende cura di Pietro Colombo quando si reca all’ospedale con una ferita lacero-contusa in testa; Salvatore Navarra, originario di Gela come il venti per cento della popolazione di Busto Arsizio, tipico esponente di quegli “industrialotti” del nord che ostentano come un trofeo la loro amante, giovane, procace e platinata, e con altrettanta fierezza la loro fabbrichetta di cui sono ancora più gelosi tanto che vanno a dormire con la chiave dello stabilimento nella tasca del pigiama; Laura, l’antiquaria di Lugano, vera e propria dark lady, il capitano Gambardella, rigido e inflessibile capitano dell’Arma. Non mancano, poi, riferimenti al mondo chiuso della provincia, dai ritmi lenti e cadenzati con le sue piccole virtù e i suoi vizi, verso i quali l’autore essendo originario di quei luoghi (un bustocco doc), si mostra tollerante e indulgente, utilizzando talvolta colorite espressioni dialettali. Si rileva anche un implicito omaggio alla squadra della sua cittadina, la Pro Patria, che aveva militato con onore nella Divisione Nazionale, non a caso la scena campale si svolge dinanzi al glorioso stadio di calcio. Affiorano anche denunce più o meno larvate nei confronti di un giornalismo pettegolo e compiaciuto e nei confronti di ammi­nistrazioni miopi e incapaci che con i loro piani regolatori e i conseguenti sventramenti hanno procurato più danni della stessa guerra. Frequenti le citazioni cinematografiche (personaggi come Rambo, Indiana Jones e Sandokan o attori come Clint Eastwood, Tom Cruise) e letterarie (L’inverno del nostro scontento e il canto dell’allodola da William Shakespeare) che impreziosiscono l’agile, colorita e vivace narrazione di Ferrazzi, permeata di ironia o meglio ancora di autoironia, di quella superiore saggezza capace di fare i conti innanzitutto con sé stessa.  Da sottolineare, infine, l’abitudine che ha precedenti illustri dagli antichi poeti ed oratori latini fino ad Alessandro Manzoni passando per Dante e Petrarca, di rivolgersi ai lettori per mantenere un contatto diretto con gli stessi e per renderli partecipi delle sue riflessioni ed emozioni.

Valga come esempio del suo stile il brano seguente:

    Il dottor Ermenegildo Castiglioni, commercialista iscritto ai Lyons, al Rotary e forse anche alla massoneria, era uno di quelli che hanno tutte le amicizie giuste, il che faceva di lui il perfetto presidente del collegio sindacale. Peccato che avesse il vizio di parlare per allusioni e di divagare senza concludere mai un discorso: restare invischiati nella sua conversazione significava perdersi in un labirinto di sottintesi, non riuscire mai a interloquire e ridursi ad annuire come un babbuino annaspando nel flusso della chiacchiera fino a sventolare bandiera bianca.

Un divertissement colto, colorito e graffiante non privo di implicazioni culturali, sociali e politiche da gustare lentamente senza farsi prendere dalla smania di sapere come va a finire.

                                                                                   Francesco Improta

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Don Ferrante aveva ragione!

Chissà se si usa ancora nelle scuole contemporanee leggere e far leggere “I promessi sposi” (con tanto di interrogazioni). Temo di no. Altrimenti sarebbero in tanti a ricordare il personaggio di don Ferrante, studioso capace di dimostrare con logica aristotelica che la peste non esiste.

Capitolo 37

In rerum natura – diceva – non ci son che due generi di cosa: sostanze e accidenti…

E via di seguito per una pagina intera, nella quale dimostrava che “il contagio” non era né sostanza né accidente. Ma poi non poteva negare che i bubboni ci fossero e che la gente ne morisse. Lui, se non altro, non arrivava a dire che le bare di Bergamo fossero vuote.

Fin che non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l’autorità di un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi.

È il meccanismo delle fake news, per le quali non è neanche necessario essere “dotti”.

“La c’è purtroppo la vera cagione” diceva “e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra, pur così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove! E quando mai s’è sentito che le influenze si propaghino…?”   

E insisteva:

“Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! Brucerete Giove? Brucerete Saturno?”  

Be’ una consolazione postuma a don Ferrante bisogna pur riconoscerla: ai primi di dicembre del 2019 Giove è entrato in Capricorno, dove Saturno già stazionava da un po’. La funesta congiunzione si stava riformando. A ottobre 2020 è arrivata al colmo con tutti e due i pianeti in Acquario e ha proseguito fino in primavera. Alla fine del 2021 Giove passerà nei Pesci e Saturno resterà in Acquario: la congiunzione dovrebbe sciogliersi.

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Il mondo connesso

Grazie all’iniziativa delle Edizioni Galaad è oggi disponibile il volume completo dell’opus maius di Giovanni Agnoloni: Internet – Cronache della fine, che raccoglie i romanzi tra loro interconnessi Sentieri di notte, La casa degli Anonimi, lo spin off Partita di anime, e L’ultimo angolo di mondo finito.

Il senso profondo di questa tetralogia è ispirato dal connettivismo, un movimento culturale che va al di là di una corrente letteraria (pur raccogliendo diversi spunti letterari) e ha di mira una escatologia filosofica che poggia sulle intuizioni della psicologia junghiana.

Il Manifesto del Connettivismo esplicita abbastanza chiaramente al punto 5 la visione di fondo del movimento:

L’ordine esplicito dischiuso al senso è solo l’immagine proiettata di un ordine implicito irraggiungibile. Non basta dissecare il mondo per svelare la verità che nasconde. Occorre risalire il fascio di luce fino alla pellicola per comprendere da dove proviene l’immagine che vediamo. Vogliamo rimontare il flusso fino a toccare la sorgente che inganna la percezione e staccare la luce: solo così solleveremo il velo.

Si può intravedere qui la teoria platonico-junghiana dell’inconscio collettivo, come pure la sincronicità: l’impercettibile nesso che collega i fatti sincronici senza rapporti di causalità. E, per inciso, vale la pena di rilevare qui che la scienza, che relega tali fatti al livello di coincidenze (cioè fatti casuali senza significato intrinseco), sa spiegare solo un’infima parte della realtà, ma lo ammette solo a metà e si rifugia nella definizione di “materia oscura” per tutto ciò che non conosce. (Ricorrendo all’eterno, infantile, “Io lo so e non te lo dico!”).

Più si diffonde la consapevolezza di quanto siano limitate le visioni del mondo offerte dalla scienza, più riprende vigore l’intuizione di un universo naturalmente interconnesso. L’ingenuo ottimismo della scienza ottocentesca mostra ormai i suoi limiti. Il world wide web mette in comunicazione Lapponia e Patagonia, Micronesia e Azzorre, ma per dirci cosa? Il più delle volte non facciamo che scambiarci sensazioni, emozioni, intuizioni. Viene da chiedersi fino a che punto è vero che “il mezzo è il messaggio”. Forse è più vero pensare che certi mezzi aiutino a fare emergere le sensibilità condivise, le visioni fuori dagli schemi, le verità eterne.

Il grande scenario che Agnoloni ci propone in forma di romanzo rimanda naturalmente ad altri archetipi letterari, in primo luogo Tolkien e Asimov (ma non solo). In particolare, ricordano Tolkien le atmosfere sospese e la sensazione di muoversi in una Terra di Mezzo che della geografia fisica e politica conserva soltanto i nomi delle località. Di Asimov ritorna soprattutto l’odissea conclusiva, quando la saga dei robot si fonde con quella della Fondazione e la storia riparte alla ricerca, prima di Gaia, e poi della Terra perduta. Anche la “Fine di Internet” è la ricerca senza fine di un principio perduto e solo parzialmente ritrovato.

Ma se si volessero ricercare tutte le suggestioni letterarie alle quali ha attinto Agnoloni si scoprirebbero le fonti più impensate, dai Dialoghi di Platone a quelli di Giordano Bruno, dall’Asino d’oro di Apuleio al Gran teatro del mondo di Calderon de la Barca. Perché, in realtà, l’arte e la filosofia non hanno mai creduto fino in fondo al desolante meccanicismo della scienza e il viaggio iniziatico non è soltanto uno stilema, un modo di costruire una narrazione: è la spia di una necessità psicologica che tutti abbiamo dentro di noi. 

Il viaggio iniziatico è quello che ognuno intraprende nel preciso momento in cui viene al mondo. Lo stupore infantile che accompagna ogni scoperta non fa che risvegliare il ricordo del grembo materno, paradiso terrestre dove non esistono la fame, la fatica e la paura; e dove tutto ciò che ci serve conoscere ce lo ritroviamo infuso attraverso la connessione con l’organismo materno. Questa connessione è ciò che, da uomini formalmente autonomi e apparentemente disconnessi, andiamo ricercando nella natura che ci circonda come un grembo materno.

La monumentale opera di Agnoloni, per citare le sue parole, è “un chiaro invito a non distrarsi, a non prestare orecchio alle provocazioni del mondo, a non disperdere energie. Un richiamo al silenzio interiore, alla stanza dell’anima dove alberga la Fonte e da cui propaga lo Spirito.” Un richiamo che ci invita a ricercare nella Natura, al di là dell’arroganza scientifica, le vere fonti del nostro sapere.   

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FLORIDIANA

Io lo so, lo so che il chiarissimo professor Emanuele Pettener, proprio come il suo protagonista Thomas Giannini, vorrebbe sentirsi dire quanto è vero, quanto è umano il dentista wannabe scrittore, con la sua disperata voglia di vita, di sesso, di passione, attizzato da una moglie che ama tanto più quanto lei gli sta perennemente un passo avanti e, invece di sprofondarlo nell’abisso dell’inferiorità “non pur soccorre, ma al dimandar precorre”. E se non ci fosse lei…

Lo so che uno scrittore considera indispensabile, fondamentale, essere giudicato sulla verità, verosimiglianza, mendacia, follia dei suoi personaggi, e se il critico non si dilunga a esaltare la fine sensibilità che gli ha permesso di crearli (magari lasciando lì, con paterna benevolenza, una larvata critica di qualche aspetto secondario), lo scrittore piomba nel Tartaro (!) della depressione: “allora sono soltanto un macchiettista, sono buono per la commedia dell’arte, eccetera eccetera eccetera”.

Eppure lo scrittore sa benissimo (e addirittura Pettener lo insegna) che il “personaggio immortale” (tanto per fare l’esempio classico: don Abbondio) non si crea: lo si trova bell’e fatto, e l’arte dello scrittore deve essere simile a quella del pittore, che non inventa niente ma descrive il soggetto in modo da far saltar fuori quasi sbalzato quel carattere che tutti conosciamo ma nessuno aveva mai descritto in modo da farlo vivere.

Ecco, il chiarissimo Pettener, come un novello Caravaggio che trasfonde in letteratura la sua scienza descrittiva, ha sbalzato l’immagine di un personaggio eterno, immortale: il maschio latino, con tutti i suoi patetici difetti, le irrefrenabili debolezze che lo rendono così umano (e simpatico!).   

Ma qual è la tecnica con cui ha messo a segno la straordinaria performance? Una scrittura a livello stratosferico, che il sottoscritto modestissimo recensore adora, invidia, brama e vorrebbe possedere hic et nunc et in saecula saeculorum. Una scrittura circense, virtuosistica, musicale, un perpetuo cimento dell’armonia e dell’invenzione, rutilante di colori, odori, sapori, trascinata dal prorompente desiderio di vivere con intensità ogni singolo istante, inturgidita come i frequenti turgori che ancora a settantun anni benedicono le fantasticherie del nostro eroe. Una scrittura nella linea (fondamentale nella letteratura italiana) Marino-D’Annunzio-Gadda-Arbasino-Scarpa.

Pettener, che quanto a età potrebbe essere mio figlio, è un affascinante ragazzo che presenta i suoi libri con lo stesso stile con cui li scrive, e vi garantisco che vale la pena di andare ad ascoltarlo. Insegna letteratura italiana in una Università della Florida e se lo incontrate avrete il dubbio che sia un attore di Hollywood. Ma non lo è: lui i copioni li scrive (ma sa anche recitarli).

Emanuele Pettener – Floridiana – Ed. Arkadia  

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Caro Sindaco

Mentre Beppe (Grillo) litiga con Beppe (Giuseppi Conte), il beneamato sindaco di Milano, l’elevato Beppe Sala, mi fa pervenire una missiva raccomandata, denominata “Avviso Bonario”, nella quale mi intima il pagamento di euro 88 e centesimi 00. Trattasi, come avrete già immaginato, di “Sollecito di pagamento relativo a Sanzioni Amministrative al Codice della Strada, senza maggiorazioni”. Al netto dello spreco di maiuscole, mi ha intenerito quel “senza maggiorazioni”. Non oso pensare a cosa sarebbe successo se il suddetto avviso non fosse stato “bonario”.

Leggo la motivazione della Sanzione (maiuscolo, mi raccomando!) e la prima cosa che mi balza all’occhio è che la targa non è la mia. Ohibò, un errore! E mi avvio per la lunga e noiosa trafila internettica prevista per segnalare a Chi di Dovere l’imprecisione in cui è incorso. Dannazione, farei più in fretta a pagare. 

Ma non è così! L’errore è mio, e un’attenta lettura della “Data di Notifica” mi costringe a prenderne debita nota. Avevo letto 16/05 e lì mi ero fermato, pensando: accidenti, un mese e mezzo per notificare una multa! E invece la data completa è 16/05/18. L’infrazione, poi, sarebbe avvenuta il 24/03/18, più di tre anni fa. E la targa, presumibilmente (perché non ho voglia di andare a controllare), sarà quella dell’auto di allora.

In cosa è consistita l’infrazione? La spiegazione è concisa: Art. 7 CORSIA RISERVATA TLC. Sono sicuro che tutti i cittadini milanesi sanno perfettamente cosa dice l’art. 7 (del codice della strada?), possono al caso recitarlo a memoria e non hanno dubbi su cosa sia una corsia riservata TLC. Tutti, tranne il sottoscritto che, anche per questa sua confessa ignoranza, deve essere giustamente sanzionato. Ma dove sarebbe accaduto il misfatto? Il cittadino, a quanto pare, non è tenuto a saperlo. Faccia mente locale e se lo ricordi. Dopo tutto, che ci vuole? In tre anni e qualche mese ben poche cose memorabili gli saranno accadute. Figuriamoci se non ricorda il brivido di libidine con cui nel fatale 24 marzo del 2018 è transitato su una Corsia Riservata TLC! E, se non ricorda, colpa sua! Si arrangi.

Mi sono arrangiato: ho pagato.

E adesso che sono a posto col Dare, parliamo un po’ dell’Avere? Caro Beppe, da quanto tempo te ne stai a palazzo Marino? Nel tuo ufficio lavori indefessamente h24 per 365 giorni all’anno, e 366 negli anni bisestili. Ebbene: uale imponente massa di problemi ti sei trovato a dover risolvere (come per esempio la brillante operazione viabilità in Corso Buenos Aires!), se a pochi mesi dalle elezioni sei ridotto a sciorinare ai tuoi amministrati l’inefficienza comunale nella gestione delle contravvenzioni? Oh, povero martire, travolto dall’incuria delle passate gestioni! Oh, modello di efficienza che necessita di tempi tecnici (tre anni!) per esigere euro ottantotto e centesimi zero! Certo non si poteva pretendere da te l’efficienza di un Toninelli o la sapienza giuridica di un Bonafede, ma un po’ di quella spicciola lombarda concretezza, quella che fa funzionare le fabbriche, quella dell’ofellé fa’ el to mesté, quella no, eh?  

Non credo che le elezioni ci daranno mai un sindaco che mandi le multe in tempi non biblici, spiegando perché cazzo le devi pagare e cosa cazzo hai fatto per meritarti la sanzione. Ma, tenuto conto del fatto che ho ormai quasi 74 anni, forse una soddisfazione postuma l’avrò: un giorno arriverà al mio indirizzo una multa vecchia di tre o quattro anni e non la pagherò. Avrò fatto a tempo a morire.

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Parto o non parto?

Mi sveglio alle 6.00. Tiro due madonne. C’è niente da fare: posso andare a letto anche alle due, mi sveglio sempre alle sei. Ecco cosa si guadagna ad andare in pensione: non riesci più neanche a dormire!

Mi trascino a far colazione (pian pianino, telegiornale con audio ai minimi). Constato che ieri sera ho preparato le chiavi di casa, la scorta di medicine salvavita, la borsa thermos, e altri cazzi vari. Mi toccherà proprio partire.

Parto. Alle 7.30 vado al mio solito benzinaio. Un gentiluomo di colore (prego notare come sono politically correct) mi dice: no funziona! Domando: qual è la pompa che funziona? Il g.d.c. insiste: no funziona! In effetti, non funziona un cazzo.

Riparto. Trovo altro distributore. La benza sta 1,75 al litro. (E l’ENI sta soltanto a 10,5? Dovrebbe stare a 50!). Fatto il pieno, imbocco l’autostrada. Arrivo fino a Ovada e lì: coda. Lo sapevo. Non me la prendo più di tanto. Finisce la coda, supero il Turchino, scendo a Voltri, faccio tre Km e paff! Bloccato.

Non sto a tediare il colto pubblico e l’inclita partecipazione: dirò solo che, entrato in autostrada alle 8.30 sono arrivato a Savona alle 11.45. Confesso: sono riuscito a capire che cazzo voleva dire Kant con la dannata frase: “Tempo e spazio hanno realtà empirica e idealità trascendentale”, ma la dinamica (o per meglio dire la statica) delle code autostradali continua a sfuggirmi imperterrita. Posso capire che, quando da tre corsie si passa a due e poi a una sola, si forma un imbuto dove il traffico ristagna; ma una volta incolonnati si dovrebbe marciare. Magari a passo d’uomo, ma muoversi, perdio! Posso perfino accettare che, una volta incolonnati, qualunque sia pur minima incertezza si ripercuota sulla coda provocando degli stop and go. Ma comunque, magari a balzelloni, avanti si deve pur andare. O no?

No. Quando sei in coda DEVI stare fermo per interi quarti d’ora. Perché la coda non si muove senza l’intervento di cherubini e serafini appositamente calati dall’empireo (i quali cherubini e serafini devono anche essere gente incazzosa assai, che bisogna pregare e implorare a lungo, prima che si decidano a calare fin quaggiù per darci una mano.

Totale: sono arrivato. Sono sano e salvo. Magari incazzato come una iena, ma ancora vivo. E adesso, please, intonate pure il coro: ah, come sei fortunato tu che stai al mare!

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